Ebbene, siamo alla fine.
Questo è l’epilogo
definitivo della storia. Non ci saranno seguiti, solo gli spin-off
collegati a questa long.
Colgo perciò l’occasione di ringraziare chi ha letto, recensito e
inserito la storia tra i preferiti/seguiti.
E’ stato un vero piacere poterla scrivere e spero che l’abbiate
apprezzata.
Detto questo, buona
lettura.
Tomorrow finds the best way out is through
“I know you're leaving now
Cause I held on to my way tightly
Stay still until you know
Tomorrow finds the best way out is
through”
Ungodly hour-The Fray
La seconda volta era stato più facile raggiungere il Graal.
Si era inginocchiata per passare oltre le lame, aveva composto il
nome di dio e si era lasciata scivolare sulla sottile lastra di roccia che
attraversava il precipizio per giungere di nuovo laddove riposava il calice e
il cavaliere che lo custodiva.
“E' una sorpresa per me rivedervi qui, giovane fanciulla” ammise
il templare abbassando subito la spada.
“E' una sorpresa anche per me” confermò Julya.
In realtà non avrebbe voluto tornare lì, ma non le era venuta in
mente idea migliore.
A Mystic Falls la situazione era sempre più tesa e Julya sentiva
che sarebbe accaduto qualcosa di terribile a breve.
Aveva pensato che fosse solo la sua immaginazione a giocarle
brutti scherzi e che doveva essere l'atmosfera.
Aveva provato a ignorare quella sorta di sirena che suonava nella
sua testa, ma aveva scoperto presto di non riuscire a metterla a tacere.
In realtà, la paura la attanagliava da quando Stefan le aveva
raccontato cosa era successo alla discendenza di Finn quando lui era morto.
Il pensiero di morire in quel modo la terrorizzava, ma quando
pensava che sarebbe successo solo dopo la morte di Kol si sentiva ancora
peggio.
Era un pensiero troppo grande da realizzare e Julya non lo
comprendeva a pieno.
Quando poi era venuto alla luce il casino di Alaric aveva capito
che non c'era più tempo. Così aveva fatto i bagagli in fretta ed era partita,
sostenendo che forse avrebbe potuto trovare una persone che potesse aiutarli.
Era una bugia.
Aveva bisogno di qualcosa che la proteggesse e la aiutasse a
sopravvivere a quella città. Forse avrebbe dovuto solo andarsene: se avesse
lasciato Mystic Falls sarebbe stata al sicuro, lontana da ibridi, licantropi,
streghe e Originali.
Ci aveva pensato più di una volta, ma la conclusione era sempre
stata la stessa: non poteva partire.
Si era detta che lo faceva per Stefan, ma sapeva di mentire a se
stessa: restava solo perché tutto in quella città le ricordava Kol e lei aveva
un disperato bisogno di tenersi stretto tutto ciò che era legato a lui.
Fosse la stupida strada che avevano percorso insieme la notte in
cui se n'era andato o la lettera che le aveva scritto.
Per quello era tornata ad Alessandretta.
La leggenda voleva che, al di là dei poteri curativi, il Graal
potesse molto altro: tra i vampiri che credevano all'esistenza di quel cimelio
serpeggiava la diceria che bere sangue dal calice rendesse più forti, più
veloci, più potenti, quasi come un Originale.
Julya era lì per scoprire se era tutto vero.
“Cosa vi porta qui, mademoiselle?”
“Voglio fare un piccolo esperimento” mormorò abbassandosi per
cercare il Graal. Era un po' nascosto, proprio dietro un grande calice
tempestato di rubini e diamanti, un vero tesoro che qualunque collezionista
avrebbe voluto possedere.
La coppia di Cristo appariva ancora più insignificante al confronto.
Chissà, forse anche quello avrebbe potuto essere uno spunto di riflessione
sulle apparenze e il messaggio cristiano, ma a lei non importava.
Afferrò il calice e vi versò dentro il sangue che aveva conservato
dentro una boccetta.
Non sapeva cosa sarebbe successo: poteva diventare inarrestabile,
poteva trasformarsi in un mostro oppure restare se stessa.
La gamma di opzioni era piuttosto vasta, ma Julya era disposta a
correre il rischio per il vero motivo per cui era lì e teneva il calice tra le
mani.
Contro ogni
logica e ragionevole pensiero, una parte di lei credeva che se fosse stata più
forte e avesse saputo difendersi, Kol non avrebbe più avuto motivi per
andarsene.
Allora
avrebbero potuto essere felici insieme, come era giusto che fosse, com'era
destino.
Inspirò ed espirò a fondo, poi bevve il sangue tutto d'un sorso,
come se fosse stato un bicchierino di tequila.
Come la prima volta, la sensazione di potere fu inebriante. Era
ebbra, sentiva che nuova linfa le scorreva nelle vene.
Qualunque cosa fosse, era come un'onda calda e afrodisiaca. Le
sembrava di avere tra le mani tutto il potere del mondo, la possibilità di
disporre di qualunque cosa volesse.
Assaporò la nuova sensazione: tutto il mondo intorno a lei
sembrava amplificato, come se all'improvviso tutti i suoi nervi si fossero tesi
e fosse in allerta.
