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Autore: _elanor_    14/06/2008    6 recensioni
La mia prima storia è dedicata a Lily, James, Severus, Sirius e Remus: delle loro vite ai tempi di Hogwarts. Questo è il primo capitolo, in cui vengono presentati i personaggi nell'arco della serata che precede la loro partenza per Hogwarts. Spero che vi piaccia quanto a me è piaciuto scriverla
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: James Potter, Lily Evans, Remus Lupin, Severus Piton, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Il lato triste del Natale

 

Al contrario di ogni sua prospettiva, tornato a casa Sirius non aveva ricevuto nessuno dei trattamenti che si aspettava di ricevere. Nessuno l’aveva picchiato o sgridato per il suo ingresso nella Casa nemica per eccellenza. Non aveva sollevato nessuno sprezzante appellativo quando era rientrato in casa avvolto nella sua vistosa sciarpa giallo-rosso, trascinando il pesante baule, dopo che un autista era stato mandato a prenderlo alla stazione di Londra.

E, con suo sollievo, il suo nome era ancora ben visibile nell’antico arazzo di famiglia; segno che non era stato ancora ripudiato dai Black.

Molto più semplicemente, i suoi genitori avevano deciso di ignorarlo. Di comportarsi in sua presenza come se non ci fosse. Gli passavano accanto senza rivolgergli uno sguardo. Consumavano i pasti alla stessa tavola senza inserirlo nella minima conversazione. Anche Kreacher, l’elfo domestico più anziano della famiglia, lo guardava in malomodo, quasi con disprezzo.

Questa punizione era ancora più pesante di tutte quelle che si era aspettato. Anche perché, non poteva difendersi dall’essere ignorato. Non poteva controbattere. L’unica cosa che poteva fare era subire quel comportamento in silenzio.

Sua madre questo, sicuramente, lo sapeva bene. D'altronde, era una maestra in questo genere di punizioni psicologiche.

L’unico di tutta la casa che ancora gli rivolgeva la parola era suo fratello, Regulus.

< Ma come diavolo hai fatto a finire in quella casa, Sir?! > erano state le prime parole che gli aveva rivolto nel rivederlo alla stazione, dove era andato ad attenderlo con l’autista.

< Ciao anche a te, Reg. Sono felice anch’io di rivederti dopo così tanto tempo >.

< Dai scemo… Lo sai che mi sei mancato… >. Sirius aveva puntato lo sguardo sul fratello che teneva la testa bassa sull’asfalto davanti alla lucente macchina nera, noleggiata dai genitori per riportarlo a casa. Le guance del fratello erano lievemente colorite, come se si vergognasse delle parole che aveva appena detto. In effetti non era da lui esprimere i suoi sentimenti in quel modo. Sirius gli aveva dato una pacca sulla spalla ed era salito sul sedile posteriore, facendogli spazio accanto a lui.

< Sul serio, ma come hai fatto? Lo hai chiesto al Cappello? > aveva chiesto di nuovo Regulus durante il viaggio di ritorno a Grimmauld  Place, fissando il fratello con i suoi profondi occhi blu, tanto simili a quelli della madre da dargli i nervi.

< Macché, io non ho chiesto assolutamente niente! Ha fatto tutto da solo. C’avrà messo dieci minuti per decidere dove smistarmi, quel coso polveroso >.

< Cavolo >. Regulus si torturava le dita delle mani, con lo sguardo fisso sul sedile davanti a lui. < Papà e mamma erano furiosi quando l’hanno saputo. Mamma ha urlato per settimane, tanto che Kreacher è dovuto andare a Diagon Alley a comprare una pozione contro la collera >.

< Non ti invidio, a sopportarti quegli strepiti… e papà invece? >

< Lo sai com’è fatto papà, è più tranquillo di mamma… Ha solo fatto saltare in aria le porcellane della nonna >

Sirius era scoppiato in una fragorosa risata, buttando la testa all’indietro sul sedile di pelle scura. Tanto che poco dopo anche Regulus si era ritrovato a ridere, contagiato dalla reazione del fratello maggiore.

 

ef

 

La gente dice che il Natale è la festa più amata dai ragazzi; quella che aspettano con più fervore.

