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Autore: Haku7    04/02/2014    0 recensioni
"Erano perduti e pieni di colori, come girandole nel vento, come aereoplani di carta in cerca di atterraggio nella nebbia. Come dei girasoli notturni.
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"Sebastian Joyce non avrebbe saputo definire con certezza quando e come aveva iniziato a capire che il suo posto nel mondo non lo avrebbe trovato, se non creando il proprio. Se non vedendolo attraverso l’arte, l’unica cosa che riuscisse a destarlo dalle incertezze che lo avevano sempre accompagnato. La sua chitarra, quella era la sua vera voce, quello strumento che quando maneggiava gli trasmetteva una sorta di eterna rassicurazione.
Niente era perfetto come le melodie che volteggiavano invisibili nell’aria, che si rincorrevano e infine fuggivano oltre le barriere di questa stanza, come presagi di un futuro ancora non definito, ma indubbiamente buono."
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"Sono sempre stato troppo diverso, da tutti quanti, e sono diverso anche da te. Ma il nostro dolore è lo stesso, e lo stesso può essere anche il modo in cui riusciremo a salvarci."
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Sebastian ed Eric, Eric e Sebastian. Due personalità differenti con un passato difficile da dimenticare, che si incontreranno casualmente. La musica come filo conduttore della storia.
Genere: Introspettivo, Slice of life, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo primo – Comfortably Numb.

Sebastian Joyce.
Luton (Inghilterra), tredici settembre 2012.

 
Il dolore è sparito, ti stai come allontanando 
Pennacchio di fumo d'una nave all'orizzonte 
Ritorni indietro solo a ondate 
Le tue labbra si muovono ma non sento che dici 
Da bambino ho avuto una febbre 
Mi sentivo due mani come palloni 
Adesso provo di nuovo quella sensazione 
Non so spiegartelo, non capiresti
Questo non sono io
Sono diventato piacevolmente insensibile.
(Comfortably Numb- Pink Floyd) 
 

Primo giorno del mio secondo anno di scuola a Luton.
Mi sembra di essere arrivato qui un secolo fa. Il tempo scorre lentissimo, e Dublino mi manca da morire. Ma non è certo una novità, questa. 
Prendo un muffin al volo, prima di uscire, non ho neppure il tempo di prepararmi una colazione decente. Per quanto riguarda l’aspetto che mostrerò al resto della scuola dopo tre mesi di assenza, mi limito a lanciare una rapida occhiata allo specchio, giusto per vedere se ho un’aria più disordinata del solito.
Niente di nuovo, sempre il solito Sebastian. Una banale maglietta color verde scuro, la solita faccia da ragazzino indifeso, i soliti occhi azzurri che spiccano vividi e malinconici sul volto pallido. Diavolo, questi occhi. Vorrei che fossero di ghiaccio, come tutto il resto di me sembra essere diventato. E invece no, loro rimangono maledettamente espressivi, e continuano a riflettere tutto ciò che mi passa per la testa e che non vorrei mostrare.
Ma pazienza. Non penso che la gente farà troppo caso ai miei occhi, per quanto siano l’unica cosa che riveli di più sul mio conto, sul mio carattere . 
Non sono cambiato di una virgola, durante l'estate, se non per i capelli, che sono diventati ancora più lunghi e biondi. Quindi, non c’è proprio nulla di nuovo in me, le vacanze non mi hanno lasciato alcuna traccia visibile. Nemmeno l’abbronzatura, solo una manciata di lentiggini in più.

Uscire fuori di casa è la vera impresa. Fino a che sei dentro un appartamento, è naturale essere tra quattro mura. 
Ma quando ti sembra di essere imprigionato in un mucchio di mura gigantesche anche fuori da una abitazione, allora c’è qualcosa non va.
La zona dove vivo, un quartiere di periferia, è un regno fatto di poligoni squadrati, un pochino più grandi e tridimensionali di quelli che si disegnano sui quaderni. Questi poligoni sono le abitazioni, che più che case somigliano a fabbriche. 
E’ come abitare in una costante e grigia uniformità. Anche il cielo sembra avere il colore dell’asfalto. I rari alberi che si trovano lungo le strade sembrano crescere a stento, hanno il tronco sottile e pallido, e si ergono dritti e insignificanti, confondendosi con i semafori e con i lampioni.
Non è una gran giornata, oggi, eppure mi dico che devo farmi coraggio, ancora un paio d'anni e poi finalmente è finita.
Ma anche tornando a casa, sarei felice, poi? Sono cambiate già un sacco di cose, e chissà cos'altro potrebbe succedere nel frattempo. Potrei persino non tornarci, a Dublino, e finire in una qualsiasi università dei dintorni, a imparare qualcosa di cui non mi importa nulla.
Sarà difficile ottenere quel che voglio davvero, ammesso che questo pallido riflesso di sogno che ogni tanto mi sembra di scorgere ancora mi dia realmente un futuro. Non importa, dovrò provarci, stringere i denti ancora per un po’, anche se forse quando tornerò in un luogo così pieno di ricordi mi farò soltanto del male, di nuovo.


