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Autore: Mr Nobody    03/02/2014    0 recensioni
Un uomo segregato nel suo appartamento a spiare le vite altrui dalla sua finestra. In special modo, la sua curiosità si concentra sugli incontri di due giovani innamorati. Una sera, tutto ciò sembra crollare, e, pur essendo solo un muto spettatore, sente la sua vita perdere di significato.
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'The Waiting Watcher [Raccolta di one-shot]'
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UNA FINESTRA SUL MONDO
Il tavolo era miseramente apparecchiato con uno strofinaccio, steso ordinatamente sulla sua superficie e illuminato da una pozza di 
fredda luce proveniente dal neon. Fronteggiavo un piatto ormai quasi vuoto, contenente sul fondo qualche viscido rimasuglio della 
mia cena, di cui conservavo ancora il caldo sapore in bocca. Alla mia destra, un bicchiere d'acqua riempito a metà, un tovagliolo 
spiegazzato e un paio di posate abbandonate - sempre, però, con un certo ordine -. 
Avevo congiunto le mani, ponendo i gomiti sul bordo della tavola e appoggiandovi contro il mento, stringendo le labbra secche per 
cercare di umettarle un po' con la punta della lingua. Inspirai profondamente e mi venne l'istinto di accasciarmi sulla sedia; invece, tirai 
un sospiro e mi sollevai bruscamente, diretto verso il silenzioso salotto dell'appartamento che occupavo. Era uno spazio intimo, 
circoscritto, confortevole, e mi offriva una finestra sul mondo.
Fuori c'era nebbia, un velo fuligginoso e vaporoso spalmato sui piani alti delle case e che perciò celava alla vista tetti e fili dell'alta 
tensione. Quel drappo nemboso, presagio di procella, era calato sulla città quella mattina, dopo l'alba, mentre io mi trovavo disteso 
sul letto, appena svegliatomi da un incubo e alquanto sudaticcio, incapace di riprender sonno. L'aria era divenuta man mano sempre 
più appiccicosa, umida, piuttosto calda, sebbene in realtà tutto si fosse irrigidito e fosse piombato in una fredda immobilità. Quella 
stasi s'era prolungata per tutta la giornata e io non avevo avuto di che lamentarmi. Ora invece assistevo al lento risveglio della città, 
indotto principalmente dalle luci elettriche e lattiginose dei lampioni in strada, che ridestavano l'ambiente dall'inerte letargo. Mi 
premetti contro la fresca parete e pressai la fronte sul vetro della finestra, su cui andò a spandersi il mio caldo respiro. Un cane, 
relegato dietro una miseranda cuccia, abbaiava inferocito contro l'ombra fugace di un passante. Costui era un uomo in cappotto e in 
copricapo, che teneva in mano una valigia insignificante e che poteva aver catturato l'attenzione del bastardino con la sua aria 
misteriosa: portava di fatto sulle spalle il peso di qualche ignoto affare, il che lo faceva muovere furtivamente e sbrigativamente, 
sebbene egli non si guardasse attorno con circospezione, bensì procedesse spedito lungo la sua via, ovvero sul marciapiede lucido e 
semibagnato, cosparso di pagine di vecchi giornali, zuppe e ridotte a brandelli, e di altra robaccia di varia specie. Anche dopo che la 
sua esile e scura figura scomparve dietro l'angolo di un palazzo, il cagnolino continuò a mostrare i denti all'infida nebbia impenetrabile 
e a emettere versi aspri dal profondo della gola, tutto esagitato e fremente di una concitazione repressa. Magari aveva avvistato la 
sagoma di un qualche felino...
Mi scostai per un attimo dal vetro e aprii l'unica anta della finestrella. Sì, era un'apertura un po' angusta, ristretta, quasi claustrofobica, 
ma a me bastava. Non avevo bisogno di vedere granché. I miei occhi si saziavano di poco. La mia curiosità era, per così dire, limitata 
a quel povero angolo di abitato che la fessura mi permetteva di guardare.
Una lieve brezza tiepida mi investì in viso e mi carezzò la pelle. I suoni e i rumori dall'esterno mi giunsero più forti e più nitidi. Il 
ringhio del cane, però, continuava a sembrarmi fioco, come se provenisse da chilometri di distanza e a me arrivasse solo una flebile 