Ma non c'era nessun pericolo e con stupore realizzò che erano solo
i suoi nuovi sensi, più nitidi di quanto non fossero mai stati.
Ma il vero potere lo sentiva nella propria mente, come se avesse
sviluppato una sorta di spazio extra.
“E' meraviglioso” esalò leccandosi le labbra per ripulirle dal
sangue.
Il cavaliere non disse niente, ma se anche lo avesse fatto Julya
dubitava che vi avrebbe prestato davvero attenzione.
Era concentrata solo su se stessa e sulle proprie sensazioni.
Sentiva che niente avrebbe potuto farle del male, non fino a quando avesse
continuato a sentirsi così incredibilmente invincibile.
In quel momento suonò il cellulare.
Lesse il nome sul display: Stefan.
Qualcosa le diceva che non doveva avere buone notizie. In effetti,
si sarebbe stupita del contrario.
“Esther è tornata e ha trasformato Alaric. Ora c'è solo il suo
alter ego cacciatore di vampiri”
*
“Her bag is now much heavier
I wish that I could carry her
But this is our ungodly hour”
Ungodly hour- The fray
Non era tornata a Mystic Falls.
I voli dalla Turchia non erano particolarmente affidabili e così
aveva dovuto fare scalo ad Atene e poi a Vienna.
Il teoria, l'itinerario prevedeva ancora una fermata a Londra e
Buenos Aires prima di arrivare finalmente a Richmond, da cui avrebbe viaggiato
in macchina fino a Mystic Falls.
In pratica, le cose erano andate in maniera molto diversa.
La sosta a Vienna sarebbe stata piuttosto lunga, così si era
accampata fuori dal gate e aveva iniziato a passeggiare per i negozi.
Poi si era ritrovata davanti al tabellone delle partenze e aveva
visto il nome della sua città, San Pietroburgo.
Le erano tornate in mente il centro storico, la prospettiva
Nevskij e la Neva e aveva ripensato al profumo dei dolci russi, al freddo
pungente e al bianco dei marmi delle cattedrali che svettavano contro il cielo
azzurro.
Due ore dopo era atterrata a San Pietroburgo.
Non sapeva neanche lei cosa fare così aveva solo passeggiato lungo
la prospettiva Nevskij e si era fermata ad aspettare la sera davanti
all'Hermitage per poterlo guardare una volta illuminato.
Non ricordava che fosse tutto così bello.
Aveva ripreso la sua passeggiata: la città era affollata di
turisti di ogni nazionalità, coppie che passeggiavano mano nella mano e gruppi
di amici che passavano da una vetrina all'altra ridendo.
Il suo sguardo si oscurò e il sorriso scomparve quando vide una
ragazza e un ragazzo mentre giocavano nel parco intorno a una grande fontana.
Avevano ingaggiato una battaglia di palle di neve e sembravano
così spensierati. Julya li invidiava.
Lei, un vampiro, che poteva avere dal mondo qualunque cosa
desiderasse, invidiava due mortali.
Loro avrebbero vissuto ancora qualche decennio, poi si sarebbero
spenti.
Lei invece avrebbe avuto l'eternità per godere di tutto ciò che
era bello, eppure non avrebbe chiesto altro che stare in quel parco di San
Pietroburgo a fare a palle di neve con Kol.
Affondò il viso nella sciarpa per nascondere la piega triste delle
labbra e attraversò il parco. Non sapeva doveva stava andando, erano le sue
gambe a guidarla.
Capì dove stava andando solo quando superò un pesante cancello
dipinto di nero e si accorse di aver raggiunto il cimitero dove era sepolta la
sua famiglia.
Guardò il lungo corridoio di ghiaia che si stendeva tra le lapidi.
Non era sicura di essere pronta a entrare.
I suoi genitori e i suoi fratelli le mancavano ogni giorno, un
vuoto nel petto che però stava lentamente cominciando a guarire.
Era grata a Kol e a Stefan per averla aiutata, anche se in modi
diversi. Era grazie a loro se cominciava a vedere le cose in modo diverso, da
una prospettiva più sana.
Alla fine raccolse il coraggio a due mani e percorse a passo
spedito la stradina, fino a raggiungere un grande abete.
Doveva avere parecchi decenni e sotto la sua ombra riposavano più
di una decina di tombe, le più maestose di quella zona del cimitero.
Una volta un servo della gleba non avrebbe mai potuto permettersi
una sepoltura di quel genere, ma quando Julya era diventata vampira aveva fatto
in modo che venissero spostati in tombe più degne.
Era un po' sbiadite – ma d'altronde erano lì dal 1911-, senza
l'ombra di un fiore o di una candela.
Aveva accettato il fatto che fossero andati e non sarebbero
tornati la sera del ballo a casa Mikaelson, ma c'era ancora qualcosa che doveva
fare.
Doveva dire loro addio: solo così avrebbe potuto iniziare
davvero a chiudere la voragine che aveva nel petto.
Non avrebbe tentato di recuperare ciò che era svanito, non più
almeno. Avrebbe sfruttato il vuoto di quelle perdite per riempirlo con qualcosa
di nuovo.
Ci sarebbe voluto del tempo, ma si sarebbe presa cura di se stessa
e sarebbe rinata come una fenice delle sue ceneri.
