Lo faccio per me, per il mio futuro.
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CAPITOLO III ▪
Il
silenzio regnava sovrano: l’iPod si era spento, seguito da qualche imprecazione di Étienne che, non vedendo nemmeno un briciolo di
miglioramento da parte di Reinhart, dovette inventarsi
qualcosa. Si guardò attorno, cercando l’ispirazione adatta e, quando pensò di
averla trovata, si avvicinò al proprio zaino che aveva abbandonato in un
angolo, lo aprì e prese la prima cosa che li capitò sotto tiro: una pallina da
tennis. Ritornò da un Rain apparentemente confuso e
scocciato, si chinò a mettere per terra l’oggetto e poi, tirandosi in piedi,
sorrise – «raccoglila» gli ordinò, facendo un passo indietro.
Vide
il ballerino abbassare lo sguardo sulla palla gialla consumata, poi spostare
l’attenzione su di lui, e ancora per terra, «e vuoi che abbai mentre lo
faccio?» domandò ironico, anche se di ironia ce n’era ben poca.
Étienne sorrise,
incrociando le braccia al petto, «no, anche in silenzio», slacciò gli arti e
gli fece segno con la mano verso la pallina, «eddai,
raccoglila!» lo esortò poi, sembrava troppo entusiasta per star scherzando,
oppure stava davvero giocando e si divertiva a prendere in giro Rain.
Passo
qualche secondo prima che il ballerino sospirasse, abbassando il busso e divaricando
naturalmente le gambe rigorosamente tese – per raggiungere l’oggetto sul
pavimento. Lo afferrò e lanciò al legittimo proprietario, rimettendosi dritto,
«contento?». Non sono il tuo cane,
pensò – sperando per Étienne che dietro alla sua
richiesta ci fosse una didattica sensata… altrimenti
lo avrebbe preso a pugni.
«Uhm»
iniziò, infilando una mano in tasca e tenendo la pallina da tennis con l’altra.
Giocava a fare il serio, da una parte, ma dall’altra era seriamente
intenzionato ad aiutarlo; beh, come fai a non essere disponibile verso una
persona che per raccogliere qualcosa da terra preferisce fare una spaccata
piuttosto che flettere le ginocchia? La situazione era assurda, divertente e
vagamente interessante. «Non sono per niente contento, Rain»
borbottò, socchiudendo gli occhi – ok,
forse stava giocando un po’ troppo, «non ho mai visto nessuno raccogliere
una pallina da terra in quel modo. Sei troppo teso, amico» convenne infine,
ritornando allo zaino per riporre la pallina al suo posto.
Il
biondo si riprese la felpa, infilandosela addosso e tirando la zip fino a metà
del busto, mostrando ancora una parte della maglia nera.
«Dove
vai?» chiese l’altro, guardandolo con qualcosa che a Étienne
parve disperazione, ma probabilmente era il suo sguardo – o lo sguardo di
qualcuno che veniva scaricato di sana pianta senza aspettarselo. Si era concentrato troppo sul fatto che non
sa piegarsi per raccogliere qualcosa da terra per accorgersi che me ne stavo
andando, fantastico.
«A
casa, sai, abito lì» ribatté quasi con sarcasmo, infilandosi la borsa a
tracolla e sorridendogli. «Ci vediamo a lezione, Reinhart»,
si chiamava così, no? Ricordava il soprannome, lo aveva sentito da qualche
compagno e da lui stesso, quando si erano presentati qualche minuto prima di quella
situazione.
«Ed
io che pensavo vivessi sotto un ponte, a quanto pare no» borbottò a voce
abbastanza alta per farsi sentire, alzò lo sguardo verso di lui: negli occhi
c’era dipinta quell’espressione di chi continuava a sentirsi smarrito. «E per
la storia della pallina, dell'abbaiare e il resto?».
«Ti
ho già detto qual è il tuo problema: sei teso! Come se avessi ingoiato un palo,
hai presente?» si appoggiò allo stipite della porta, il freddo della sera di
settembre entrò nell’aula come una boccata d’aria fresca.
C’era
una certa tensione che abbracciava tutta la colonna vertebrale di Reinhart, qualcosa che gli impediva di essere tranquillo
nonostante avesse compreso il suo problema – ma come diavolo faceva a
risolverlo? Sospirò esasperato, lo sguardo sui propri piedi nascondeva la
tensione, contò fino a tre per calmarsi – o quantomeno sembrarlo – e poi
ritornò a discutere con Étienne. Si sentiva un idiota
ad aggrapparsi così insistentemente ad una persona, ma alla fine non era colpa
sua: era il biondino che sarebbe
rimasto con loro per “aiutarli”, e lui ne stava solo approfittando. Era tutto
legittimo e onesto – ma vagamente imbarazzante e scocciante. Non avrebbe
sopportato l’idea di non saper ballare.