eco. Mi sistemai sullo stretto davanzale con gli avambracci e sporsi di poco la testa fuori, come una talpa che scruta attentamente 
fuori dalla propria tana, un po' incerta. Udii i motori lontani di autoveicoli sulle strade urbane, giù giù, e chiudendo gli occhi immaginai 
le automobili, le motociclette e i tram attraversare la carreggiata e perforare la foschia coi loro fulgidi fanali. 
Tutt'a un tratto, un curioso suono raggiunse le mie orecchie: un trillo, vibrante, un po' arrugginito, più definito e più vicino rispetto ai 
remoti borbottii delle vetture. Dischiusi le palpebre e guardai giù: una giovane in bici attraversava la piccola piazza lastricata. Sul 
davanti, portava un cestino, apparentemente vuoto, ma che in verità sapevo bene arginasse un piccolo micio dal pelo grigio. Lei 
soleva dargli un gomitolo affinché non si mettesse a miagolare e non destasse il cane, che invece si quietava proprio nel momento in 
cui arrivava lei, preceduta dal dolce suono squillante del campanellino. Quella scena mi era così familiare che ogni volta mi sembrava 
quasi di esser lo spettatore di una pellicola di cui avevo già goduto la visione precedentemente, ma di cui non riuscivo ancora a 
stancarmi.
Della ragazza, di schiena, potevo vedere la cascata di lisci capelli bruni, che le sfioravano la mantella azzurrina. Frenò con la bici e la 
fermò accanto alla fontanella di marmo, fredda e asciutta, sul cui ciglio si accomodò. Portava una delle sue solite gonnelline 
tristemente colorate e un paio di scarpette nere. Si guardava intorno, batteva un piede sul selciato, si mordeva un labbro, impaziente... 
Poi si mise ad osservare il micetto che, ignaro di tutto, giocherellava col suo banale passatempo. Da un momento all'altro avrebbe 
dovuto presentarsi lui, l'altro pezzo mancante del puzzle a cui era sempre accollato il compito di ricomporre l'abituale scenario di ogni 
pomeriggio. Quei loro incontri, sempre molto brevi, ma altrettanto intensi, parevano come intrisi di innocente clandestinità. 
Dal mio appartato angolo di solitudine, spostai lo sguardo sul ticchettante orologio appeso al muro e potei così constatare che lui era 
in ritardo, anche se di poco. Ero così avvezzo a vedere quei due giovani laggiù sedere in piazza, sulla fontana, sulla loro rampa di 
scale, sulla loro panchina o riparati sotto le tettoie nei giorni di pioggia, isolati, che non arrecavano disturbo a nessuno, ma si 
godevano il tempo che trascorrevano insieme a chiacchierare, a ridere, ad abbracciarsi, a sfiorarsi, a carezzarsi, a giocare col gatto di 
lei, che immaginavo dovesse debolmente e beatamente fare le fusa, che ora quel ritardo mi pareva anormale; un piccolo, ma tragico 
tradimento.
La fanciulla sostava da sola, nel silenzio della sera che avanzava. Solitamente c'erano le stelle rifulgenti e baluginanti che facevano da 
sfondo, incollate su un buio cielo terso, e qualche volta il piazzale era anche rischiarato dalla luce lunare. Stasera invece non c'era 
alcun cielo. C'era solo quel pesante manto che sovrastava, che gravava e schiacciava, togliendo quasi il respiro. Lei si raccolse sul 
muretto, le braccia avvolte attorno alle ginocchia, gli occhi rivolti allo spazio intorno. La sua ansiosa attesa, carica di aspettativa e di 
speranza, era pressappoco palpabile. Ma c'era una qualche sorta di amaro presentimento in quest'occasione singolare. L'assenza di 
lui era sconfortante.
La ragazza aveva oramai tirato fuori dalla cesta il suo gattino, e passava distrattamente una mano sul suo dorso peloso, mentre la 
matassa lanosa giaceva tutta spelacchiata per terra, inumidita. L'animaletto, disteso tranquillo in grembo alla padrona, scrutava a sua 
volta i dintorni, come se avesse avvertito il suo nervosismo e si fosse improvvisamente accorto di una mancanza. Può essere che 
stesse aspettando il tocco delle giovani e forti mani di lui, il ragazzo che gli portava sempre qualche biscotto da sgranocchiare. 
All'erta com'era, non riuscì a godersi le coccole e perciò niente fusa di contentezza.