Tornò all'ingresso e vi trovò un armadietto pieno di candele. Ne
prese quattro, lasciò la sua offerta e tornò alle tombe.
Era
arrivato il momento.
Julya
accese le candele, le sistemò sulle lapidi e le guardò una ad una. Era passato
tanto tempo da quando la sua famiglia se n'era andata, ma lei non li aveva mai
lasciati andare.
Li
aveva sempre tenuti stretti al petto, nascosti laddove nessuno avrebbe potuto
vederli. Ma anche loro meritavano di riposare.
Forse
accendere una candela non avrebbe chiuso quel conto di sospeso ma Julya sapeva
che non lo faceva per la sua famiglia.
Lo
faceva per se stessa perché un gesto simbolico era quello di cui aveva bisogno lei
per dire addio. Forse non avrebbe ottenuto nulla da quel gesto, ma era
tutto ciò che poteva fare.
Le
candele brillavano. Non c'erano date sulle lapidi, solo pezzi di pietra sotto i
quali Julya non è nemmeno certa che si trovassero le ossa dei suoi fratelli e
dei suoi genitori.
Non
importava: l'unica cosa che contava era che, nel momento in cui quella candela
si sarebbe spenta, lei si sarebbe lasciata definitivamente alle spalle il
proprio passato.
“Fino
ad ora mi sono aggrappata al mio dolore per non lasciarvi andare, ma non può
continuare. E' ora che impari a tenervi con me in modo più sano, più giusto.
Sarete sempre nel mio cuore, ma dovete passare oltre” ammise.
Smise
di parlare, come se fosse in attesa di qualcosa e si accorse con un mezzo
sorriso che, chissà quanto a fondo, una parte di lei aveva sperato di vedere i
fantasmi della propria famiglia lì, accanto a lei per salutarla un'ultima
volta.
Quella
era la prova definitiva che non sarebbero tornati. Aveva fatto tutto ciò che
poteva, ora doveva solo fare l'ultimo passo e lasciare che se ne andassero.
“Sarete
sempre una parte di me, di ciò che sono. Sarà come doveva essere tanto
tempo fa”
La
sua famiglia era ciò che l'aveva fatta diventare la donna che era prima di
essere trasformata in vampiro: ci sarebbero stati momenti in cui avrebbe
rivisto loro nei propri gesti, ma ora poteva sopportarlo.
“Vi
ho voluto bene, ve ne voglio ora ve ne vorrò per il resto della mia vita, per sempre”
la voce le tremò e si ritrovò con le guance bagnate di lacrime in un
battito di ciglia.
Quella
era la fine, l'ultimo saluto e lasciò che fosse accompagnato dalle proprie
lacrime: era quanto di più vero potesse trovare in quel momento.
Si
diceva che nessuno si accorgesse di quando un fantasma se ne andasse e Julya
non sentì nulla, ma nella sua mente fu come se un'onda si fosse placata piano,
come se il vento avesse smesso di soffiare.
Allora
si sentì libera e svuotata, come se si fosse tolta dalle spalle tutto ciò che
vi era posato fino a quel momento.
Non
ci fu più nulla e fu strano guardare le cose da una nuova prospettiva.
Ora
sapeva che sarebbe andato tutto bene e che qualunque cosa si sarebbe risolta.
Rimase
in silenzio a commemorare quel momento: oltre ai fantasmi dei suoi genitori e
dei suoi fratelli, vide andarsene una parte di sé.
Il
suono del telefono giunse inaspettato a turbare la solennità di quel momento.
Si accigliò nel vedere che era Stefan.
“Klaus
è morto” esordì.
La
sua voce era incolore e Julya non seppe come interpretarla. Doveva essere
felice? Non era una buona notizia? Era ciò che Stefan voleva, che tutti volevano
ora che il legame con i suoi fratelli era stato spezzato.
“Era
il nostro capostipite, mio, di Damon e di Caroline” le spiegò e allora un lampo
di comprensione squarciò il buio nella mente di Julya.
Trattenne
rumorosamente il fiato. Avrebbe perso Stefan. E Caroline.
La
consapevolezza che se ne sarebbero andati anche loro la travolse e le tremarono
le mani.
Aveva
finalmente trovato due amici sinceri, a cui era davvero affezionata e
non poteva perderli, non in quel momento.
Si
sentì impotente e frustrata, lontana da loro migliaia di chilometri e fu di
nuovo come essere umana e dover affrontare la morte senza poterla combattere e
allontanare.
A
cosa serviva essere vampiri se si doveva continuare a vivere nella paura di
morire a causa di creature come Klaus? Non era giusto.
“Perciò,
ora morirai”
“Così
pare. Ho pensato che non mi avresti mai perdonato se non ti avessi chiamato
prima di andare”
“Hai
perfettamente ragione. Non ti avrei mai perdonato”
Dall'altro
lato del telefono, Stefan accennò un sorriso e poi rimase un momento in
silenzio.
“Dove
sei?”
“A
San Pietroburgo. Sai, avevo bisogno di prendermi un momento per salutare i miei
genitori. Già che sono qui potrei prendermi un momento per salutare anche te”
scherzò, ma il tremolio nella sua voce mandò a monte qualsiasi tentativo di
sdrammatizzare.
“Julya...”