«E
ora che me lo hai detto? Lo risolvo raccogliendo una pallina?» sbottò tutto
d’un tratto, rimanendo al proprio posto. Gli occhi castani si scontrarono con
quelli azzurri dell’altro – bramando una risposta concreta che non c’entrasse con il prendere qualcosa da terra.
Étienne ridacchiò, ma
in un modo così spontaneo che Rain non si sentì
offeso, «che ne dici di parlarne fuori di qui? Secondo me è questo posto che ti
rende così intrattabile…». Si accorse di aver usato
un aggettivo poco adatto alla situazione, ma ormai era troppo tardi.
«Non
sono intrattabile».
«Certo,
scusa» minimizzò, agitando la mano, «sabato avete lezione, no? Che ne dici se
ti porto a vedere come si balla davvero, Rain? L’ho
detto anche oggi che avete bisogno di uscire!» c’era sincerità nella sua voce,
qualcosa che dava la sicurezza all’altro che Étienne
non gli avrebbe dato buca. «Prendere o lasciare» aggiunse poi, arricciando le
labbra.
Reinhart non rispose
subito: sto diventando un cane, uno
stupido cane. L’idea che lo “portasse fuori” lo faceva sentire proprio come
un animale domestico – considerando poi quella specie di esercizio. Beh, non
aveva tutti i torti. Ci pensò un attimo, considerando tutte le variabili e
constatando infine che, gira e rigira, non c’era nulla di male. Lo faccio per me, si disse, cercando di
auto convincersi, per il mio futuro.
«Va bene, ma se non rientro ad un certo orario mi chiudono fuori, lo sai,
vero?» domandò retorico – e dopo quella lo avrebbe lasciato andare.
«Lo
so, tanto il posto non è molto lontano… credo» e
sorrise, lasciando che una scarica di adrenalina riscaldasse il corpo di Reinhart – si sarebbe pentito di essersi affidato alle mani
di quel tipo, lo sapeva. «Allora ci
vediamo sabato, Rain» fece un segno con la mano e
sparì nella sera dietro l’uscio.
L’altro
non disse più nulla. Sistemò l’aula e tornò in camera.
Si
aspettava di trovare Brice già avvolto dalle coperte,
stretto nell’abbraccio di Morfeo, ma al suo rientro l’amico era ancora sveglio
e – con uno sbadiglio – lo accolse con il fare di un investigatore privato: «Si
può sapere dove cazzo sei stato?» gli chiese, e Rain
si strinse nelle spalle, prendendosi la libertà di non rispondere.
Avrebbe
voluto sbattergli in faccia il fatto che sarebbe uscito con il biondino che gli
piaceva tanto, ma non gli parve il caso – stronzo
sì, ma non fino a questo punto. Non era un appuntamento. «Ero a ballare, Brì» – lo chiamò con quello stupido soprannome che gli dava
sui nervi, sedendosi poi sul materasso: non voleva parlare di Étienne, più che altro perché sapeva che Brice lo avrebbe inondato di domande imbecilli, a cui
sarebbero seguite frecciatine altrettanto idiote. Non avrebbe sopportato di
sentirlo farneticare di eventuali attrazioni fisiche e sessuali che non
c’erano, quindi si spogliò senza troppe cerimonie, deciso a farsi una doccia
prima di infilarsi sotto le coperte.
«Certo
che sei uno stronzo, potevi dirmelo» ribatté l’altro, accingendosi ad andare a
letto. «Sarei venuto anche io, invece di restare qui a leggere…»
spostò gli occhi sul libro che stringeva fra le dita, per poi riportarli sul
suo compagno di stanza con fare accusatorio, «… questo coso!» concluse
sbrigativo, poggiando poi il tomo sul comodino, accanto alla finestra.
Rain non disse
niente, si limitò a tirargli il cuscino addosso, dirigendosi poi verso il
piccolo bagno che condividevano – così come l’intera stanza. Era come un
matrimonio forzato, ma dopo un po’ ci si faceva l’abitudine: io rispetto i tuoi spazi e tu i miei, e
vedrai che nessuno si farà del male – era stato questo il tacito accordo
che avevano stretto, e ad entrambi stava bene così.
«Il
giorno in cui ti vedrò sorridere degli arcobaleni coloreranno il cielo, e poco
dopo arriverà la fine del mondo!» affermò Brice,
impossessandosi ufficialmente del guanciale – lo stesso che Rain
avevo usato come arma.
«Lascia
che ti dica una cosa, Brice: sei peggio di mia madre,
e ti assicuro che lei è davvero insopportabile» gli rispose recuperando un
asciugamano pulito – questa è una
violazione di spazio vitale.
«Come
fai a dire che è insopportabile se la vedi solo alle festività comandate?»
domandò retorico l’altro, con il chiaro obbiettivo di farlo irritare e basta,
ma fu preso in contro piede dalla risata pressoché immotivata dell’amico.