Fortunatamente, l’autobus non è ancora arrivato. La fermata è affollata di gente, soprattutto ragazzi, e sembrano tutti avere un umore simile al mio. Solo qualche raro sorriso compare sul viso di qualcuno, probabilmente dovuto alla voglia di rivedere i propri compagni di classe, alla leggerezza dei primi giorni di scuola che ti induce a credere, almeno per un po’, che non sarà un anno così pesante.
Una volta salito sul pullman, trascorro la maggior parte del tragitto ascoltando della musica, il miglior rimedio contro i cattivi pensieri.
Eppure i pensieri si affollano inevitabilmente, preoccupazioni futili che ormai sono consuetudine.
Avrò messo la mia camera in ordine, ieri sera? No, devo aver scordato qualcosa, ne sono certo. Non che me ne importi molto, ma a mia madre, e, specialmente, ad Arthur, credo provocherà un gran nervoso lo stato in cui ho lasciato la stanza.
Il basso, dio santo! E la chitarra!
Mi sono dimenticato di rimetterli a posto, o meglio, di nasconderli. 
Spero che non riattacchino con la solita predica, quei due.
«Sebastian, smettila di perdere tempo con queste fesserie, la musica non ti porterà a nulla, hai visto tuo padre? Alla tua età dovresti pensare alla scuola! E a divertirti nel tempo libero come tutti i tuoi coetanei, se proprio, non attaccarti a uno strumento!»
Facile, a dirsi, per loro! La musica, ormai, è l'unica cosa che susciti in me qualche emozione.
Per il resto, è come se non me ne fregasse nulla.
O come se quasi tutto mi desse fastidio.
E’ come se non volessi fidarmi di nuovo di qualcuno, di affezionarmi a lui, perché tanto poi lo so come va a finire, in entrambi i casi. L’ho scoperto fin troppo bene.
Comunque, anche se dovrei esserci abituato, mia madre la trovo veramente fastidiosa. Mi chiedo spesso cosa diavolo capisca di me.
Nulla, a quanto pare, e quando siamo venuti a vivere qui me ne sono reso conto davvero.
E perché tutto questo odio verso la musica, poi? E’ colpa di papà? Beh, allora anche io dovrei odiarla, la musica,  dato che..l’ha sempre preferita a noi? E' questo che afferma mia madre? Bah, nemmeno da bambino ho pensato che il mestiere di papà fosse un vero ostacolo ai sentimenti che provava per noi. E poi, poi, è una delle poche cose del mio passato che proprio non riesco ad allontanare da me. 
Ecco, l'autobus è arrivato a scuola.
Mi affretto a mettere a posto le cuffie, e dirigermi verso l’edificio in cerca della nuova aula.


«Sebastian Joyce, oh. Vieni qui a raccontarmi delle tue vacanze, coraggio!»
Mi volto di scatto. Questa voce l’ho riconosciuta subito. Jake ha quel modo di parlare che pare essere un agglomerato di note stonate, e la tendenza a blaterare un sacco di fesserie a vanvera. Ed ebbene sì, non gli sto granché simpatico, e per mia grande fortuna, me lo ritrovo in classe!
Con passo rapido e disinvolto, Jake si posiziona di fronte a me, incrocia le braccia e mi fissa con aria di puro scherno. Corruga leggermente il labbro inferiore, e solleva un sopracciglio in una smorfia che stizzirebbe anche il più paziente dei santi.

«Andiaaamo, Sebastian. Dimmi cosa hai fatto quest’estate. Sei andato nella tua cara Irlanda a zappare nei campi di patate, mh?»
Ero convinto che questo tipo di razzismo da quattro soldi la gente lo abbandonasse al massimo in seconda elementare, ammesso che l’avesse mai usato prima d’allora. Ma Jake è un ragazzo col il cervello di un poppante, e si aggrappa alle cose più stupide per attaccare briga con la gente.


