.: *** :.
Steve si guardò le mani e le dita riflessero come specchi
l’immoto grigiore circostante.
Immaginò, allora, che le pietre si mutassero in
rigagnoli di roccia fusa, che il rivoletto s’avvoltolasse ubbidiente
all’anulare e si solidificasse a formare una fasciolina non più spessa di
qualche millimetro.
Osservò quel nastrino con l’occhio della mente,
quasi si trovasse davvero al proprio dito e non racchiuso nel bandolo intricato
della fantasia: era un pensiero rincuorante, una speranza fondamentale per
quanto improvvisa, e il Capitano vi si aggrappò quale ultimo appiglio a quella
realtà, a quel vero, a quel mondo ora
così lontano, ora così simile ad un mero soffio di menzogna.
Anche davvero, davvero,
gli risultava ancora difficile credere a quanto era appena successo. A quanto
il compagno gli aveva appena chiesto. Proposto.
Forse era stato solo frutto del momento. Della
situazione in generale. Enfasi, costrizione, ansia, paura…Eppure…
Il volto di Tony, in un prima che poteva essere secondi ed ere all’insieme, gli era
sembrato tanto tangibile, la sua voce tanto ferma da fargli male al cuore. Le
parole che il compagno gli aveva urlato mentre veniva inghiottito in un murmure
nero di ombre gli avevano restituito un fiato di vita ancora palpabile, una
scheggia di calore ben impressa nel sangue: non era veloce, era fangoso,
sdrucciolante, goffo, ma un po’ scorreva ancora, sciacquettava borbottando
entro le vene, scavava di volta in volta più a fondo a rannicchiarsi e
ricordargli che ancora viveva e avrebbe potuto vivere di nuovo se solo avesse
avuto la forza di aspettare e non perdersi.
E continua a
parlare. Non smettere. gli ricordò Stark, il suo
volto contratto, i suoi occhi spalancati Parla
a te stesso, parla a me, ma con nessun altro. Rimani attaccato a questa vita o non sarò più capace di ritrovarti, ma
Steve era sicuro, oh, così sicuro che non ci sarebbe stato tempo né luogo in
grado di fermare la testardaggine incontrastata dell’uomo, che avrebbe
prosciugato mari e disciolto la calotta artica pur di trovare quel maledetto filo spinato e di tagliarlo una volta
per tutte Te lo prometto, Steve. Ti
porterò via di qui.
«E lo farai.» si era ripetuto il Capitano «So che lo
farai.» gli aveva sussurrato nell’antro ogivale degli Inferi, con la voce che
si rincorreva da una pietra all’altra e faceva aggrottare la fronte di Ermete,
portava le altre anime a volgere la testa bombata nella loro direzione -Avessero
avuto ancora occhi per palesare la perplessità e bocche per esprimerla, Steve
non dubitava sarebbe stato travolto nell’immediato da domande e dubbi e
chiarificazioni e preghiere, Insegnaci di
nuovo a parlare! Avrebbero piagnucolato Insegnaci
di nuovo a sperare!
«Non servirà a nulla.» era la costante protesta del
Dio, due passi davanti a lui, una figura altera e irraggiungibile, contrita e
furiosa «Molti hanno tentato di aggirare il fato comune dell’uomo, nessuno ci è
mai riuscito. Il prezzo, se qualcuno portasse mai a termine l’impresa, sarebbe
insostenibile.»
Ma Rogers non lo ascoltava e mentre oltrepassavano
archi di ragnatele e colonne di teschi tutti uguali nella correttezza della
Morte, si diceva di continuare a camminare, di continuare a ricordare, di
continuare a parlare, di non cercare altro interlocutore se non se stesso.
Pareva funzionare, comunque, giacchè l’oscurità gli
arrivava alle narici in zaffate insopportabili di marciume sudicio,
decomposizione malarica, viscere ed intestini crogiolatisi marcescenti al più
tremendo dei solleoni. Gli risultava impossibile sopportare la polvere e la
ghiaia incolore, e la compagnia d’Ermete lo irritava, le pareti infinite ai
lati dello sguardo lo schiacciavano di inspiegabile angoscia. Se prima
dell’incontro con Tony quel luogo aveva cominciato a far germogliare dentro di
lui la convinzione di appartenere ai ciuffi d’erba pallida, allo zolfo appena
percettibile dallo scroscio di fiamme lontane, al dolciastro profumo di loto
che si sprigionava da un fiume piatto poco distante, dopo il loro breve dialogo
aveva più che mai capito come l’unico posto cui appartenesse davvero era un
grosso, orribile edificio al centro di New York.