Be’, questa cosa non era affatto vera per Severus Piton. Lui non amava il Natale, come non amava le festività in generale. Anzi, in tutta onestà poteva dire che odiava il Natale.

Ogni anno, per lui quella giornata si svolgeva praticamente allo stesso modo: passava tutto il giorno in casa, davanti alla televisione o leggendo chiuso in camera sua. Suo padre non rincasava fino all’ora di cena, trascorrendo l’intero pomeriggio al bar sotto casa a scolarsi birre, mentre sua madre cucinava ogni santo anno lo stesso insipido pollo rinsecchito, che la maggior parte delle volte non veniva neanche finito. Poi, durante la cena, per i motivi più sciocchi, suo padre perdeva le staffe e cominciava a inveire contro lui e sua madre, fino a che lui correva in camera sua a rintanarsi sotto le coperte per soffocare le urla e il rumore di vetri infranti che proveniva dalla stanza accanto.

In effetti, quell’anno avrebbe preferito mille volte rimanere ad Hogwarts per le vacanze, ma sua madre aveva così insistito perché tornasse a casa che si era sentito in dovere di farlo. Non poteva lasciarla sola con quell’uomo orribile. Infondo, si trattava solo di pochi giorni.

Così, si era fatto il viaggio in treno in compagnia di Lily fino alla stazione di Londra, al binario nove e tre quarti, dove aveva trovato sua madre ad attenderlo. La donna era notevolmente dimagrita, da quando il ragazzo l’aveva vista l’ultima volta, ed aveva il volto stanco e solcato da profondi segni che la facevano apparire più vecchia di quello che realmente fosse.

Vedere sua madre dopo tanto tempo lo aveva fatto tornare alla realtà, come se per tutti quei mesi avesse vissuto in una specie di limbo.

< Che cos’hai mamma? > gli aveva chiesto, mentre la donna lo abbracciava dolcemente.

< Niente, tesoro. Perché me lo chiedi? > aveva risposto la donna, carezzandogli il viso.

< Lui ti fa ancora del male? > 

< No piccolo, che dici? È tutto a posto >.

Severus aveva esalato un sospiro rattristato. Lo difendeva ancora. < Mamma, non mentirmi. Non sono stupido >.

Sua madre non aveva ribattuto alle parole del figlio.

Ed in quel momento, Severus era di nuovo in quella piccola stanza, seduto a terra, con la schiena appoggiata al letto. Di nuovo nella realtà della sua squallida famiglia. Nella tristezza della sua solitudine.

Ed avrebbe voluto con tutto se stesso trovarsi nel dormitorio dei Serpeverde, sul suo letto a baldacchino elegantemente agghindato coi colori della sua Casa. Avrebbe voluto essere immerso nei vapori dell’umida aula di pozioni, o seduto ad un tavolo della biblioteca, assorto nella lettura di qualche interessante volume intriso di storia e nozioni. Perché ormai la sua casa, quella che davvero sentiva la sua casa, era Hogwarts. E la sua famiglia erano i Serpeverde. Perché loro lo accettavano, lo rispettavano e lo lodavano per ciò che realmente era. Per ciò che il suo schifoso padre babbano non aveva mai voluto accettare. Non aveva mai voluto capire.

Non aveva mai voluto amare.

 

ef

 

La casata dei Black era riunita al completo attorno alla grande tavola nella lussuosa sala da pranzo a Black Manor. Ai due estremi della tavola sedevano i due padroni di casa, Cygnus e Druella Black. Ad un lato della tavola erano accomodati Lucretia e Ignatius Prewett, Bellatrix, la figla maggiore dei padroni di casa, accanto al suo novello marito Rodolphus Lestrange e Narcissa. Dall’altro lato invece sedevano Orion e Walburga Black con i due figli, Sirius e Regulus, ed Alphard Black.

I commensali assaporavano il delizioso cenone di Natale alla luce di innumerevoli candele bianche che lentamente si consumavano. La tavola era apparecchiata a regola d’arte, con stoviglie pregiate, ed abbellita da vasi di fiori sulla tonalità del giallo e del verde e antichi e pesanti candelabri appartenuti alla famiglia da chissà quante generazioni. Tutto in quella tavola portava le insegne dei Black, quasi a sottolineare ancora di più il loro potere.