Mi limito ad ignorarlo, distogliendo lo sguardo da lui con un piccolo sbuffo, e faccio per girare i tacchi ed andarmene, ma Jake mi ferma con una mano, agguantando prontamente la mia spalla, costringendomi così a voltarmi nuovamente verso di lui.
«Ti credi potente a non rispondermi, per caso?» domanda il ragazzo, iniziando ad innervosirsi.
«No, mi credo meno imbecille di te.»,  ribatto accennando un lieve sorriso, provocando così una furiosa espressione sul volto di Jake. Non è abituato a sentirmi rispondere alle sue provocazioni, solitamente cerco soprattutto di evitare la sua presenza, come evito la maggior parte delle cose.


Distinguo chiaramente il suo corpo e il suo volto irrigidirsi, e la tensione opprimere l’aria.
Potrebbe picchiarmi? So che ne sarebbe capace, e non sarebbe neppure la prima volta. Non saprei chiaramente spiegare a qualcuno perché Jake incuta timore a un sacco di persone, ma quel che so per certo è che, nonostante lui non sia né il più brillante, né il più forte, né il più furbo ragazzo della scuola, riesce ad ottenere una muta obbedienza dalla maggior parte degli alunni,esercitare un discreto fascino ed interesse sulle alunne, e una certa ammirazione da parte degli insegnanti. Perché i suoi voti sono buoni, è chiaro. E la sua capacità di cambiare atteggiamento all’interno e all’esterno della classe davvero sorprendente.
E’ solito ostentare innocenti sorrisi, durante le lezioni, mostrarsi educato ed attento, e sfoggiare senza modestia le proprie abilità atletiche, il proprio fisico robusto e tonico,e un mucchio di altre caratteristiche che lo rendono popolare agli occhi di tutti.
Eppure, Jake non sembra affatto accontentarsi di questo. E’ come se avesse costantemente bisogno di dimostrare la propria autorità con provocazioni a cui non ama sentire risposte, con piccole minacce per ottenere scarse somme di denaro, e nessun riguardo al passare dalle parole alle mani non appena qualcuno lo contraddice più di quanto sia abituato a sopportare.


«Iniziamo male, Joyce, iniziamo male. Ma non ho voglia di prendere a ceffoni il tuo visino angelico, non adesso, dato che stanno per iniziare le lezioni, quindi ‘fanculo, te la vedrai in un secondo momento, bambolina...», blatera Jake fissandomi minaccioso, restando ancora per qualche istante di fronte a me.
E’ piuttosto alto, ma, d’altro canto, anche io sono alto quanto lui, è forse il suo fisico imponente e muscoloso che crede io possa temere, e che, effettivamente, in confronto al mio, sottile e minuto, appare molto più forte. Ma sinceramente non mi provoca granché timore, né lui né i suoi occhi scaltri che mi scrutano da due minuti buoni. Solo fastidio.