Le rocce non gli restituivano la voce e Steve ne era
sollevato: l’eco avrebbe significato la perdita delle parole, dei ricordi. Il
silenzio dell’Ade era la prova inconfutabile che non si stava più perdendo, che
aveva finalmente trovato un appiglio e un luogo sicuro per mantenere se stesso.
Non gli importava di Ermete, né del percorso che
ormai li aveva condotti alle sponde d’un fiume ributtante di fango e grumi di cenere
pastosa. Filari di anime dondolavano sul posto e il Capitano non poté fare a
meno di chiedersi se il lamento che sentiva vibrare fin dentro lo stomaco
appartenesse a loro o a lui, in risposta a quello spettacolo penoso.
Il Dio lo squadrò con sufficienza da sopra la spalla
cinta di polvere d’oro, si voltò e gli prese il polso con un movimento talmente
veloce che Steve si ritrovò sul palmo una moneta senza essersi accorto di
nulla.
«L’obolo.» spiegò Ermete, chiudendogli le dita sopra
il dischetto metallico –Inaspettatamente, quel gesto fu colmo di una gentilezza
quasi paterna «Consegnalo al nocchiero ed egli ti traghetterà alla seconda riva
dell’Acheronte, ultimo fiume che mai varcherai. Il mio viaggio al tuo fianco si
conclude qui, Steven Rogers, ma nel proseguo del tuo cammino non sarai solo:
un’altra anima, leale compagno di esistenza e di vita, sarà con te fino al
Giudizio di Radamanto, Eaco e Minosse.»
Steve schiuse le labbra e non fece in tempo a
chiedere di più, dimentico dell’avviso di Stark -Leale compagno di esistenza?
Bucky? Stava forse parlando di lui? L’avrebbe dunque rivisto? Avrebbe potuto
scusarsi, crollare in ginocchio e chiedergli perdono per non averlo salvato,
per non essere stato abbastanza?- che, ecco, vi fu un rudere stridere di remi e
onde ciangottanti.
Un grido feroce cavalcò il corso dell’Acheronte e le
anime si ritirarono, in un gesto di stizza e preoccupazione genuinamente umano:
l’acqua putrida era schizzata fuori dall’alveo ed essi erano indietreggiati,
una mano filamentosa lì dove una volta c’era il petto, dove una volta si
nascondeva il cuore, avevano reclinato la schiena e la veste per timore di
vederla insozzarsi di schiuma grigia.
Una simile preoccupazione scatenò nell’immediato
l’ilarità del nocchiero, piegato da risa e latrati su un legno assai piccolo di
primo acchito, eppure sorprendentemente vasto se si guardavano lunghe panche al
centro e ai fianchi della bagnarola, umida e fetida. Il nocchiero berciò
insulti in lingua aspra, sporcandosi di saliva la lunga barba già incrostata di
sale nero e polvere; curvo sul bastone immerso nell’Acheronte, li fissava uno
dopo l’altro coi grandi occhi di fiamma rubizza, strascinava i denti,
strascicava nuove bestemmie ed insulti; apertosi la via fino alla sponda
sabbiosa, raddrizzò infine le spalle e quello che al Capitano non era parso più
d’un vecchio ubriacone coperto di panni logori, si rivelò un marinaio dalle
ampie spalle, con le guance infuocate e i segni del mare sulle nocche e sulle
braccia cosparse di vene rigonfie. Il mantello annodato al collo scivolò di
lato, a dar mostra dei muscoli ben delineati, incontrastabili a vedersi.
«Venite! Venite, dunque!» li richiamò e le anime si
strinsero, minuscoli, tra loro, e insieme si avvicinarono alla barca con passo
da gregge tremante.
Steve contrasse la mascella, il cuore –Che non
sperava più di poter sentir battere contro le costole- ebbe uno sgroppo inquieto.
«Io non appartengo a questo luogo.» disse, girandosi
a guardare Ermete negli occhi azzurri.
La Divinità sollevò orgoglioso il mento e inarcò il
sopracciglio, un barbaglio di luce gli scivolò tra i capelli.