Gli elfi domestici non facevano che apparire e sparire nella sala, con pietanze succulente e saporite che servivano sui piatti degli ospiti.

Il chiacchiericcio imperversava per tutta la stanza. Un allegro rimbombo di risate e voci trillanti, che si animavano sugli argomenti più frivoli ed insignificanti.

Per sua fortuna, pensò Sirius, la cena sarebbe finita lì a breve, dato che gli elfi ora stavano servendo i dolci natalizi, e caffè in graziose tazze di porcellana bianche abbellite da elaborati decori in oro.

Come si aspettava, nessuno gli aveva rivolto la parola praticamente per tutta la serata, escluso suo zio Alphard, l’anziano fratello di sua madre che nutriva per il ragazzo un insolito affetto.

< E sentiamo, giovanotto, come va la scuola? > gli chiese affondando la piccola forchetta d’argento nella grossa fetta di plum pudding.

< Abbastanza bene, zio > rispose Sirius, contento di poter intrattenere una conversazione di più di tre parole. < Le materie sono tutte belle. Anche se Storia della Magia è di una noia mortale. E poi, il professor Ruf è proprio soporifero >.

< Santo Cielo, Ruf insegna ancora? Avrà cent’anni quell’uomo! > fece lo zio, sputacchiando un po’ della sua torta addosso al nipote.

< In realtà è morto > spiegò il ragazzo, pulendosi il viso con un tovagliolo di lino. < È il suo fantasma che insegna >.

< Per Diana! Questa poi! Fare insegnare ad un fantasma. Silente si dev’essere bevuto il cervello >.

< No, Silente è in gamba, anche se è proprio strano. Pensa che- >.

< Alphard, per caso sai dirmi se tra i nostri parenti acquisiti c’e anche la famiglia Burke? >. La voce altisonante di sua madre, che non aveva fatto altro che squadrare il figlio stizzita da quando aveva aperto bocca, interruppe quella conversazione. Lo zio intavolò un noiosissimo elenco di tutte le parentele dal 1800 in poi, escludendo di nuovo il ragazzo da ogni possibile dialogo.

Ancora una volta era solo con se stesso, ignorato da tutti. Proprio ciò che voleva sua madre. Mai avuta punizione peggiore.

Sirius si alzò dalla sedia, lasciando la sala e le sue chiacchiere senza essere notato, ritrovandosi nell’ampio atrio. Salì le lussuose scale che portavano ai piani superiori e girò a sinistra al primo piano, dove erano situate le camere da letto delle tre cugine. Era da quando era arrivato in quella casa così dispersiva e sfarzosa che voleva farlo. Si diresse verso la porta al centro, di un delicato color crema, che nascondeva quella che era stata la stanza di Andromeda. Chissà se era rimasta come se la ricordava, o se gli zii avevano cancellato anche quella, come avevano cancellato la figlia.

Avvicinandosi notò che la porta era aperta. Entrò con passo felpato, e scorse seduta sul letto, nell’oscurità della stanza, una figura vestita di rosa, la chioma di capelli biondi china su qualcosa che teneva in mano. non si era accorto per niente che anche Narcissa aveva lasciato la sala da pranzo.

< Tu che ci fai qui? > chiese. La ragazza saltò in piedi, voltandosi in direzione della voce, lasciando cadere a terra qualcosa. Sirius rimase colpito nel vedere i suoi occhi chiari lucidi di lacrime.

< Per la miseria, Sirius! Mi hai fatto prendere un colpo! > disse la ragazza, visibilmente agitata. < Come mai sei venuto qui? >

< L’ho chiesto prima io > rispose il ragazzo.

< Cissy? >. La voce di Bellatrix giunse dal corridoio. Narcissa parve raggelarsi al suono di quella voce, e si affrettò ad asciugarsi gli occhi, poco prima che l’altra ragazza entrasse nella stanza.