Anch'io avevo allungato il collo fuori e tentavo di esaminare le vicinanze, avvantaggiato dall'altezza e da una visuale più ampia. Ma 
nulla si muoveva nei paraggi, e poi c'era sempre quell'ombrosa patina di bruma che inibiva una rigorosa indagine dei luoghi limitrofi. 
Sentendomi inutile e impotente, tornai a gettare un'occhiata all'orologio. Era ormai passato parecchio tempo e le lancette si erano già 
spostate di qualche numero.
Un improvviso ululato ruppe il silenzio, e io tornai a guardare giù dalla mia finestra, presenziando alla fuga in bici di lei. Il micio era 
tenacemente ancorato al cestino, gli artigli sfoderati e gli occhioni spalancati, la coda che guizzava allarmata e le orecchiette drizzate. 
Lei invece aveva i capelli scompigliati dall'aria, il viso contratto e abbassato, le mani rigidamente premute sul manubrio, le gambe che 
si muovevano agilmente ma stancamente sui pedali. Il rumore ferrigno, metallico, della catena che scattava accompagnò la sua 
dipartita precipitosa, disperata. Intanto il suo profilo si allontanava dallo spiazzo desolato e si confondeva nelle ombre fumose e 
indistinte dello stretto vialetto che era solita percorrere dopo aver baciato, con le sue timide labbra acerbe, quelle di lui, rassicuranti e 
dal delicato sapore d'affetto; ora il gusto di quei baci era coperto dall'acre fiele e dalle lacrime saline - a lungo arginate nei suoi occhi e 
che ora potevano liberamente stillare via il ricordo di lui - e il suono della sua limpida voce mentre la salutava si confondeva con il 
rabbioso latrato di un cane addolorato. 
[Forsaken and abandoned bench image]
E per me fu come se quel giorno stesse finendo il mondo. La mia finestra, quel mio spazio privato da cui rivolgevo speranzoso lo 
sguardo verso l'esterno, mi si richiudeva sul muso, con una delusione scottante e un incomparabile avvilimento. Sapevo che non avrei 
rivisto più quei due giovani; non più assieme, per lo meno. Ed era come se la pellicola mi presentasse un finale del tutto inaspettato, a 
metà proiezione, che mi lasciava uno scontento inspiegabile di disillusione.
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[Waiting boy out of the rainy window]Consiglierei di accompagnare la lettura con questa in sottofondo: http://www.youtube.com/watch?v=c5O1derzOjU
UNA FINESTRA SUL MONDO
Il tavolo era miseramente apparecchiato con uno strofinaccio, steso ordinatamente sulla sua superficie e illuminato da una pozza di 
fredda luce proveniente dal neon. Fronteggiavo un piatto ormai quasi vuoto, contenente sul fondo qualche viscido rimasuglio della 
mia cena, di cui conservavo ancora il caldo sapore in bocca. Alla mia destra, un bicchiere d'acqua riempito a metà, un tovagliolo 
spiegazzato e un paio di posate abbandonate - sempre, però, con un certo ordine -. 
Avevo congiunto le mani, ponendo i gomiti sul bordo della tavola e appoggiandovi contro il mento, stringendo le labbra secche per 
cercare di umettarle un po' con la punta della lingua. Inspirai profondamente e mi venne l'istinto di accasciarmi sulla sedia; invece, tirai 
un sospiro e mi sollevai bruscamente, diretto verso il silenzioso salotto dell'appartamento che occupavo. Era uno spazio intimo, 
circoscritto, confortevole, e mi offriva una finestra sul mondo.
Fuori c'era nebbia, un velo fuligginoso e vaporoso spalmato sui piani alti delle case e che perciò celava alla vista tetti e fili dell'alta 
tensione. Quel drappo nemboso, presagio di procella, era calato sulla città quella mattina, dopo l'alba, mentre io mi trovavo disteso 
sul letto, appena svegliatomi da un incubo e alquanto sudaticcio, incapace di riprender sonno. L'aria era divenuta man mano sempre 
più appiccicosa, umida, piuttosto calda, sebbene in realtà tutto si fosse irrigidito e fosse piombato in una fredda immobilità. Quella 
stasi s'era prolungata per tutta la giornata e io non avevo avuto di che lamentarmi. Ora invece assistevo al lento risveglio della città, 