«Tutti i mortali appartengono a questo luogo.» lo
corresse «Anelate l’immortalità. E non
v’è immortalità più eterna dell’Ade
che
tutti v’accoglie.»
Il Capitano tornò a fissare la propria attenzione su
Caronte e il gruppo di spiriti che ormai s’erano seduti e acquietati nei posti
loro assegnati da un Destino più alto della volontà: rimaneva, ora, una sola
panca vuota, che spiccava nera nel biancore palpitante delle anime. Il
nocchiero ghignò, in segno di sfida, accennando al posto con un pacato alzarsi
della testa.
***
Lunghe ombre si tendevano al diramarsi dei sentieri.
Natasha piegò la testa e torse il collo a guardarsi
indietro: nessuno che la seguisse, nessuno che ripetesse i suoi passi dacché
s’erano divisi per cercare il ramo d’oro. Non che si sentisse sola, ma non
poteva negare che il buio intessuto tra i tronchi degli alberi e sopra il
proprio capo le stesse gettando addosso un fastidioso senso di claustrofobia.
L’Antro della Sibilla era sempre al loro fianco, che
lo aggirassero o meno. Sembrava seguirli, osservarli ghignando dal mezzo delle
fronde, divertendosi alle loro spalle e godendo del patetico susseguirsi di
gesti e ordini. Cammina, cerca, trova. Ma più camminavano e cercavano, meno
trovavano.
Ad essere sinceri, l’idea di prendere ognuno una
strada a sè era stata di Stark: Vendicatori,
divisi aveva sibilato, la voce resa tagliente dal sintetizzatore. Odisseo
aveva cercato di blandirlo e di convincerlo ad aspettare, nel mentre che Enea
rimaneva ritto al centro dello spiazzo dinanzi le porte dell’Averno. Con gli
occhi chiusi e il volto al cielo, il figlio di Priamo mormorava e sussurrava in
latino in un salmodiare tanto basso e concitato che non le era riuscito di
carpirne il senso. Orfeo, sdegnoso e sdegnato dalla loro presenza, non aveva
detto una parola di più: s’era seduto su di un cuscinetto di d’erba morbida
proprio accanto ad Enea e lo sguardo s’era cristallizzato sulla sua figura, non
l’aveva abbandonata un solo istante.
L’aria aveva cominciato a vibrare e Tony, ancora
teso e nervoso, aveva imposto loro di eseguire l’ordine senza controbattere. Ne
aveva abbastanza di Dei e litanie, aveva sbottato, dando le spalle al
capannello e scomparendo accompagnato dal trambusto dei fusti schiacciati sotto
gli stivali dello scafandro.
Lei aveva guardato Bruce e Bruce aveva scosso la
testa. Natasha aveva annuito, prendendo la propria via e sperando nella buona
stella che sapeva non possedere.
La ricerca, fino a quel momento, era stata
infruttuosa, non un barlume d’oro aveva sghignazzato ai lati degli occhi. Le
foglie si chiudevano a cupola nera sopra di lei, i rami rachitici la
stringevano in un abbraccio soffocante, gli arbusti ai lati del sentiero le
afferravano le caviglie, s’avvoltolavano ai polpacci e le spezzavano le
ginocchia. La voce della Sibilla cantava una melodia funerea, di fumi sulfurei
da far girare la testa, e il sopra era sotto e il passato presente, il futuro
un groviglio maleodorante di scelte sbagliate e sangue rappreso.
Perché la sensazione di vuoto e il cerchio alla
fronte s’attutissero, Natasha dovette portarsi i palmi delle mani alle tempie,
le dita artigliate ai capelli, i polpastrelli premuti contro la sommità del
cranio. Respirò forte e le foglie, ghignanti, le gettarono in faccia la neve di
Mosca, la steppa le urlò nelle orecchie, il vento le fece sbattere le
articolazioni contro la carne, in un gran clamore e clang clang di ossa e vertebre scompaginate. Guardò ai propri piedi
e una macchia di luce oleosa, verdastra, le bagnò la punta delle scarpe,
trasudò marcescente dalla terra; al centro si palesò un’ombra liquida, sospesa
in vitro e cristalli di ghiaccio. Era l’Inverno,
ecco cos’era, il rintocco d’uno sparo, il riflesso d’un arto meccanico, un
bacio che sapeva di ferro e di America lontana, ma mai dimenticata. Ricordi di
ieri che prendevano piede, si ramificavano nell’oggi, tagliavano uno squarcio
di traverso nel volto del domani. L’Inverno
sarebbe tornato, Vedova Nera non sapeva come, eppure era sicura che sarebbe
successo e stella bianca e stella rossa, l’una contro l’altra, in uno sprizzare
di scintille e di lacrime, asfalto divelto, fumo, occhi azzurri e occhi grigi,
pienezza e vuoto, lealtà e tradimento, amicizia e disperazione, e poi morte,
morte, morte, morte, morte, morte, morte, morte.