«Touché… ma
vederla alle festività mi basta, te lo assicuro» ribatté, prima di entrare nel
bagno e aprire l’acqua della doccia.
«Per
oggi siamo a posto così, la lezione è finita!» commentò la Madame, congedando gli alunni e salvando Rain
da ulteriori commenti di Brice su quel biondino che – volente o nolente –
sarebbe diventata una costante di quelle lezioni. Non che la sua presenza lo
infastidisse: erano gli apprezzamenti di Brice che lo
irritavano.
Lasciò
che gli altri recuperassero le loro cose e si spostassero negli spogliatoi e,
mentre la Madame raccoglieva la sua
borsa, si avvicinò ad Étienne, intento a giocare con
una delle sue collane.
Voleva
chiedergli conferma per quella sera, e poi mettersi d’accordo sull’orario e il
punto d’incontro, ma appena aprì bocca, appena le sue labbra proferirono un «Ehy…», la voce dell’insegnante lo interruppe: «Étienne, prendi la borsa, per favore» disse.
La
donna catturò l’attenzione del suo interlocutore che, prettamente, le rispose «lasciala
lì, mamma. Adesso la prendo io».
Mamma. L’ha
chiamata mamma?
– la testa di Rain fece cortocircuito per qualche
secondo, cercando di metabolizzare la situazione. «Joëlle Boulogne
è tua madre?» gli chiese incredulo e palesemente sconcertato, «potevi dirmi che
era tua madre!».
Étienne lo guardò, le
mani sui fianchi e il sorriso stampato sul volto, lo stesso che gli arricciava
le labbra la sera in cui gli aveva chiesto di raccogliere quella stupida
pallina, «non mi hai chiesto chi fosse mia madre» rispose semplicemente.
Uno
dei tanti insulti della Madame gli
tornò alla mente: quel lunedì, quando se l’era presa con i suoi arabesque, aveva detto qualcosa in
merito ai ragazzetti di strada che muovevano i fianchi – ora si spiegano molte cose, pensò.
«Non
sapevo che avesse un figlio…» si limitò a dire, quasi
avesse voluto giustificarsi. «Comunque volevo chiederti a che ora ci troviamo
stasera, dato che martedì sei sparito» continuò, riportando il discorso al
punto focale, così da poter raggiungere gli altri il più in fretta possibile –
aveva un’altra lezione, dopo.
Il
ragazzo davanti a lui sorrise, trattenendo a stento una risata. «Pensa che è
anche stata sposata, una volta… poi ha divorziato»
commentò, come se la separazione dei
suoi genitori non lo ferisse o riguardasse in alcun modo, cercando poi di
tornare vagamente serio. «Ci vediamo qui fuori alle nove, va bene?» gli
rispose, chinandosi a recuperare la borsa di sua madre, «così hai anche il
tempo di digerire la tua deliziosa
insalata scondita» aggiunse poi, prendendo il borsone a tracolla.
Da cane a mucca,
insomma
– Rain si sforzò di ignorare l’ennesima presa per il
culo e cercò di sorridere, «ceniamo presto, come i frati, e poi facciamo
autoflagellazione, quindi non c’è pericolo che non digerisca» ribatté acido, «a
stasera, allora» concluse poi, sbrigativo, incamminandosi verso gli spogliatoi.
«Si
impara con la pratica. Che si tratti di imparare a danzare facendo esperienza
di ballo,
oppure
imparare a vivere facendo esperienze di vita, il principio non cambia.»
– Martha Graham –
WE
LIVE AND BREATHE WORDS – note d’autrici.
Puntuali, e questa cosa ci rende onore,
insomma.
Prima di tutto vogliamo spiegarvi il perché
di questo problema di Rain. L’idea è venuta da yingsu che ha
gentilmente illustrato il problema del “certe cose ti rimangono”, ovvero:
quando faceva ginnastica artistica le dicevano di tenere le gambe tese, e ora
che non la fa più, continua a tenerle in questo modo. E’ facile individuare
anche alcuni ballerini – o quantomeno quelli che lo sono stati – che continuano
ad avere una postura eretta, la schiena drittissima e il collo alto.
Insomma, hanno detto a Rain
di essere teso come una corda di violino, ma il povero ha preso troppo sul
serio il tutto – così come gli altri – e non riesce a capire che dovrebbe
smollarsi, o forse lo capisce ma non sa come fare.
Per questo esiste Étienne
che, come scritto qui, è figlio dell’insegnante. Speriamo che non fosse tutto
troppo evidente e che il “colpo di scena” vi abbia stupito un po’ XD ♥
Per oggi è tutto, speriamo che abbiate
gradito il capitolo e che la storia non vi stia deludendo~
papavero radioattivo.