< Cissy, è un pezzo che ti cerco > disse Bellatrix, dall’alto dei suoi 171 centimetri. Era impressionante quanto fosse bella: il suo perfetto viso ovale era incorniciato da ordinati riccioli scuri che gli ricadevano fin sotto le spalle, dando risalto al verde cupo dei suoi profondi occhi a mandorla. Incuteva quasi terrore quella sua algida bellezza. Gli occhi di lei si spostarono sul ragazzo, ma non pronunciò una parola: sicuramente la signora Walburga Black si era premurata di istruire a dovere tutti sul comportamento da usare nei confronti del figlio. Si rivolse di nuovo alla sorella e disse < Che ci fai in questa stanza, piuttosto? >

< Niente, Bella > rispose la ragazza, tirandosi di più dritta sulle spalle, con la voce altezzosa. < Credevo di aver lasciato qui i miei orecchini di madreperla, ma mi sbagliavo. Andiamo? >. Bellatrix precedette la sorella uscendo dalla stanza per prima. < Tu sta zitto > bisbigliò Narcissa al cugino passandogli accanto.

Sirius era quasi incredulo. Sua cugina Narcissa, Cissy-cuore-di-ghiaccio come la chiamava lui, in lacrime nella stanza intatta della sorella ripudiata. Infondo, forse anche lei aveva dei sentimenti, da qualche parte dentro di se…

Il ragazzo si avvicinò al letto e si piegò sull’oggetto che era scivolato dalle mani della cugina. Alla pallida luce che irradiava dalle torce fuori dalla finestra osservò una cornice d’avorio riccamente intagliata, che proteggeva una foto in cui tre ragazzine, una bruna riccioluta, una castana dai morbidi capelli mossi ed una biondina dalle gote rosse, ridevano felici abbracciandosi.

 

ef

 

La sala da pranzo era illuminata debolmente da un piccolo lampadario di porcellana a motivi floreali sopra la tavola apparecchiata per tre, e dal riverbero tenue delle immagini di famiglie felici e alberi sfavillanti che trasmetteva la televisione.

Al tavolo, i tre commensali cenavano nel più assoluto silenzio. Non un sorriso. Non una parola.

Severus affettava la sua parte di pollo nel modo meno rumoroso. Suo padre sembrava totalmente rapito dal televisore, senza degnare di uno sguardo i due altri membri della famiglia. Aveva le guance rosse come ciliegie mature: il che, Severus sapeva bene, voleva dire che l’uomo aveva alzato un po’ troppo il gomito giù a bar, e che quindi era meglio evitare inutili pretesti per alterarlo. Anche sua madre se n’era accorta, e stava seduta nella sua sedia quasi senza muoversi, mangiando dal suo piatto qualche piccolo boccone.

< Cristo, Elieen, quest’affare fa schifo. È duro come un sasso. Perché perdi tempo a cucinare se poi ogni volta ti presenti con una schifezza del genere! >. Suo padre ruppe il silenzio con quelle parole biascicate.

< S-scusa > fu la risposta di sua madre, a testa bassa per non incrociare lo sguardo del marito. < Se vuoi ti preparo qualcos’altro >.

< Lascia stare > fece lui, senza neanche guardarla. < Tanto non combineresti lo stesso niente di buono >.

< A me piace, mamma > disse timidamente Severus. La donna gli rivolse un sorriso stanco.

< Tu sta zitto. Nessuno ti ha chiesto niente > tuonò il padre conto di lui. Subito Severus abbassò lo sguardo sul piatto. Come lo odiava. Ogni cosa di lui era un insulto. Se solo avesse potuto farlo smettere di maltrattare lui e sua madre.

La cena riprese nell’assenza di parole. Solo il padre a volte imprecava contro la televisione.

D’un tratto si sentì un persistente ticchettio dalla finestra della stanza.

< E adesso che cazzo succede? > sbraitò l’uomo, alzandosi da tavola e dirigendosi alla finestra. Non fece in tempo ad aprirla che un grosso gufo dal bel piumaggio marrone volteggiò nella stanza, a mezz’aria, e planò sulla spalla del ragazzo, che rimase allibito. Chi poteva mandarli un gufo a quell’ora? Severus alzò lo sguardo sul padre, che aveva gli occhi stretti in due fessure minuscole. Quello era proprio il genere di cose che gli facevano saltare i nervi.