indotto principalmente dalle luci elettriche e lattiginose dei lampioni in strada, che ridestavano l'ambiente dall'inerte letargo. Mi 
premetti contro la fresca parete e pressai la fronte sul vetro della finestra, su cui andò a spandersi il mio caldo respiro. Un cane, 
relegato dietro una miseranda cuccia, abbaiava inferocito contro l'ombra fugace di un passante. Costui era un uomo in cappotto e in 
copricapo, che teneva in mano una valigia insignificante e che poteva aver catturato l'attenzione del bastardino con la sua aria 
misteriosa: portava di fatto sulle spalle il peso di qualche ignoto affare, il che lo faceva muovere furtivamente e sbrigativamente, 
sebbene egli non si guardasse attorno con circospezione, bensì procedesse spedito lungo la sua via, ovvero sul marciapiede lucido e 
semibagnato, cosparso di pagine di vecchi giornali, zuppe e ridotte a brandelli, e di altra robaccia di varia specie. Anche dopo che la 
sua esile e scura figura scomparve dietro l'angolo di un palazzo, il cagnolino continuò a mostrare i denti all'infida nebbia impenetrabile 
e a emettere versi aspri dal profondo della gola, tutto esagitato e fremente di una concitazione repressa. Magari aveva avvistato la 
sagoma di un qualche felino...
Mi scostai per un attimo dal vetro e aprii l'unica anta della finestrella. Sì, era un'apertura un po' angusta, ristretta, quasi claustrofobica, 
ma a me bastava. Non avevo bisogno di vedere granché. I miei occhi si saziavano di poco. La mia curiosità era, per così dire, limitata 
a quel povero angolo di abitato che la fessura mi permetteva di guardare.
Una lieve brezza tiepida mi investì in viso e mi carezzò la pelle. I suoni e i rumori dall'esterno mi giunsero più forti e più nitidi. Il 
ringhio del cane, però, continuava a sembrarmi fioco, come se provenisse da chilometri di distanza e a me arrivasse solo una flebile 
eco. Mi sistemai sullo stretto davanzale con gli avambracci e sporsi di poco la testa fuori, come una talpa che scruta attentamente 
fuori dalla propria tana, un po' incerta. Udii i motori lontani di autoveicoli sulle strade urbane, giù giù, e chiudendo gli occhi immaginai 
le automobili, le motociclette e i tram attraversare la carreggiata e perforare la foschia coi loro fulgidi fanali. 
Tutt'a un tratto, un curioso suono raggiunse le mie orecchie: un trillo, vibrante, un po' arrugginito, più definito e più vicino rispetto ai 
remoti borbottii delle vetture. Dischiusi le palpebre e guardai giù: una giovane in bici attraversava la piccola piazza lastricata. Sul 
davanti, portava un cestino, apparentemente vuoto, ma che in verità sapevo bene arginasse un piccolo micio dal pelo grigio. Lei 
soleva dargli un gomitolo affinché non si mettesse a miagolare e non destasse il cane, che invece si quietava proprio nel momento in 
cui arrivava lei, preceduta dal dolce suono squillante del campanellino. Quella scena mi era così familiare che ogni volta mi sembrava 
quasi di esser lo spettatore di una pellicola di cui avevo già goduto la visione precedentemente, ma di cui non riuscivo ancora a 
stancarmi.
Della ragazza, di schiena, potevo vedere la cascata di lisci capelli bruni, che le sfioravano la mantella azzurrina. Frenò con la bici e la 
fermò accanto alla fontanella di marmo, fredda e asciutta, sul cui ciglio si accomodò. Portava una delle sue solite gonnelline 
tristemente colorate e un paio di scarpette nere. Si guardava intorno, batteva un piede sul selciato, si mordeva un labbro, impaziente... 
Poi si mise ad osservare il micetto che, ignaro di tutto, giocherellava col suo banale passatempo. Da un momento all'altro avrebbe 
dovuto presentarsi lui, l'altro pezzo mancante del puzzle a cui era sempre accollato il compito di ricomporre l'abituale scenario di ogni 
pomeriggio. Quei loro incontri, sempre molto brevi, ma altrettanto intensi, parevano come intrisi di innocente clandestinità. 
Dal mio appartato angolo di solitudine, spostai lo sguardo sul ticchettante orologio appeso al muro e potei così constatare che lui era 