Una volta che lo vedo allontanarsi definitivamente da me, mi affretto a mia volta a raggiungere la mia classe, e, con mio gran sollievo, noto che la lezione non è ancora iniziata.
I miei compagni, tuttavia, sono già quasi tutti arrivati.
Non sono male, alcuni di loro, anche non avendo quasi nulla in comune ci si può tranquillamente parlare insieme del più e del meno.
Ma poi le ragazze si raggruppano, ridacchiando e parlando di smalti, vestiti, fidanzati, e neppure i ragazzi sono tanto diversi, e attaccano col calcio, discoteche, e compagnia bella.
Non è che non mi vada di parlare con loro, anzi. E' che non riesco a fingere che mi piaccia o mi interessi qualcosa che gli altri adorano, se in realtà non ho grande interesse o conoscenza riguardo all’argomento.
E poi sono abbastanza timido, o almeno, questo è l’aggettivo che mi affibbiano più spesso, e non posso trovarmi in disaccordo. Lo sono sempre stato un po', ma qui mi sento particolarmente fuori posto.
Penso sempre di dire qualcosa che non vada, così molte volte sto zitto e basta.
Il rumore delle chiacchiere dei compagni si interrompe improvvisamente, mentre io sono ancora perso nei miei pensieri, e vedo il professore di matematica entrare in classe con il suo solito cipiglio severo, seguito da un ragazzo pressappoco della nostra età.
E' molto temuto, questo insegnante, perché è sempre arrabbiato, se la prende per niente e da dei voti bassissimi.
Ma rispettato proprio non lo è, appena non c'è gli ridono tutti dietro.
«Ragazzi, questo è Eric Weymouth», comincia il professore indicando il ragazzo con aria annoiata, quasi a voler dire : «Toh, ecco un nuovo alunno a cui badare, che scocciatura!»
Eric alza lo sguardo sulla classe con aria a metà tra il beffardo e il divertito, e accenna a un sorriso, tormentandosi una ciocca ribelle dei capelli scuri. 
La prima cosa che si nota di lui è indubbiamente la sua chioma, una matassa indefinita di riccioli scompigliati e disordinati. Questo fino a che non lo si vede sollevare gli occhi da terra, occhi grandi incorniciati da lunghe ciglia scure, e iridi verdi, magnetiche. Sembrano rimestarsi rimestarsi una miriade di espressioni diverse, in quelle iridi, dall’inquietudine alla curiosità, dall’emozione alla vivacità. Sono probabilmente gli occhi più espressivi che io abbia mai visto, somigliano a quelli dei dipinti, dei ritratti, in cui la luce è concentrata unicamente nelle pupille del soggetto. 

«E' un nuovo compagno, e spero che vi troverete bene con…» riprende il professore, con lo stesso tono di voce atono, ma viene immediatamente interrotto.
«Sì, grazie, mi troverò benissimo», taglia corto Eric, guadagnandosi così un'occhiataccia da parte dell’insegnante. E a questo punto si potrebbe dire che è sfacciato, questo Eric Weymouth, ma la sua espressione e il suo tono di voce dicono tutt’altro. Sembra quasi sia intervenuto per puro istinto, per non far preoccupare il professore, senza curarsi di interromperlo o di apparire maleducato. E, addirittura, pochi istanti dopo, si apre in un buffo sorriso, prendendo a guardarsi in giro con evidente curiosità.
«Dov'è che mi siedo?» Il ragazzo si aggira tra i banchi, occupati solo da zaini e cartelle, nessuno si era ancora seduto, erano tutti impegnati ad osservare quel soggetto che neppure sembrava accorgersi dell’attenzione che attirava.
«Oh, vicino alla finestra..e nemmeno incollato alla cattedra..direi che va bene»,  asserisce infine, sedendosi nel banco di fianco a quello dove avevo poggiato la mia roba. 
Sembra non rendersi minimamente conto, o meglio, fregarsene completamente, di essere in una scuola, sotto gli occhi di un insegnante. 
Il suo comportamento spigliato mi diverte, è davvero insolito.
«Posso?» mi chiede, ma tanto è già seduto. Annuisco con un sorriso, scrutandolo.
Ha sempre quell'aria sarcastica, e mi fissa piantandomi i suoi occhi color smeraldo dritti in faccia, eppure la cosa non mi dà fastidio, come di solito accade. Sarà perché ha un'aria simpatica, e non sembra volermi guardare per trovare qualcosa di negativo o contestabile.
Si alza in piedi subito dopo, togliendosi di dosso il giubbotto consunto di pelle scura, mentre la maggior parte dei miei compagni prosegue a fissarlo curiosa.
Eric non sembra neppure farci caso. Si risiede, appoggiando il viso tra le mani e ascoltando il professore con evidentemente disinteresse, mentre illustra il programma dell'anno.