< E questo che è? > chiese l’uomo con il volto che avvampava di rabbia.

< Non lo so > fece il ragazzo, impaurito.

< Non mi dire stronzate, ragazzino! Questo arriva da quella cazzo di scuola che frequenti vero? >. L’uomo si stava avvicinando alla tavola, gli occhi fissi sul figlio.

< No… non credo… io >. Severus era nel panico più totale, immobile sulla sedia. Il gufo s’era alzato in volo e volteggiava attorno alla lampada, sopra di loro. Suo padre odiava tutto ciò che riguardava la magia. Per questo sua madre non ne parlava mai, né la usava nelle faccende domestiche. Erano anni ormai che la donna non prendeva in mano la bacchetta.

< Ma che ti passa per la testa, eh? Se qualcuno lo vede che penserà di noi eh? Ci hai pensato? > tuonò suo padre, sollevando il ragazzo per il colletto del maglione verde e facendolo alzare di peso dalla sedia. Il gufo volò fuori dalla finestra.

< Theodor, ti prego… lui non… > cercò di calmarlo la moglie.

< E tu sta zitta! Non ti impicciare! >

< Papà, ti giuro… io non so chi me l’ha mandato! > provò a giustificarsi Severus, aggrappato alle mani del padre che ancora stringevano il maglione. Sul volto impresso tutto il suo spavento.

< Non dire cazzate! > gridò più forte l’uomo. Uno schiaffo colpì Severus in pieno viso, facendogli girare la faccia. Per qualche istante non riuscì a mettere bene a fuoco ciò che lo circondava. Si sentì afferrare per le spalle e scuotere violentemente.

< Theodor! >. La voce di sua madre giungeva da un punto indefinito dietro il padre.

< Se non l’hai ancora capito, non voglio che quelle cazzate che fai te le porti in casa! > gli urlava suo padre a pochi centimetri dalla faccia. L’alito caldo che gli sferzava il viso, accentuando il bruciore della guancia colpita, era carico di un forte sentore di alcool.

Non l’aveva mai visto in quelle condizioni. Era furioso, pazzo quasi. Gli occhi sgranati, il volto contratto in una maschera di rabbia e odio, la pelle paonazza per le grida e l’ubriachezza. < Non basta forse la disgrazia di avere due anormali come voi in casa?! >.

gridava sua madre sempre più forte, strattonando il marito per un braccio.

< E tu non rompere, stronza! > tuonò l’uomo, lasciando il figlio e voltandosi per colpire la donna violentemente sul viso, facendola cadere carponi a terra.

< Mamma! > gridò Severus allibito.

< È  solo colpa tua se ora sono qui! Tua e delle tue fatture del cazzo! Brutta strega! > gridava l’uomo.

< Theodor, ti prego… > cercava di calmarlo la donna. Il marito la prese per un braccio, facendola alzare da terra. Severus vide un rivolo di sangue scendere dalla bocca tumefatta della madre lungo la pelle emaciata. Il padre le torceva il polso con violenza inaudita.

< È tutta colpa tua! Maledetta stronza! > e la colpì di nuovo in volto.

Severus, smise di pensare. Corse in camera sua più in fretta che poté. Il rosso di quel sangue gli dardeggiava ancora davanti agli occhi, accecandolo. Dove diavolo l’aveva messa? Gli occhi vagarono per la minuscola stanza. Eccola, per terra, accanto al letto.

Afferrò dal pavimento la sottile bacchetta e si diresse di nuovo verso la sala. Nella mente ricercò un anatema, uno potente. Uno potente. Ne aveva letto uno pochi giorni prima in biblioteca.

Puntò la bacchetta contro la schiena del padre. Com’era la formula…? Sua madre ancora gridava il nome dell’uomo che amava, pregandolo di smetterla. La ricordò.

< STUPEFICIUM! >

Un lampo di luce rossa fuoriuscì dalla bacchetta e colpì l’uomo al centro esatto delle scapole. L’uomo ebbe uno spasmo e cadde a terra, privo di sensi.