“No,
aspetta, lasciami parlare. Io... io non sono brava a esprimere a parole i miei
sentimenti, ma tu stai per morire e non voglio che tu te ne vada senza sapere
che ti amo. Non nel modo in cui amo Kol o quello in cui tu ami Elena, ma
ti amo. C'è stato un tempo in cui pensavo che fosse proprio quel tipo di
amore, ma mi sbagliavo. Eppure non riesco a immaginare la mia vita senza di te”
“Siamo
stati separati per tanto tempo. Sarà come tornare a quel periodo” la consolò.
“No,
non sarà uguale. Allora, anche se non eri con me, sapevo che da qualche parte
nel mondo c'era un vampiro di nome Stefan che mi voleva bene e che ci sarebbe
sempre stato per me, per quanto arrabbiato o deluso. Ora non avrò neanche più
quello”
Respirò
a fondo per calmare il tremito della voce e alzò gli occhi al cielo, in
silenzio. Sentiva che le bruciavano e le lacrime si accalcavano già agli
angoli.
Sarebbe
rimasta al telefono con Stefan fino a quando non sarebbe morto: forse non
poteva trascorrere fisicamente con lui i suoi ultimi momenti, ma poteva
essergli accanto comunque.
“Quello
che è successo a Venezia...” iniziò Stefan.
“E'
tutto a posto, Stefan. Credo di aver avuto un momento di confusione. Ed è vero,
ti amo, un po' come ho amato i miei fratelli”
“Anche
io ti amo come la sorella che non ho mai avuto. Per quel che vale, ti ho
perdonato per essertene andata nel 1928, perdonata davvero”
“Grazie”
sussurrò aprendosi in un sorriso lacrimoso.
Rimasero
in silenzio. L'unica cosa che Julya riusciva a sentire era il rumore del
respiro di Stefan, calmo e regolare, come se non stesse per morire.
Non
era sicura che se le fosse capitata la stessa sorte sarebbe riuscita a
mantenersi altrettanto salda e impassibile.
“Resterò
al telefono con te fino a quando non arriverà la fine” proclamò a un certo
punto la vampira per rompere il silenzio.
Dall'altro
lato, Stefan scosse la testa “No, Julya. Io andrò da Elena e quel che deve
succedere, succederà. Non essere triste” la ammonì bonariamente, con un sorriso
malinconico.
Gli
sarebbe mancata, ma più di tutto sapeva che lui sarebbe mancato a lei e
quello era il pensiero peggiore.
“Quindi
questa è davvero la fine” mormorò, ma quelle parole non riuscirono a fare altro
che far sorridere Julya.
“Ci
sono tante cose che devo ancora imparare, Stefan, ma c'è una cosa che ho
capito: non c'è fine che non porti un nuovo inizio perciò, io credo che ci
rivedremo. Non so come, non so quando, ma ti rincontrerò”
“Per
essere una che non crede nel destino o in dio, ha una fede incrollabile in
questo”
“E'
perché me lo dice il mio istinto”
“Addio, Julya”
La
candela morì lentamente e Julya lasciò che ciò che era stato scivolasse dalle
dita e si alzasse verso il cielo come il fumo della candela.
“Da svidaniya, Stefan”
**
“Je
profitte de cette robe là-bas, merci”
La commessa,
una signora un po' anziana, le sorrise dall'altro lato della bancherella e
Julya afferrò l'abito che aveva scelto, un po' vintage ma troppo bello per
essere lasciato nelle mani di qualcun altro.
“Passez vous une bonne journée”
Julya
continuò la sua passeggiata lungo il quartiere latino, fermandosi di quando in
quanto davanti a qualche bancherella di vecchi dischi in vinile o gioielli.
Le piaceva
un sacco quella piccola tradizione che si era creata da quando si era sistemata
a Parigi.
Alla fine
non era tornata a Mystic Falls.
Aveva
lasciato San Pietroburgo il giorno dopo aver detto addio alla propria famiglia,
subito dopo la chiamata di Stefan che le diceva che stavano bene, anche se
sembrava impossibile.
Le aveva
raccontato di Elena e le aveva chiesto di tornare, ma quando aveva preso in
seria considerazione l'idea si era accorta di non poterlo fare.
Non era
tornata e Stefan aveva capito, accettato, la sua decisione: forse aveva
compreso che era ciò di cui Julya aveva bisogno per guarire davvero.
Aveva scelto
di sistemarsi a Parigi.
Aveva
affittato un piccolo appartamento a Montmatre, in un edificio vecchio stile.
Era all'ultimo piano, con un terrazzo che aveva sistemato con baldacchini,
tavolini, poltrone e tendaggi.
Si era anche
iscritta alla Sorbone, corso di laurea in Antichità classiche e orientali.
Lentamente,
aveva iniziato a stare meglio.
Non era
guarita dalla sera alla mattina e a volte si sentiva ancora fragile come il
cristallo, ma Parigi le stava facendo davvero bene.
Con
sorpresa, aveva scoperto che la cosa più difficile da dimenticare e da accettare
era l'assenza di Kol.
Gli aveva
promesso che non lo avrebbe mai perdonato e che se se ne fosse andato l'avrebbe
persa per sempre, ma era una bugia.
Era suonata
una menzogna alle sue stesse orecchie già allora; con il tempo era diventata
ancora più una falsità.