Io la odio, matematica. E' vero che c'entra anche con la musica, ma la roba che studiamo a scuola è una vera rottura: radicali, disequazioni, dimostrazioni di teoremi geometrici. Non mi piace classificare le cose, studiarne le meticolose regole, e la matematica, a mio avviso, mira proprio a questo.
Tiro fuori il mio quaderno dalla cartella, già fitto di schizzi e disegni, e inizio a scribacchiare qualcosa, fingendo di prendere appunti.
Disegnare e scrivere mi piace da morire, invece. E' diventata la mia attività preferita, durante le lezioni, ed è spesso un ottimo rimedio contro la noia.
I professori non mi crederebbero mai se lo dicessi, ma mi aiuta addirittura a concentrarmi!
E' tutta la mattina che ho in testa "Comfortably Numb" dei Pink Floyd. La canticchio a bassa voce, iniziando a tracciare con la matita un viso con degli occhi enormi, neri, vuoti.
Le sue mani sono impigliate tra i capelli, che disegno simili a delle spirali di DNA. Le labbra, invece, sono appena dischiuse, come se il ragazzo stesse parlando.
Intorno a lui c'è un muro sottile,che lo lo separa dalle altre persone.
La gente attorno al muro bussa su quei mattoni, urla, cerca di comunicare con il ragazzo, ma lui è come se fosse da un'altra parte, non li sentisse, o non li capisse.
Scrivo qualche frase della canzone nel disegno.
"Is there anybody in there? - C'è qualcuno,qui dentro?", urlano le persone, rivolte al ragazzo,
" Your lips are move, but I can't hear what you say! -  Le tue labbra si muovono, ma non posso sentire ciò che dici! "
" This is not how I am.  - Questo non sono io."


«Com'è che ti chiami tu,scusa?!» 
Mi volto di scatto, sorpreso, coprendo istintivamente il disegno con le mani. Eric mi sta fissando.
«Io..Sebastian. Ma chiamami pure Seb», rispondo, guardandolo a mia volta, di sfuggita. Indossa una maglietta dei Led Zeppelin, è una delle prima cose che noto, adesso che si è tolto la giacca.
Chi lo avrebbe mai detto, che un mio nuovo compagno potesse ascoltare lo stesso tipo di musica che piace a me?
Il mio gruppo preferito, per giunta.
Metto da parte tutti i vecchi ricordi che ho legati alle loro canzoni, per evitare di farmi male per l'ennesima volta, e penso che vorrei tempestarlo di domande, ma non so da dove cominciare. Ti piace la musica rock? Suoni qualcosa? Come hai iniziato ad ascoltarla?
Mentre ci rifletto su, lui mi risponde. 
«D'accordo, Seb, allora. Tre lettere, lo preferisco, è più facile da ricordare.» 
«La volete piantare, voi due?!», sbotta il professore. «Tu,Weymouth… partiamo male...malissimo!» 
Eric lo ignora completamente, senza manco guardarlo in faccia.
 
La campanella suona qualche minuto dopo, e la maggior parte dei miei compagni si raggruppa intorno ad Eric, visibilmente incuriosita da lui. Alcuni lo scrutano senza farsi troppi riguardi , ma se ne stanno in disparte, mentre altri si avvicinano  a lui e lo riempiono di domande, e altri ancora ne sembrano addirittura intimoriti.
 Jake, che solitamente è il primo a farsi avanti nelle nuove situazioni, non si smentisce neppure questa volta, avvicinandosi a lui e porgendogli prontamente la mano, sfoggiando uno dei suoi migliori sorrisi, che credo solo poca gente riesca a percepire come falsi, oltre a me. Anche Candice, la ragazza più popolare della classe, affianca Jake in quella presentazione, circondata dalle sue amiche, in attesa di sapere qualcosa di più su questo nuovo, imprevisto compagno. Io mi limito a restare seduto al mio posto,  osservando la vicenda da lontano, cercando di udire il più possibile i dialoghi di Eric con il resto della classe.
«Jacob Carter, per tutti sono Jake … sono il rappresentante di classe.  Nessuno si aspettava un altro compagno: sei nuovo, qui a Luton? Non ti ho mai visto qui  in giro!»,  si presenta Jake, mentre Eric afferra rapidamente la sua mano, stringendola per un breve istante, per poi lasciar ricadere nuovamente il proprio braccio lungo i fianchi. E’ evidente che, al contrario di Jake, Eric non si sta minimamente sforzando di ostentare un’espressione di cortesia e diplomazia, ma, al contrario, lo fissa perplesso, sollevando appena un sopracciglio, come se non capisse il senso di quelle presentazioni così formali.
«Mi chiamo Eric Weymouth, e sono nato e vissuto a Greenwich, giusto fino a pochi mesi fa. »
«Greenwich…mhm..»,  ripete Jake con un sorriso di scherno, per poi scuotere appena il capo, sospirando.   «Un osservatorio astronomico, e poi? Tanta rottura di palle. Naaah, qui è molto meglio»,  afferma Jake con estrema convinzione, e Candice ridacchia per qualche istante, ma Eric non pare affatto offendersi. Evidentemente, non è particolarmente legato alla sua città natale.
«Fai sport, Eric? C’è un ottima squadra di football, qui. Perché non vai a darci un’occhiata? Beh, mica dico mettersi al livello dei professionisti, certo, arrivare a essere bravi come me, che gioco da dodici anni, ma..» 
«No, mi dispiace.»,  lo interrompe bruscamente Eric, senza risparmiare un piccolo sorriso. «Niente football, e niente sport. Però è vero, Luton è bella. Sono stato a un parco, e wow, quello sì che mi è piaciuto! E anche il museo d’arte, e, beh, la chiesa di St. Mary ... è una meravigliosa costruzione medievale.»
«Che fai, mi prendi per il culo?» domanda Jake, visibilmente accigliato.
«No, mi piace questa roba, vorrei seguire studi d’arte, dopo la scuola. Se a uno piacciono i dipinti e i giardini ti prende per il culo, di solito?» ribatte Eric, senza scomporsi. Anzi, dal suo sorriso sempre più ampio, giurerei che si sta trattenendo dallo scoppiare a ridere.
«Oh, beh. E cosa fai il sabato sera di solito? Discoteche, o è troppo “estremo” ?», si intromette Candice, sarcastica.
 «Noooo!!! Concerti, concerti, e concerti! In questo mese ho sentito un mucchio di gruppi formidabili, qui nei paraggi, sapete? E poi Londra è qui vicina, cazzo, di certo non mi mancherà, la musica live!»
«Concerti di che genere, scusa? Sembri uno di quei rockers schizzati. Eppure sei bello, potresti persino fare il modello, con quel viso e quel fisico…! Solo,  non dovresti conciarti così…», asserisce la ragazza, scuotendo il capo con disappunto. Non  posso fare a meno di ridere dei loro discorsi.