Era finita.

Severus aveva ancora la bacchetta in mano, le braccia tese dinanzi a lui. Non riusciva ad abbassarle. Il padre ora giaceva a terra. Sua madre era contro la parete, reggendosi ad un mobile con una mano. Aveva i capelli scompigliati e il volto gonfio e rosso, la bocca sanguinava ancora più di prima. I suoi profondi occhi scuri erano lucidi e arrossati, fissi sul figlio.

Lo guardava con quei liquidi occhi sgranati, e un’espressione incredula.

< Sevy… > disse con un filo di voce che il figlio quasi non udì.

Severus, si riprese appena. Abbassò le braccia e corse fuori di casa, lasciando sola la madre, e il padre ancora disteso sul pavimento freddo del soggiorno.

 

ef

 

Sirius scese di nuovo le scale, in direzione della sala da pranzo, ma al suo interno non era rimasto più nessuno. Le candele ardevano ancora e gli elfi domestici sparecchiavano frettolosamente la lunga tavola sontuosa.

Il ragazzo si scostò da davanti agli occhi i capelli scuri, che gli erano cresciuti di diversi centimetri dall’inizio della scuola (se sua madre gli avesse parlato, sicuramente gli avrebbe gridato contro di farseli accorciare), e si diresse verso la grande sala dall’altra parte. Avvicinandosi notò che la porta era chiusa, e che un ragazzino piccolo e moro era appoggiato alla serratura.

< Reg, ma che cavolo… >

< Sssssh! > sibilò al fratello voltandosi verso di lui con un dito pigiato sulle labbra a cuore. < Si sono chiusi in sala. Stanno parlando di qualcosa di importante > disse a Sirius sottovoce.

< Di che parlano? > Chiese il moro, tendendo le orecchie per sentire le voci ovattate che venivano dall’altra parte della porta.

< Non lo so, ma è una cosa parecchio seria. Ho sentito Bella parlare di un marchio… credo che riguardi il Signore Oscuro >.

Il Signore Oscuro. Quel nome altisonante lo sentiva da quando era piccolo. L’aveva udito in stralci di conversazioni ascoltate per sbaglio, sospirato nelle orecchie dei membri della sua famiglia. Aveva potuto notare il timore e la reverenza che quel nome procurava in chi lo udiva. Ma non aveva mai ben capito a chi appartenesse. O cosa significasse.

Sapeva solo che era qualcosa di molto segreto e sicuramente molto pericoloso.

Sirius scostò con uno spintone il fratello da davanti alla porta e accostò il suo occhio grigio alla serratura, con le orecchie attente al minimo sospiro che proveniva da lì dentro.

< Ed è stato doloroso, cara? > la voce di sua madre, altezzosa e flautata.

< Affatto, zia > rispose il tono mellifluo di Bellatrix, che riusciva a vedere di schiena di fronte a lui, con il braccio destro proteso in avanti. < Anzi, è  stato così delicato con me che a mala pena me ne sono accorta >.

< Oh, che onore, Cygnus. Avere una figlia tra le schiere del Signore Oscuro. Così vicino a lui! >. Ancora sua madre; dallo spiraglio vedeva i suoi occhi blu pervasi di una strana luce.

< Si, Walburga, è davvero un grande orgoglio per noi. >. La voce di Druella. < La nostra Bellatrix è così ben voluta da lui che è una delle sue predilette >.

< Già, credo che voglia eleggermi a suo braccio destro. Devo dire che sono la migliore nell’eseguire le sue missioni >.

< Si, ho saputo di quel Seamus Carpenter, quel babbanofilo nato babbano > suo padre, Orion. < Hai compiuto un lavoro straordinario. Il Profeta diceva che sul luogo non c’erano tracce >.

< Se continueremo a reclutare adepti con questa rapidità, presto il mondo magico sarà debellato dalla piaga del sangue impuro >.

Sirius sgranò gli occhi all’udire quelle parole e si scostò dalla porta.

Aveva sentito parlare dei recenti attacchi alle famiglie di nati babbani, e della morte del professor Carpenter, dottore in babbanologia. Ma mai avrebbe creduto che membri della sua famiglia potessero essere immischiati in cose tanto orribili.