Non era
neanche riuscita ad arginare i ricordi, a seppellirli da qualche parte dove non
potesse trovarli.
Per un
secolo aveva cercato di dimenticare qualunque cosa riguardasse loro per non
soffrire; forse non era più disposta a farlo.
In cuor suo,
avrebbe amato Kol fino a quando non le avessero infilato un pugnale nel petto.
E forse anche allora il suo amore sarebbe sopravvissuto, aleggiando come un
fantasma sulla terra.
Il fatto era
che Kol le mancava da morire.
Nonostante
il dolore, il senso di abbandono e la tristezza, non riusciva a smettere di
amarlo con ogni fibra di sé.
Era il loro
tipo di amore: potevano farsi male e ferirsi, ma avrebbero comunque continuato
ad amarsi.
Per Julya
era facile amare qualcuno di cui si fidava ciecamente; il difficile era provare
lo stesso verso qualcuno che si era dimostrato più volte inaffidabile e pieno
di difetti.
Forse si
sarebbe ripresa più in fretta se avesse tentato di mettere da parte i ricordi,
ma la verità era che non ci aveva neanche provato.
In fondo al
cuore, continuava a sperare che lui tornasse da lei.
Sospirò e si
infilò in una delle vie secondarie del quartiere. Anche lì era pieno di
bancherelle e su una di quelle era posato un vecchio giradischi. Nell'aria
vibravano le note di una canzone di Cole Porter.
L'intera
atmosfera ricordava tanto “Midnight in Paris”: aveva adorato quel film, forse
perché le aveva restituito l'immagine di Parigi come la vedeva lei.
Non solo
Notre Dame, Versailles, l'Operà o il Sacro Cuore, ma una città magica in ogni sua
parte.
Si sistemò
la paglietta sul capo e si fermò a prendere un gelato: poteva anche essere
diventata una vampira, ma niente l'avrebbe fatta rinunciare a una coppetta di
semifreddo alla meringa e gelato all'anguria.
Lo assaporò
mentre si fermava ad ascoltare la musica su una panchina, guardando la gente
che camminava con gli occhi socchiusi.
“Sapevo che
ti avrei trovata qui: amavi questo posto già nel 1900”
Balzò dalla
panchina e il gelato cadde a terra. Aveva desiderato così tanto che Kol
tornasse eppure in quel momento non riuscì a fare altro che strabuzzare gli
occhi e stupirsi.
Si ricompose
in fretta, mascherando il turbamento e la gioia di vederlo dietro una maschera
di freddezza.
Cosa diavolo
ci faceva lì?
Kol si era
aspettato esattamente quella reazione.
A dire il
vero, quando aveva visto che teneva un mano un gelato aveva avuto paura che
glielo lanciasse contro. Per sua fortuna, era finito a terra.
Quando
l'aveva lasciata in Kansas, aveva vagato un po' per gli States. Era stato in
Florida per un po', poi a Los Angeles.
Aveva
pensato che ragazze in bikini e alcolici potessero lenire la sensazione di
vuoto che non lo abbandonava mai, ma si era reso conto fin troppo presto di non
essere più fatto per quella vita.
Julya gli
mancava e più di una volta aveva pensato di tornare a Mystic Falls e implorarla
di perdonarlo, ma ogni volta si era detto che sarebbe stato peggio per lei.
Lì era al
sicuro.
Grande
errore: quando Rebekah lo aveva chiamato per informarlo di ciò che stava
succedendo in città, aveva subito pensato a lei e aveva capito.
Julya non
era per niente al sicuro senza di lui. In realtà, la sua famiglia era una delle
cose che potevano farle del male e certo vivere in una città abitata da lupi
mannari non era esattamente ciò che un vampiro avrebbe definito “vita sicura”.
Senza
contare che la combriccola di vampiri e umani con cui si intratteneva sembrava
fin troppo propensa a cacciarsi nei guai o ad attirarli.
Stando
lontano da lei poteva proteggerla da se stesso, ma chi l'avrebbe protetta dal
resto del mondo?
Non avrebbe
mai dovuto lasciarla, farla sentire così sola e abbandonata: Julya non lo
meritava.
Lei gli era
sempre stata accanto, lo aveva sgridato, sfidato, spronato, gli aveva dato
tutto di sé: amore, lealtà, passione. Lei ci aveva creduto davvero e meritava
qualcuno che avesse il coraggio di starle accanto.
E voleva
essere lui, Kol, quel qualcuno.
Così aveva
deciso di tornare da lei, ma Rebekah gli aveva detto che era partita. Non era
stato facile trovarla, ma alla fine era riuscito a sapere dove si trovasse:
avrebbe dovuto aspettarselo.
Rintracciarla
a Parigi era stato facile: era bastato andare nei luoghi che sapeva esserle
cari, quelle che più l'avevano emozionata quando l'aveva portata a Parigi per
la prima volta, nel 1900.
Si era
aspettato la sua reazione, ma di certo non aveva previsto che poi avrebbe messo
insieme quell'espressione fredda e distaccata, esattamente ciò che più temeva.
Avrebbe
preferito che urlasse e gli riversasse addosso tutta la sua rabbia, piuttosto
che vederle addosso ancora per un minuto quello sguardo distante e impassibile.
