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Autore: papavero radioattivo    02/02/2014    4 recensioni
[...] sembrava che lo guardasse, che lo guardasse davvero: che gli sbirciasse l’anima per dirgli “tu puoi farlo, puoi ballare”. ― DAL CAPITOLO II.
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Esiste un abisso fra un ballerino classico e uno di street dance, un divario difficile da colmare, ma forse non impossibile. Due mondi diversi che collidono, due ragazzi con la passione per la danza. Questa è la loro storia d'amore un po' da film, un passo a due fatto di promesse e carezze. Perché un solo ballo basta a farti innamorare.
Reinhart ed Étienne sono immersi in due vite opposte di Cannes, in Costa Azzurra. Tra saggi di danza, discoteche, caviglie rotte e insalate per pranzo impareranno a conoscersi e a conoscere che una birra e un pezzo di cioccolato ogni tanto non possono rovinare la carriera di un ballerino - e una verità non può essere così dolorosa come ci si aspetta.
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→ linguaggio scurrile e lievissimi riferimenti a tematiche sessuali, la storia non prenderà nessuna piega "delicata" e rimarrà piuttosto sul comico.
→ lieve presenza di elementi angst durante l'evoluzione della trama.
Genere: Angst, Comico, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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Lo faccio per me, per il mio futuro.

CAPITOLO III

 

 

 

 

Il silenzio regnava sovrano: l’iPod si era spento, seguito da qualche imprecazione di Étienne che, non vedendo nemmeno un briciolo di miglioramento da parte di Reinhart, dovette inventarsi qualcosa. Si guardò attorno, cercando l’ispirazione adatta e, quando pensò di averla trovata, si avvicinò al proprio zaino che aveva abbandonato in un angolo, lo aprì e prese la prima cosa che li capitò sotto tiro: una pallina da tennis. Ritornò da un Rain apparentemente confuso e scocciato, si chinò a mettere per terra l’oggetto e poi, tirandosi in piedi, sorrise – «raccoglila» gli ordinò, facendo un passo indietro.

Vide il ballerino abbassare lo sguardo sulla palla gialla consumata, poi spostare l’attenzione su di lui, e ancora per terra, «e vuoi che abbai mentre lo faccio?» domandò ironico, anche se di ironia ce n’era ben poca.

Étienne sorrise, incrociando le braccia al petto, «no, anche in silenzio», slacciò gli arti e gli fece segno con la mano verso la pallina, «eddai, raccoglila!» lo esortò poi, sembrava troppo entusiasta per star scherzando, oppure stava davvero giocando e si divertiva a prendere in giro Rain.

Passo qualche secondo prima che il ballerino sospirasse, abbassando il busso e divaricando naturalmente le gambe rigorosamente tese – per raggiungere l’oggetto sul pavimento. Lo afferrò e lanciò al legittimo proprietario, rimettendosi dritto, «contento?». Non sono il tuo cane, pensò – sperando per Étienne che dietro alla sua richiesta ci fosse una didattica sensata… altrimenti lo avrebbe preso a pugni.

«Uhm» iniziò, infilando una mano in tasca e tenendo la pallina da tennis con l’altra. Giocava a fare il serio, da una parte, ma dall’altra era seriamente intenzionato ad aiutarlo; beh, come fai a non essere disponibile verso una persona che per raccogliere qualcosa da terra preferisce fare una spaccata piuttosto che flettere le ginocchia? La situazione era assurda, divertente e vagamente interessante. «Non sono per niente contento, Rain» borbottò, socchiudendo gli occhi – ok, forse stava giocando un po’ troppo, «non ho mai visto nessuno raccogliere una pallina da terra in quel modo. Sei troppo teso, amico» convenne infine, ritornando allo zaino per riporre la pallina al suo posto.

Il biondo si riprese la felpa, infilandosela addosso e tirando la zip fino a metà del busto, mostrando ancora una parte della maglia nera.

«Dove vai?» chiese l’altro, guardandolo con qualcosa che a Étienne parve disperazione, ma probabilmente era il suo sguardo – o lo sguardo di qualcuno che veniva scaricato di sana pianta senza aspettarselo. Si era concentrato troppo sul fatto che non sa piegarsi per raccogliere qualcosa da terra per accorgersi che me ne stavo andando, fantastico.

«A casa, sai, abito lì» ribatté quasi con sarcasmo, infilandosi la borsa a tracolla e sorridendogli. «Ci vediamo a lezione, Reinhart», si chiamava così, no? Ricordava il soprannome, lo aveva sentito da qualche compagno e da lui stesso, quando si erano presentati qualche minuto prima di quella situazione.

«Ed io che pensavo vivessi sotto un ponte, a quanto pare no» borbottò a voce abbastanza alta per farsi sentire, alzò lo sguardo verso di lui: negli occhi c’era dipinta quell’espressione di chi continuava a sentirsi smarrito. «E per la storia della pallina, dell'abbaiare e il resto?».

«Ti ho già detto qual è il tuo problema: sei teso! Come se avessi ingoiato un palo, hai presente?» si appoggiò allo stipite della porta, il freddo della sera di settembre entrò nell’aula come una boccata d’aria fresca.