in ritardo, anche se di poco. Ero così avvezzo a vedere quei due giovani laggiù sedere in piazza, sulla fontana, sulla loro rampa di 
scale, sulla loro panchina o riparati sotto le tettoie nei giorni di pioggia, isolati, che non arrecavano disturbo a nessuno, ma si 
godevano il tempo che trascorrevano insieme a chiacchierare, a ridere, ad abbracciarsi, a sfiorarsi, a carezzarsi, a giocare col gatto di 
lei, che immaginavo dovesse debolmente e beatamente fare le fusa, che ora quel ritardo mi pareva anormale; un piccolo, ma tragico 
tradimento.
La fanciulla sostava da sola, nel silenzio della sera che avanzava. Solitamente c'erano le stelle rifulgenti e baluginanti che facevano da 
sfondo, incollate su un buio cielo terso, e qualche volta il piazzale era anche rischiarato dalla luce lunare. Stasera invece non c'era 
alcun cielo. C'era solo quel pesante manto che sovrastava, che gravava e schiacciava, togliendo quasi il respiro. Lei si raccolse sul 
muretto, le braccia avvolte attorno alle ginocchia, gli occhi rivolti allo spazio intorno. La sua ansiosa attesa, carica di aspettativa e di 
speranza, era pressappoco palpabile. Ma c'era una qualche sorta di amaro presentimento in quest'occasione singolare. L'assenza di 
lui era sconfortante.
La ragazza aveva oramai tirato fuori dalla cesta il suo gattino, e passava distrattamente una mano sul suo dorso peloso, mentre la 
matassa lanosa giaceva tutta spelacchiata per terra, inumidita. L'animaletto, disteso tranquillo in grembo alla padrona, scrutava a sua 
volta i dintorni, come se avesse avvertito il suo nervosismo e si fosse improvvisamente accorto di una mancanza. Può essere che 
stesse aspettando il tocco delle giovani e forti mani di lui, il ragazzo che gli portava sempre qualche biscotto da sgranocchiare. 
All'erta com'era, non riuscì a godersi le coccole e perciò niente fusa di contentezza.
Anch'io avevo allungato il collo fuori e tentavo di esaminare le vicinanze, avvantaggiato dall'altezza e da una visuale più ampia. Ma 
nulla si muoveva nei paraggi, e poi c'era sempre quell'ombrosa patina di bruma che inibiva una rigorosa indagine dei luoghi limitrofi. 
Sentendomi inutile e impotente, tornai a gettare un'occhiata all'orologio. Era ormai passato parecchio tempo e le lancette si erano già 
spostate di qualche numero.
Un improvviso ululato ruppe il silenzio, e io tornai a guardare giù dalla mia finestra, presenziando alla fuga in bici di lei. Il micio era 
tenacemente ancorato al cestino, gli artigli sfoderati e gli occhioni spalancati, la coda che guizzava allarmata e le orecchiette drizzate. 
Lei invece aveva i capelli scompigliati dall'aria, il viso contratto e abbassato, le mani rigidamente premute sul manubrio, le gambe che 
si muovevano agilmente ma stancamente sui pedali. Il rumore ferrigno, metallico, della catena che scattava accompagnò la sua 
dipartita precipitosa, disperata. Intanto il suo profilo si allontanava dallo spiazzo desolato e si confondeva nelle ombre fumose e 
indistinte dello stretto vialetto che era solita percorrere dopo aver baciato, con le sue timide labbra acerbe, quelle di lui, rassicuranti e 
dal delicato sapore d'affetto; ora il gusto di quei baci era coperto dall'acre fiele e dalle lacrime saline - a lungo arginate nei suoi occhi e 
che ora potevano liberamente stillare via il ricordo di lui - e il suono della sua limpida voce mentre la salutava si confondeva con il 
rabbioso latrato di un cane addolorato. 
[Forsaken and abandoned bench image]
E per me fu come se quel giorno stesse finendo il mondo. La mia finestra, quel mio spazio privato da cui rivolgevo speranzoso lo 
sguardo verso l'esterno, mi si richiudeva sul muso, con una delusione scottante e un incomparabile avvilimento. Sapevo che non avrei 
rivisto più quei due giovani; non più assieme, per lo meno. Ed era come se la pellicola mi presentasse un finale del tutto inaspettato, a 
metà proiezione, che mi lasciava uno scontento inspiegabile di disillusione.
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[Waiting boy out of the rainy window]