Tra loro si
frappose un silenzio spesso come lastra di cemento e Kol sentiva l'improvvisa
lontananza di Julya come un dolore fisico.
Kol aprì la
bocca per parlare, ma Julya fu più rapida.
“Cosa
diavolo vuoi?”
“Te?” tentò,
ma ottenne solo un sopracciglio inarcato e nessun sorriso.
Non si era
aspettato che gli saltasse addosso, ma di certo pensava che gli avrebbe
riservato un benvenuto meno gelido e distaccato.
“Non ti
avvicinare” lo avvertì quando fece un passo avanti verso di lei.
Ovviamente
non le diede ascolto e superò velocemente la panchina: ora non c'erano più
barriere fisiche che potessero separarli.
“Davvero,
hai fatto un corso per ignorare così spudoratamente le mie richieste?” si lagnò
Julya, le labbra serrate in una linea dura e gli occhi ardenti di rabbia.
Ecco, ora
andava decisamente meglio: se non altro, il suo volto aveva perso la sua
impassibilità.
“Julya...”
La sorprese
l'uso del suo nome: di solito Kol la chiamava in mille modi – ad esempio
sweetie o darling, di gran lunga i suoi preferiti- e usava il suo nome solo
quando voleva dirle qualcosa di importante oppure farle capire che era un
momento emotivamente intenso.
“Non
provarci, Kol. Ti avevo detto che non ti avrei perdonato, che mi avresti perso
se te ne fossi andato e tu lo hai fatto lo stesso. Non puoi tornare ora e
pretendere che faccia come non fosse successo niente” sibilò.
Kol le
rivolse il suo migliori sorriso affascinante “Io non ho mai detto di essere
tornato per restare. Potrei anche essere solo di passaggio”
Julya si
irrigidì. Non aveva detto nulla di compromettente, di questo era sicura, ma Kol
aveva letto tra le sue parole chissà quale messaggio.
In realtà,
sapeva che aveva ragione: lui non aveva mai detto di voler restare e nella sua
mente il fatto che fosse tornato voleva dire proprio quello.
Una parte di
lei voleva solo gridargli di restare, di non lasciarla mai più andare, ma
l'orgoglio le serrava le bocca e le impediva di parlare con il cuore in mano.
“Allora vai”
lo invitò sfoderando lo sguardo più freddo del proprio repertorio “vai e non
tornare, Kol”
Il sorriso
scomparve dal volto di Kol, spazzato via dalle sue parole e fece ancora un
passo avanti.
“Prima devi
ascoltarmi”
“Non devo
fare nulla”
“Julya...”
“Va' via,
Kol”
“Ho
sbagliato, va bene?” sbottò alla fine, stringendole un polso tra le dita con
delicatezza “Sono stato un vero bastardo. Tu mi hai supplicato di restare e io
ti ho lasciata senza guardarmi indietro. Ma è stata la cosa più difficile che
abbia mai fatto”
“Ti aspetti
una medaglia d'oro al coraggio?”
“No. Mi
aspetto che tu mi dia almeno un minuto per spiegare, per cercare di farti
cambiare idea, anche se con tutta la tua testardaggine non sarà facile”
“Non stai
migliorando la tua situazione” lo informò incrociando le braccia.
“Mi
dispiace. Ho sbagliato, va bene? E' quello che faccio sempre. Io sono
capriccioso, ma tu sei sempre stata lì a farmi notare i miei errori, a
prendermi a calci se necessario. Noi siamo così”
Julya rimase
in silenzio.
“Non volevo
ferirti”
“Ma davvero?
Non lo avrei mai detto” lo prese in giro.
“Volevo solo
proteggerti”
“E non hai
pensato che potessi proteggermi da sola? Che volessi solo te e del resto
non mi sarebbe importato?” sibilò a denti stretti.
“No, perché
ai miei occhi tu resti l'umana che ho salvato in Egitto, la bella studiosa di
storia che si è dimostrata l'unica donna che abbia mai amato. E' questo il
punto” ammise, oramai pronto a parlare con il cuore in mano “io ti amo e questo
mi rende irrazionale e pronto a tutto per farti stare bene”
Julya non
voleva provare quella fastidiosa sensazione di felicità, non voleva
ammorbidirsi né desiderava sentire quello sciocco calore nel ventre che si
diffondeva lungo tutto il corpo.
Voleva la
rabbia, la disillusione, l'amarezza. Ma come poteva restare impassibile di
fronte a quelle parole?
Suo
malgrado, sentì i muscoli sciogliersi, la espressione farsi più dolce e
probabilmente le brillavano anche gli occhi. Dannazione, quando si era
trasformata nella brutta copia di un'eroina da romanzo?
“Non posso
vivere senza di te. Non posso vivere senza la mia vita, come non posso vivere
senza la mia anima. E ti amo. Questo non conta più nulla?”
Julya non
riuscì a parlare, sopraffatta da quelle parole. Aveva persino citato Heartcliff
e sapeva quando lui odiasse quel genere di libri.
“So che
domani sera alcuni tuoi amici organizzeranno una festa” annunciò e Julya si
chiese da quanto tempo la stesse osservando per saperlo “lascia che sia il tuo
cavaliere. Dammi solo quest'occasione”
Julya tentennò:
non era sicura che dalla sua riposta dipendesse solo la festa del giorno dopo.