< Ecco di che si tratta > sentì suo fratello sussurrare accanto a lui. < Vogliono eliminare tutti i nari babbani. Incredibile… >

Il ragazzo prese a respirare velocemente. La sua famiglia non era altro che un branco di assassini e sostenitori di omicidi. E tutto questo per la loro assurda ossessione dell’importanza del sangue puro. Sentiva la nausea salire.

< Sir, che hai? Sei pallidi… > suo fratello lo osservava preoccupato.

< Ma ti rendi conto, Reg? Ti rendi conto di quello che fanno ai mezzosangue? > disse a denti stretti al fratello.

< Certo che mi rendo conto > rispose il ragazzo, tranquillamente.

Sirius rimase ancora più spiazzato, se possibile. < E a te non fa schifo? Possibile che non ti fa schifo? >. Possibile che non gli facesse schifo la brutalità e la follia della sua famiglia?

< Perchè? >

 No, non ci credeva. Non voleva crederci. Suo fratello la pensava come loro anche in quello. Era troppo. Corse via dall’atrio, su per le scale, fin dentro la camera della cugina ripudiata, chiudendosi la porta alle spalle. Si accasciò a terra, senza fiato. Avrebbe voluto urlare, fare a pezzi qualcosa; ma era inutile. Non cambiava niente. Non cambiava il fatto di appartenere ad una famiglia di assassini.

 

ef

 

Era freddo. L’aria della sera era ghiacciata. Gli penetrava nelle ossa. Nella profondità del suo esile corpo. Tremava. Come una foglia.

Era uscito senza neanche prendere una giacca. Aveva indosso solo quel maglioncino di un verde sbiadito, logoro e slargato sul collo, e un paio di jeans troppo corti per i suoi lunghi e magri arti.

Chissà da quanto tempo era seduto su quell’altalena. Ore. Forse giorni. Aveva perso la cognizione del tempo da un pezzo.

Strinse i pugni. Qualcosa nella mano destra lo fece trasalire, qualcosa di duro e sottile. Osservò il suo pugno che ancora stringeva la sua bacchetta: legno di betulla con cuore di peli di Unicorno Albino, dodici pollici, rigida. Era ancora tra le sue mani.

Allora, questo significava che era accaduto davvero. Aveva veramente attaccato suo padre alle spalle, con un incantesimo che non aveva mai usato prima. L’aveva davvero ridotto senza sensi.

Non riusciva neanche a ricordare come aveva fatto, come era arrivato in camera sua, dov’era la bacchetta. Ricordava solo la paura che provava nel fissare quegli occhi furiosi. Ricordava i gemiti di tua madre che ripeteva disperata il nome del marito. Quel rivolo di sangue sulla sua pelle bianca.

Non si sentiva in colpa. Era quello che si meritava. Era giusto. Stava picchiando sua madre. Erano anni che picchiava sua madre. E lo odiava. Più di chiunque altro al mondo. Lo odiava alla follia.

L’avrebbe rifatto altre mille volte. Se lo meritava.

Allora perché era scappato? Perché nel vedere gli occhi sconvolti della madre era dovuto correre via da quella casa? Perché non aveva detto niente? Perché quegli occhi arrossati l’avevano fatto sentire in colpa e vergognare di se stesso?

< Ehi, allora l’hai ricevuto il mio gufo! >. Severus alzò lo sguardo in direzione della voce. Una figura si stava avvicinando rapidamente a lui. Era Lily, lo sapeva. Non perché la distinguesse bene, ma solo lei aveva i capelli di quell’intenso rosso scuro. Solo i suoi occhi avevano quel riflesso di smeraldo.

Il mio gufo… era suo il volatile che era entrato poco fa in casa sua. Si alzò dall’altalena, rendendosi conto solo in quel momento di tremare spasmodicamente.

< Me l’hanno regalato i miei per Nata… Sev, ma che hai? > la ragazza si era fermata a pochi passi da lui.