Consiglierei di accompagnare la lettura con questa in sottofondo: http://www.youtube.com/watch?v=c5O1derzOjU

[ Le prime due immagini sono prese dal bellissimo film d'animazione L'illusionista ("L'illusionniste" di Sylvain Chomet), di cui la seconda è stata penosamente modificata da me; la terza e ultima è invece un'immagine - resa a cartoon - tratta dal film 500 Days of Summer (tradotto - a mio parere alquanto indegnamente - "500 Giorni Insieme"). ]

 

 


 




UNA FINESTRA SUL MONDO

 

Il tavolo era miseramente apparecchiato con uno strofinaccio, steso ordinatamente sulla sua superficie e illuminato da una pozza di fredda luce proveniente dal neon. Fronteggiavo un piatto ormai quasi vuoto, contenente sul fondo qualche viscido rimasuglio della mia cena, di cui conservavo ancora il caldo sapore in bocca. Alla mia destra, un bicchiere d'acqua riempito a metà, un tovagliolo spiegazzato e un paio di posate abbandonate - sempre, però, con un certo ordine -. 

Avevo congiunto le mani, ponendo i gomiti sul bordo della tavola e appoggiandovi contro il mento, stringendo le labbra secche per cercare di umettarle un po' con la punta della lingua. Inspirai profondamente e mi venne l'istinto di accasciarmi sulla sedia; invece, tirai un sospiro e mi sollevai bruscamente, diretto verso il silenzioso salotto dell'appartamento che occupavo. Era uno spazio intimo, circoscritto, confortevole, e mi offriva una finestra sul mondo.


Fuori c'era nebbia, un velo fuligginoso e vaporoso spalmato sui piani alti delle case e che perciò celava alla vista tetti e fili dell'alta tensione. Quel drappo nemboso, presagio di procella, era calato sulla città quella mattina, dopo l'alba, mentre io mi trovavo disteso sul letto, appena svegliatomi da un incubo e alquanto sudaticcio, incapace di riprender sonno. L'aria era divenuta man mano sempre più appiccicosa, umida, piuttosto calda, sebbene in realtà tutto si fosse irrigidito e fosse piombato in una fredda immobilità. Quella stasi s'era prolungata per tutta la giornata e io non avevo avuto di che lamentarmi. Ora invece assistevo al lento risveglio della città, indotto principalmente dalle luci elettriche e lattiginose dei lampioni in strada, che ridestavano l'ambiente dall'inerte letargo. Mi premetti contro la fresca parete e pressai la fronte sul vetro della finestra, su cui andò a spandersi il mio caldo respiro. Un cane, relegato dietro una miseranda cuccia, abbaiava inferocito contro l'ombra fugace di un passante. Costui era un uomo in cappotto e in copricapo, che teneva in mano una valigia insignificante e che poteva aver catturato l'attenzione del bastardino con la sua aria misteriosa: portava di fatto sulle spalle il peso di qualche ignoto affare, il che lo faceva muovere furtivamente e sbrigativamente, sebbene egli non si guardasse attorno con circospezione, bensì procedesse spedito lungo la sua via, ovvero sul marciapiede lucido e semi-bagnato, cosparso di pagine di vecchi giornali, zuppe e ridotte a brandelli, e di altra robaccia di varia specie. Anche dopo che la sua esile e scura figura scomparve dietro l'angolo di un palazzo, il cagnolino continuò a mostrare i denti all'infida nebbia impenetrabile e a emettere versi aspri dal profondo della gola, tutto esagitato e fremente di una concitazione repressa. Forse aveva avvistato la sagoma di un qualche felino...