**
“It isn't
that hard boy, to like you or even love you
I will follow you down down down,
Why? Cuz you're unbelievable
So if you're going crazy just grab me and take me
I would follow you down, down, down,
like
anywhere, anywhere “
Million
dollar man- Lana del Rey
“Ho appena
incontrato il ragazzo più sexy del pianeta” annunciò Ada quando raggiunse il
bar.
“Davvero?”
si informò Julya mordendo un dolcetto appena preso dal ricco buffet che
l'ospite aveva predisposto.
Non c'era
che dire: Eugenè Dupont sapeva come organizzare una festa e i contatti del
padre nell'ufficio del sindaco dovevano aver sicuramente aiutato per procurarsi
quella location.
Julya
immaginava che non fosse facile ottenere di poter organizzare una festa – per
quanto a scopo di beneficenza, il cui ricavato sarebbe stato devoluto a un
orfanotrofio- in uno dei saloni del palazzo delle Tuilleries.
“Già.
Peccato che non fosse interessato a me” sbuffò sistemando i gomiti sul bancone
e ordinando un cocktail.
“Cercava te”
ammise.
“Me?”
“Già. Fino a
prova contraria sei tu Julya Peskov, giusto?”
“Descrivimelo”
“Alto,
capelli castani, decisamente affascinante, sorriso da capogiro”
Non le servì
altro per capire di chi stesse parlando. Abbandonò il piano bar e attraversò la
sala a passo spedito, il vestito che ondeggiava alle sue spalle e i capelli che
sobbalzavano a ogni passo.
Non aveva
bisogno che Ada le dicesse dove trovarlo: le sarebbe bastato usare il proprio
nuovo super olfatto.
Da quando
aveva bevuto il sangue dal Graal tutti i suoi sensi si erano acuiti e nella sua
mente c'era molto più spazio di prima, come se le servisse un posto più
spazioso dove catalogare le centinaia di informazioni in più che il suo
cervello riceveva rispetto a prima.
Era ancora
una strana sensazione, non del tutto spiacevole.
Seguì il
famigliare profumo e lo trovò di fianco a una statua di marmo della dea
Afrodite, intento a guardarla sorseggiando un bicchiere di champagne.
Quando la
vide, Kol si aprì in un sorriso.
“Buonasera”
la salutò, inchinandosi appena e afferrandole la mano per un baciamano più
lungo del necessario.
“Dall'espressione
sul tuo bel viso direi che non ti aspettavi che venissi davvero”
“In effetti
hai ragione” ammise “Non pensavo che fosse il tuo genere di festa”
“Infatti non
lo è, ma non mi sarei mai perso la possibilità di passare una serata con te né
di vederti con quel vestito”
Suo
malgrado, Julya abbassò lo sguardo sul proprio abbigliamento. Sapeva che quel vestito
le stava bene, lo aveva scelto apposta. Era di un bel blu reale, lungo fino al
pavimento, tutto chiffon e seta lucida, con un delizioso ricamo floreale che le
lambiva la vita e saliva fino alla scollatura.
Metteva in
risalto la propria carnagione chiara e i capelli e gli occhi scuri.
Avrebbe
voluto dire di averlo indossato solo perché la faceva sentire bella, ma una
parte di sé sapeva di averlo scelto perché lo pensasse anche Kol.
“Sei sempre
così romantico” si lagnò con una smorfia.
“Faccio del
mio meglio” ammise afferrando un paio di bicchiere di champagne da un cameriere
di passaggio.
Julya prese
il calice che le porgeva e brindò con lui prima di sorseggiare la bevanda. In
realtà, il giorno prima Kol era stato molto romantico con quella super dichiarazione
d'amore, ma a essere veramente sincera, non poteva negare che non l'aveva fatta
sentire come aveva pensato.
Insomma, una
dichiarazione del genere era il sogno di ogni donna normale, ma forse quello
era il punto: lei non era normale, non in quel genere di cose.
Le piacevano
le cose dolci, ma fino a un certo punto: era più che altro per la passione, il
fuoco, gli sguardi intensi e burrascosi e i baci come se non dovessero esserci
un domani.
E sapeva che
anche Kol era quel genere di uomo perciò, forse, nella sua testa, non riusciva
a vedere la completa sincerità in quelle parole.
Non era il suo
Kol.
Fu proprio
lui a interrompere il silenzio in cui avevano sorseggiato lo champagne e si
erano guardati di quando in quando, l'uno di fronte all'altro e fin troppo
vicini.
“Sai, ho
saputo che sei tornata a San Pietroburgo”
“Hai saputo?”
gli domandò guardandolo con un'occhiata che lasciava intendere quando poco ci
credesse “Comunque, sì, sono tornata a casa per un po'”
“E come mai
hai scelto proprio ora di tornare a casa?”
Fece
spallucce e sorseggiò ancora un po' del suo drink “Volevo salutare la mia
famiglia come si deve”
“E come è
stato?”
Julya lo
soppesò per un attimo prima di rispondere. Sembrava noncurante, ma sapeva
vedere oltre l'apparenza e sapeva che era preoccupato per lei.