< Perché? >

< Hai una faccia così… e la guancia? Perché  hai un livido sulla guancia? > Severus le stava di fronte. La fissava ma non la vedeva. < E come mai hai la bacchetta? Severus che è successo? >

Il ragazzo fece uno sforzo per concentrarsi sul viso di lei. l’intensità dei suoi occhi fissi su di lui lo spiazzò. Lo stava fissando con sguardo allibito, pietrificata da quella che doveva essere paura.

Era la prima volta che coglieva quella sensazione nel volto dell’amica.

< Ho colpito mio padre > disse senza riflettere, senza staccare lo sguardo da quello dell’amica.

< Ha cominciato lui. Mi ha preso a schiaffi. E poi ha picchiato mia madre > mentre parlava, vide le mani della ragazza andare a coprirle la bocca vermiglia, e gli occhi verdi inumidirsi. < Ha picchiato mia madre! Quel verme! Non ce l’ho fatta più. Sono andato in camera e ho preso la bacchetta. l’ho colpito alla schiena. Non sapevo neanche che effetto avrebbe avuto l’incantesimo. Non l’avevo mai usato. È svenuto. È caduto a terra come un sacco vuoto. Se lo… >

Non finì la frase. Sentì qualcosa infrangersi contro il suo corpo. Abbassò lo sguardo; Lily era aggrappata a lui, lo stringeva con tutta la forza che aveva, scossa dai singhiozzi. < Lily… >.

< Mi dispiace tanto, Sev! Mi dispiace tanto! Non è giusto! >.

Era dolce. E triste. Un abbraccio dolce e triste. Che lo placava e lo consolava. Che gli dava la speranza di non essere solo, dopotutto. Sentì qualcosa di umido sul viso, e capì che stava piangendo. Non se ne era minimamente accorto. Non capiva nemmeno se stesse piangendo già prima che Lily lo abbracciasse.

Si lasciò cullare dall’abbraccio della ragazza per un po’, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, la testa bassa, ad occhi chiusi, e le lacrime che scendevano silenziose lungo le sue pallide guance incavate.

Lentamente riaprì gli occhi, e in basso vide qualcosa di colorato.

< Cos’è quello? >. La sua voce risultava roca e bassa.

L’amica si separò da lui. < Ah, già > disse, asciugandosi con una mano guantata le guance. < È per questo che ti avevo mandato quel messaggio >

< Non l’ho letto >.

< Be’, c’era scritto che ti aspettavo alle nove qui al parco > spiegò lei, abbassandosi a raccogliere l’oggetto, che si rivelò essere un pacchetto. < Ti ho fatto un regalo >.

La ragazza gli porse il pacchetto. Un regalo. Per lui.

< Lily, no… io non ti ho fatto niente… >

< Non importa. È che mi andava di farlo >.

Severus era allibito. Si rigirava il pacchetto nelle mani come fosse la cosa più preziosa che avesse mai visto.

< Che fai, non lo apri? > chiese la rossa.

Severus scartò l’oggetto frettolosamente, lasciando che la carta ondeggiasse lentamente nell’aria fino a toccare delicatamente il terreno. Si ritrovò tra le mani un libro dalla copertina verde, con disegnata sopra l’immagine di una sirena. Il titolo diceva “Le più belle fiabe dei fratelli Grimm”.

< Non so se ti piace > Sentì dire Lily, mentre lui contemplava quell’oggetto. < È il mio libro preferito. La mamma ce lo leggeva, a me e Tunia, quando eravamo piccole, per farci addormentare >.

Questa volta fu Severus ad abbracciare l’amica.

< Grazie > le disse. < È il regalo più bello che abbia mai ricevuto >.

< Buon Natale, Severus >.

 


Eccomi di nuovo.

Lo so, questo capitolo è decisamente deprimente.  è stato più forte di me, mi è uscito senza quasi rendermene conto. Per molto sono stata incerta se pubblicarlo o no, ma alla fine ho ceduto. Scusate... Fatemi sapere che ne pensate, per favore (anche se vi fa schifo, cosa molto probabile).

Grazie a tutti quelli che hanno letto la mia storia. E  un grazie particolare a JDS per la recensione: spero che commenterai anche questo capitolo, mi piace molto sapere che ne pensi.

Un bacio a tutti!

M.

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