Mi scostai per un attimo dal vetro e aprii l'unica anta della finestrella. Sì, era un'apertura un po' angusta, ristretta, quasi claustrofobica, ma a me bastava. Non avevo bisogno di vedere granché. I miei occhi si saziavano di poco. La mia curiosità era, per così dire, limitata a quel povero angolo di abitato che la fessura mi permetteva di guardare.

Una lieve brezza tiepida mi investì in viso e mi carezzò la pelle. I suoni e i rumori dall'esterno mi giunsero più forti e più nitidi. Il ringhio del cane, però, continuava a sembrarmi fioco, come se provenisse da chilometri di distanza e a me arrivasse solo una flebile eco. Mi sistemai sullo stretto davanzale con gli avambracci e sporsi di poco la testa fuori, come una talpa che scruta attentamente fuori dalla propria tana, un po' incerta. Udii i motori lontani di autoveicoli sulle strade urbane, giù giù, e chiudendo gli occhi immaginai le automobili, le motociclette e i tram attraversare la carreggiata e perforare la foschia coi loro fulgidi fanali. 

 

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Tutt'a un tratto, un curioso suono raggiunse le mie orecchie: un trillo, vibrante, un po' arrugginito, più definito e più vicino rispetto ai remoti borbottii delle vetture. Dischiusi le palpebre e guardai giù: una giovane in bici attraversava la piccola piazza lastricata. Sul davanti, portava un cestino, apparentemente vuoto, ma che in verità sapevo bene arginasse un piccolo micio dal pelo grigio. Lei soleva dargli un gomitolo affinché non si mettesse a miagolare e non destasse il cane, che invece si quietava proprio nel momento in cui arrivava lei, preceduta dal dolce suono squillante del campanellino. Quella scena mi era così familiare che ogni volta mi sembrava quasi di esser lo spettatore di una pellicola di cui avevo già goduto la visione precedentemente, ma di cui non riuscivo ancora a stancarmi.

Della ragazza, di schiena, potevo vedere la cascata di lisci capelli bruni, che le sfioravano la mantella azzurrina. Frenò con la bici e la fermò accanto alla fontanella di marmo, fredda e asciutta, sul cui ciglio si accomodò. Portava una delle sue solite gonnelline tristemente colorate e un paio di scarpette nere. Si guardava intorno, batteva un piede sul selciato, si mordeva un labbro, impaziente... Poi si mise ad osservare il micetto che, ignaro di tutto, giocherellava col suo banale passatempo. Da un momento all'altro avrebbe dovuto presentarsi lui, l'altro pezzo mancante del puzzle a cui era sempre accollato il compito di ricomporre l'abituale scenario di ogni pomeriggio. Quei loro incontri, sempre molto brevi, ma altrettanto intensi, parevano come intrisi di innocente clandestinità. 