Probabilmente
immaginava che ci fossero state lacrime, rabbia, dolore e di nuovo l'incapacità
di dire addio, ma si sbagliava.
Poteva avere
ancora tante cose da imparare, ma se aveva appreso una cosa in questi ultimi
mesi era proprio dire addio.
“Liberatorio”
ammise “Ma non è il momento di parlarne” gli fece notare indicando la sala e il
centro della pista “Questa è una festa e io voglio ballare”
Kol non se
lo fece ripetere due volte.
Lasciarono i
calici sul vassoio di un cameriere e si infilarono in pista proprio mentre la
musica cambiava e il ritmo allegro di una canzone jazz passò a quello più lento
e sensuale di una canzone pop che aveva anche qualcosa di esotico.
Kol le passò
un braccio intorno alla vita e lei si aggrappò al suo collo, ma una delle sue
mani venne afferrata da lui che la tenne stretta nella sua.
Non erano
vicini quanto Kol avrebbe voluto, ma immaginava di doversi accontentare di
tenerla tra le braccia.
Il suo
profumo -rosa e mirra in armonia con una fragranza che non conosceva- era
inebriante, forse l'essenza più deliziosa che avesse mai sentito.
“Allora” le
chiese a un certo punto, avvicinandosi al suo orecchio. Le sfiorò i capelli con
il proprio respiro e Julya rabbrividì “come sto andando? Sei ancora arrabbiata
con me?”
“Pensi che
bastino due complimenti, un bicchiere di champagne, un ballo e la tua bella
faccia per farti perdonare?”
“Bella
faccia?”
“Oh,
andiamo! Comunque, sono ancora arrabbiata con te. Non riesco a dimenticare come
mi sono sentita quando te ne sei andato”
“Juls...”
“Sapevi che l'ultima cosa di cui avevo bisogno era essere abbandonata dalla
persone che ho amato di più al mondo, eppure te ne sei andato comunque. Non so
tu, ma io credo di avere il diritto di arrabbiarmi”
“Non ha
senso dirti di nuovo quello che ti ho detto ieri. A questo punto, posso fare
solo un ultima cosa”
Julya fece
per chiedergli cosa, ma Kol la mise a tacere con le proprie labbra.
La baciò con
tanta intensità da costringerla a sollevarsi sulle punte dei piedi,
stringendola a sé e affondando una mano nei capelli.
Quello era da Kol:
un bacio così travolgente e intenso da sconvolgere il suo mondo, da lasciarla
scarmigliata, con le labbra umide e gonfie, le guance arrossate e gli occhi
brillanti. Era la passione che mancava nella dichiarazione del giorno prima,
quella che la faceva struggere di desiderio e amore.
Il giorno
prima era stato l'uomo che ogni donna avrebbe voluto, romantico, dolce, pronto
a fare di tutto per lei; in quel momento, era chi voleva Julya.
La musica
finì insieme al loro bacio e Kol le rivolse un ultimo sorriso seducente prima
di allontanarsi tra le folla.
Julya rimase
in pista per un attimo, incapace di capire cosa stesse facendo, poi realizzò
che doveva aver pensato che lei non lo voleva più nella sua vita o che, almeno
per il momento, voleva essere lasciata sola.
Si
sbagliava.
Uscì dalla
sala a passo svelto, attraversando una galleria dopo l'altra seguendo la scia
del profumo di Kol.
Non era mai
stata così contenta di avere sensi super sviluppati.
Arrivata nei
giardini fu più difficile seguire la scia, contaminata dalle essenze dei fiori
e dagli odori che provenivano dalla città circostante.
Vagò per un
po' alla ricerca, arrivando al jardin du carrousel e fermandosi un attimo a
guardarlo. Le tornò alla memoria la prima volta che Kol l'aveva portata a
Parigi.
Era
primavera, allora, e avevano passeggiato a lungo tra quei giardini. Avevano
camminato per i giardini sottobraccio, così vicini che lei poteva sentire il
calore del suo corpo forte accanto al proprio mentre si guardavano e si
sorridevano.
Era uno dei
ricordi che conservava più gelosamente.
Camminò un
po' per quella parte del giardini, fino a quando non agganciò di nuovo la scia
olfattiva di Kol e la seguì fino a quando non lo trovò di fronte a una fontana
di marmo bianco.
“Adesso
potrei pensare che tu sia diventato un tipo nostalgico” lo prese in giro con
dolcezza, affiancandolo.
“Be', ho
appena ricevuto un rifiuto dall'unica donna che amo”
“Oh, non
essere così romantico, Kol, o mi si carieranno tutti i denti”
“Perché sei
qui?”
“Perché tu
sei un idiota e io sono qui per fare quello che mi viene meglio”
Kol alzò
elegantemente un sopracciglio, ma non ebbe il tempo di chiedere delucidazioni
perché Julya mise a tacere tutto con un bacio.
Sulla bocca
di Kol, le labbra di Julya gli dissero che lo amava, che era la sua ultima
possibilità e, quando gli morse la lingua, sembrò anche promettergli che lo
avrebbe fatto soffrire se l'avesse lasciata.
Come se ce
ne fosse bisogno: non se ne sarebbe mai andato.
Lo baciò come
se non dovesse esserci un domani, ma davanti a loro ne avevano un'infinità,
insieme.
Fine