C’era una certa tensione che abbracciava tutta la colonna vertebrale di Reinhart, qualcosa che gli impediva di essere tranquillo nonostante avesse compreso il suo problema – ma come diavolo faceva a risolverlo? Sospirò esasperato, lo sguardo sui propri piedi nascondeva la tensione, contò fino a tre per calmarsi – o quantomeno sembrarlo – e poi ritornò a discutere con Étienne. Si sentiva un idiota ad aggrapparsi così insistentemente ad una persona, ma alla fine non era colpa sua: era il biondino che sarebbe rimasto con loro per “aiutarli”, e lui ne stava solo approfittando. Era tutto legittimo e onesto – ma vagamente imbarazzante e scocciante. Non avrebbe sopportato l’idea di non saper ballare.

«E ora che me lo hai detto? Lo risolvo raccogliendo una pallina?» sbottò tutto d’un tratto, rimanendo al proprio posto. Gli occhi castani si scontrarono con quelli azzurri dell’altro – bramando una risposta concreta che non c’entrasse con il prendere qualcosa da terra.

Étienne ridacchiò, ma in un modo così spontaneo che Rain non si sentì offeso, «che ne dici di parlarne fuori di qui? Secondo me è questo posto che ti rende così intrattabile…». Si accorse di aver usato un aggettivo poco adatto alla situazione, ma ormai era troppo tardi.

«Non sono intrattabile».

«Certo, scusa» minimizzò, agitando la mano, «sabato avete lezione, no? Che ne dici se ti porto a vedere come si balla davvero, Rain? L’ho detto anche oggi che avete bisogno di uscire!» c’era sincerità nella sua voce, qualcosa che dava la sicurezza all’altro che Étienne non gli avrebbe dato buca. «Prendere o lasciare» aggiunse poi, arricciando le labbra.

Reinhart non rispose subito: sto diventando un cane, uno stupido cane. L’idea che lo “portasse fuori” lo faceva sentire proprio come un animale domestico – considerando poi quella specie di esercizio. Beh, non aveva tutti i torti. Ci pensò un attimo, considerando tutte le variabili e constatando infine che, gira e rigira, non c’era nulla di male. Lo faccio per me, si disse, cercando di auto convincersi, per il mio futuro. «Va bene, ma se non rientro ad un certo orario mi chiudono fuori, lo sai, vero?» domandò retorico – e dopo quella lo avrebbe lasciato andare.

«Lo so, tanto il posto non è molto lontano… credo» e sorrise, lasciando che una scarica di adrenalina riscaldasse il corpo di Reinhart – si sarebbe pentito di essersi affidato alle mani di quel tipo, lo sapeva. «Allora ci vediamo sabato, Rain» fece un segno con la mano e sparì nella sera dietro l’uscio.

L’altro non disse più nulla. Sistemò l’aula e tornò in camera.

 

 

Si aspettava di trovare Brice già avvolto dalle coperte, stretto nell’abbraccio di Morfeo, ma al suo rientro l’amico era ancora sveglio e – con uno sbadiglio – lo accolse con il fare di un investigatore privato: «Si può sapere dove cazzo sei stato?» gli chiese, e Rain si strinse nelle spalle, prendendosi la libertà di non rispondere.

Avrebbe voluto sbattergli in faccia il fatto che sarebbe uscito con il biondino che gli piaceva tanto, ma non gli parve il caso – stronzo sì, ma non fino a questo punto. Non era un appuntamento. «Ero a ballare, Brì» – lo chiamò con quello stupido soprannome che gli dava sui nervi, sedendosi poi sul materasso: non voleva parlare di Étienne, più che altro perché sapeva che Brice lo avrebbe inondato di domande imbecilli, a cui sarebbero seguite frecciatine altrettanto idiote. Non avrebbe sopportato di sentirlo farneticare di eventuali attrazioni fisiche e sessuali che non c’erano, quindi si spogliò senza troppe cerimonie, deciso a farsi una doccia prima di infilarsi sotto le coperte.

«Certo che sei uno stronzo, potevi dirmelo» ribatté l’altro, accingendosi ad andare a letto. «Sarei venuto anche io, invece di restare qui a leggere…» spostò gli occhi sul libro che stringeva fra le dita, per poi riportarli sul suo compagno di stanza con fare accusatorio, «… questo coso!» concluse sbrigativo, poggiando poi il tomo sul comodino, accanto alla finestra.

Rain non disse niente, si limitò a tirargli il cuscino addosso, dirigendosi poi verso il piccolo bagno che condividevano – così come l’intera stanza. Era come un matrimonio forzato, ma dopo un po’ ci si faceva l’abitudine: io rispetto i tuoi spazi e tu i miei, e vedrai che nessuno si farà del male – era stato questo il tacito accordo che avevano stretto, e ad entrambi stava bene così.

«Il giorno in cui ti vedrò sorridere degli arcobaleni coloreranno il cielo, e poco dopo arriverà la fine del mondo!» affermò Brice, impossessandosi ufficialmente del guanciale – lo stesso che Rain avevo usato come arma.