Sembrano tutti stupiti da questo nuovo arrivato, anche se in fin dei conti non sta dicendo cose così strane! Anzi, io sono incuriosito.
Potrei essere suo amico, vorrei. Forse un amico qui non sarebbe così male. Un vero amico. E' inutile, ormai, rimpiangere i vecchi tempi e basta.
Ma non so. Comporterebbe l’affezionarsi, di nuovo. E perdere, inevitabilmente, con il passare del tempo.
«Musica rock, in genere…: io la AMO! E grazie per il complimento, forse un po’ poco originale, quel … ‘rocker schizzato’!» 
«Mhm..e stai con ragazza, o sei single, solo ed asociale?»
«Una ragazza? Poveretta! Mi scaricherebbe dopo due giorni, se ce l'avessi. »
Evidentemente annoiato da quella specie di intervista, Eric si avvia senza troppi riguardi verso la porta dell’aula, abbandonando quest’ultima con aria sollevata, che, giustamente, immagino sia dovuta dall’allontanarsi per qualche istante dalla massa di imbecilli con cui dovremo condividere le nostre lezioni.


E' completamente diverso da me, questo Eric. Dice tutto quello che gli passa per la testa, senza farsi problemi, o nascondersi, come faccio io, da quando sono qui.
Cos’è che vorrei, la sua faccia tosta? Il suo modo di affrontare ciò che lo irrita con il sorriso sulle labbra? Vorrei  essere più forte, solo un pochino di più. Vorrei che le opinioni degli altri, i loro sguardi, le loro parole, non mi scalfissero così profondamente ogni volta. E vorrei che il passato non mi seguisse come un’ombra, oscurandomi quasi tutte le speranze, i barlumi di interesse verso le cose, lasciandomi disinibito di fronte al mio presente, e al mio futuro.
Ricordo come se fosse ieri il primo giorno di scuola a Luton, a metà anno della prima:  gli occhi di tutti puntati addosso come fari e i ricordi dolorosi a tormentarmi, ancora vivi.
Era cambiato tutto all'improvviso, e ancora non riesco ad accettarlo. Ma ora che con i miei occhi vedo di non essere l’unico in questo pianeta a non seguire così tanto i gusti e i pensieri della maggior parte dei miei coetanei, mi rendo conto che questa la mia ostentata freddezza non mi sta portando altro che ulteriore dolore e disagio, che, per quanto io possa nascondere, non fa altro che accumularsi giorno per giorno. Dovrei trovare un rimedio, lo so, per cambiare questa situazione, e il prima possibile.  Ma forse il problema principale sono io. Sono io ad essere cambiato.
Sono diventato piacevolmente insensibile, e nient’ altro.
 
 
  
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