 

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Dal mio appartato angolo di solitudine, spostai lo sguardo sul ticchettante orologio appeso al muro e potei così constatare che lui era in ritardo, anche se di poco. Ero così avvezzo a vedere quei due giovani laggiù sedere in piazza, sulla fontana, sulla loro rampa di scale, sulla loro panchina o riparati sotto le tettoie nei giorni di pioggia, isolati, che non arrecavano disturbo a nessuno, ma si godevano il tempo che trascorrevano insieme a chiacchierare, a ridere, ad abbracciarsi, a sfiorarsi, a carezzarsi, a giocare col gatto di lei, che immaginavo dovesse debolmente e beatamente fare le fusa, che ora quel ritardo mi pareva anormale; un piccolo, ma tragico tradimento.

La fanciulla sostava da sola, nel silenzio della sera che avanzava. Solitamente c'erano le stelle rifulgenti e baluginanti che facevano da sfondo, incollate su un buio cielo terso, e qualche volta il piazzale era anche rischiarato dalla luce lunare. Stasera invece non c'era alcun cielo. C'era solo quel pesante manto che sovrastava, che gravava e schiacciava, togliendo quasi il respiro. Lei si raccolse sul muretto, le braccia avvolte attorno alle ginocchia, gli occhi rivolti allo spazio intorno. La sua ansiosa attesa, carica di aspettativa e di speranza, era pressappoco palpabile. Ma c'era una qualche sorta di amaro presentimento in quest'occasione singolare. L'assenza di lui era sconfortante.

La ragazza aveva oramai tirato fuori dalla cesta il suo gattino, e passava distrattamente una mano sul suo dorso peloso, mentre la matassa lanosa giaceva tutta spelacchiata per terra, inumidita. L'animaletto, disteso tranquillo in grembo alla padrona, scrutava a sua volta i dintorni, come se avesse avvertito il suo nervosismo e si fosse improvvisamente accorto di una mancanza. Può essere che stesse aspettando il tocco delle giovani e forti mani di lui, il ragazzo che gli portava sempre qualche biscotto da sgranocchiare. 
All'erta com'era, non riuscì a godersi le coccole e perciò niente fusa di contentezza.

Anch'io avevo allungato il collo fuori e tentavo di esaminare le vicinanze, avvantaggiato dall'altezza e da una visuale più ampia. Ma nulla si muoveva nei paraggi, e poi c'era sempre quell'ombrosa patina di bruma che inibiva una rigorosa indagine dei luoghi limitrofi. Sentendomi inutile e impotente, tornai a gettare un'occhiata all'orologio. Era ormai passato parecchio tempo e le lancette si erano già spostate di qualche numero.

Un improvviso ululato ruppe il silenzio, e io tornai a guardare giù dalla mia finestra, presenziando alla fuga in bici di lei. Il micio era tenacemente ancorato al cestino, gli artigli sfoderati e gli occhioni spalancati, la coda che guizzava allarmata e le orecchiette drizzate. Lei invece aveva i capelli scompigliati dall'aria, il viso contratto e abbassato, le mani rigidamente premute sul manubrio, le gambe che si muovevano agilmente ma stancamente sui pedali. Il rumore ferrigno, metallico, della catena che scattava accompagnò la sua dipartita precipitosa, disperata. Intanto il suo profilo si allontanava dallo spiazzo desolato e si confondeva nelle ombre fumose e indistinte dello stretto vialetto che era solita percorrere dopo aver baciato, con le sue timide labbra acerbe, quelle di lui, rassicuranti e dal delicato sapore d'affetto; ora il gusto di quei baci era coperto dall'acre fiele e dalle lacrime saline - a lungo arginate nei suoi occhi e che ora potevano liberamente stillare via il ricordo di lui - e il suono della sua limpida voce mentre la salutava si confondeva con il rabbioso latrato di un cane addolorato. 

 

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E per me fu come se quel giorno stesse finendo il mondo. La mia finestra, quel mio spazio privato da cui rivolgevo speranzoso lo sguardo verso l'esterno, mi si richiudeva sul muso, con una delusione scottante e un incomparabile avvilimento. Sapevo che non avrei rivisto più quei due giovani; non più assieme, perlomeno. Ed era come se la pellicola mi presentasse un finale del tutto inaspettato, a metà proiezione, che mi lasciava un inspiegabile scontento di disillusione.

  
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