«Lascia che ti dica una cosa, Brice: sei peggio di mia madre, e ti assicuro che lei è davvero insopportabile» gli rispose recuperando un asciugamano pulito – questa è una violazione di spazio vitale.

«Come fai a dire che è insopportabile se la vedi solo alle festività comandate?» domandò retorico l’altro, con il chiaro obbiettivo di farlo irritare e basta, ma fu preso in contro piede dalla risata pressoché immotivata dell’amico.

«Touché ma vederla alle festività mi basta, te lo assicuro» ribatté, prima di entrare nel bagno e aprire l’acqua della doccia.

 

 

«Per oggi siamo a posto così, la lezione è finita!» commentò la Madame, congedando gli alunni e salvando Rain da ulteriori commenti di Brice su quel biondino che – volente o nolente – sarebbe diventata una costante di quelle lezioni. Non che la sua presenza lo infastidisse: erano gli apprezzamenti di Brice che lo irritavano.

Lasciò che gli altri recuperassero le loro cose e si spostassero negli spogliatoi e, mentre la Madame raccoglieva la sua borsa, si avvicinò ad Étienne, intento a giocare con una delle sue collane.

Voleva chiedergli conferma per quella sera, e poi mettersi d’accordo sull’orario e il punto d’incontro, ma appena aprì bocca, appena le sue labbra proferirono un «Ehy…», la voce dell’insegnante lo interruppe: «Étienne, prendi la borsa, per favore» disse.

La donna catturò l’attenzione del suo interlocutore che, prettamente, le rispose «lasciala lì, mamma. Adesso la prendo io».

Mamma. L’ha chiamata mamma? – la testa di Rain fece cortocircuito per qualche secondo, cercando di metabolizzare la situazione. «Joëlle Boulogne è tua madre?» gli chiese incredulo e palesemente sconcertato, «potevi dirmi che era tua madre!».

Étienne lo guardò, le mani sui fianchi e il sorriso stampato sul volto, lo stesso che gli arricciava le labbra la sera in cui gli aveva chiesto di raccogliere quella stupida pallina, «non mi hai chiesto chi fosse mia madre» rispose semplicemente.

Uno dei tanti insulti della Madame gli tornò alla mente: quel lunedì, quando se l’era presa con i suoi arabesque, aveva detto qualcosa in merito ai ragazzetti di strada che muovevano i fianchi – ora si spiegano molte cose, pensò.

«Non sapevo che avesse un figlio…» si limitò a dire, quasi avesse voluto giustificarsi. «Comunque volevo chiederti a che ora ci troviamo stasera, dato che martedì sei sparito» continuò, riportando il discorso al punto focale, così da poter raggiungere gli altri il più in fretta possibile – aveva un’altra lezione, dopo.

Il ragazzo davanti a lui sorrise, trattenendo a stento una risata. «Pensa che è anche stata sposata, una volta… poi ha divorziato» commentò, come se la separazione  dei suoi genitori non lo ferisse o riguardasse in alcun modo, cercando poi di tornare vagamente serio. «Ci vediamo qui fuori alle nove, va bene?» gli rispose, chinandosi a recuperare la borsa di sua madre, «così hai anche il tempo di digerire la tua deliziosa insalata scondita» aggiunse poi, prendendo il borsone a tracolla.

Da cane a mucca, insommaRain si sforzò di ignorare l’ennesima presa per il culo e cercò di sorridere, «ceniamo presto, come i frati, e poi facciamo autoflagellazione, quindi non c’è pericolo che non digerisca» ribatté acido, «a stasera, allora» concluse poi, sbrigativo, incamminandosi verso gli spogliatoi.

 

 

 

 

«Si impara con la pratica. Che si tratti di imparare a danzare facendo esperienza di ballo,

oppure imparare a vivere facendo esperienze di vita, il principio non cambia.»

Martha Graham

 

 

 

 

 

 

WE LIVE AND BREATHE WORDS – note d’autrici.

 

Puntuali, e questa cosa ci rende onore, insomma.

Prima di tutto vogliamo spiegarvi il perché di questo problema di Rain. L’idea è venuta da yingsu che ha gentilmente illustrato il problema del “certe cose ti rimangono”, ovvero: quando faceva ginnastica artistica le dicevano di tenere le gambe tese, e ora che non la fa più, continua a tenerle in questo modo. E’ facile individuare anche alcuni ballerini – o quantomeno quelli che lo sono stati – che continuano ad avere una postura eretta, la schiena drittissima e il collo alto.

Insomma, hanno detto a Rain di essere teso come una corda di violino, ma il povero ha preso troppo sul serio il tutto – così come gli altri – e non riesce a capire che dovrebbe smollarsi, o forse lo capisce ma non sa come fare.

Per questo esiste Étienne che, come scritto qui, è figlio dell’insegnante. Speriamo che non fosse tutto troppo evidente e che il “colpo di scena” vi abbia stupito un po’ XD ♥

Per oggi è tutto, speriamo che abbiate gradito il capitolo e che la storia non vi stia deludendo~

 

papavero radioattivo.

   
 
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