«Natasha!»
Vedova Nera si riscosse nel sentirsi chiamare e si
levò in piedi, sorpresa di essere caduta in ginocchio.
Bruce le era accanto, arrivato da chissà dove e da
chissà quanto, e lei nemmeno ne aveva avuto sentore, non se n’era accorta.
Tutto il proprio essere era stato riempito dei più terribili presagi, aveva
perso la presa e adesso neppure riusciva a ricordare cosa avesse visto, non era
in grado di rimettere insieme i frammenti di quelle visioni prima tanto
violente da far male.
La donna si ricompose con un veloce schiarirsi di
gola e sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio; inspirò forte,
chiuse gli occhi e, una volta pronta ad affrontare di nuovo la realtà presente,
si voltò verso il dottore con un quieto sorriso sulle labbra.
«Non è nulla, Bruce. Grazie per l’interessamento.»
Dal modo professionale ed emotivamente coinvolto in
cui la stava guardando, Natasha capì che l’altro non aveva creduto ad una sola
parola –Se non al Grazie finale, ma
non se ne diede pena. Cosa le fosse accaduto non era di competenza del dottore,
quindi spendere tempo a cercare una giustificazione plausibile era inutile,
oltre che dannoso.
Banner contrasse la mascella e pressò le labbra, gli
occhi abbassatisi un istante e quello subito dopo già alti ad incontrare i
propri.
«Io ho…Visto il mio esilio.» le rivelò, la bocca
sollevata in un sorriso impacciato, traballante. L’espressione che aveva
indosso pareva quasi una scusa per l’attimo di debolezza che l’aveva portato a
parlare «Questa foresta ci farà impazzire. Torniamo indietro.»
Vedova Nera si limitò ad annuire e stettero entrambi
in silenzio fino a che non raggiunsero di nuovo lo spiazzo dove avevano
lasciato le tre guide. Non si dissero nulla, ma procedettero vicini, le nocche
di Natasha che sfioravano il dorso della mano di Bruce, il polso di lui ad
accarezzare piano quello di lei, le spalle che si toccavano, gli sguardi che si
cercavano facendo finta di trovare il giusto sentiero.
Camminarono insieme nella compagnia reciproca della
propria solitudine.
Tony fu il primo ad accorgersi del loro arrivo, pur
non dicendo nulla, né commentando qualcosa a proposito. Era discostato dagli
altri, la calotta dell’armatura stretta sotto il braccio e il volto
corrucciato, quasi rabbioso. Se fosse stato per l’inutilità della sua ricerca o
per le visioni che dovevano averlo colto all’improvviso nella prigione di
alberi e fumi, Natasha non avrebbe saputo dirlo -Da come, però, Odisseo lo
guardava con sincera apprensione e Orfeo con delizioso interesse, era più che
mai propensa a vertere sulla seconda ipotesi.
«Attendevamo con ansia la vostra venuta.» il Cantore
sollevò le sopracciglia e indossò una sottile espressione derisoria «Ero
sicuro, oh mio caro dottore, del mio canto: m’è bastato pronunciare il tuo nome
sul dorso d’una foglia e la sua infinita eco ti ha riportata a me.»
Bruce tossicchiò e Natasha lodò mentalmente la sua
forza d’animo nel passare la frase sotto silenzio; un sorriso le nacque
spontaneo all’angolo della bocca, ma s’affrettò a nasconderlo nell’inflessione
rigida della voce quando si rivolse direttamente ad Enea, ancora fermo nella
posizione in cui l’avevano lasciato almeno una trentina di minuti prima.
«Non abbiamo trovato alcun ramo d’oro, in questa
foresta.»
«E’ perché non siete in grado di vedere» replicò il
prode guerriero d’Ilio, uno scintillio ghignante dei denti bianchi.
«Abbiamo battuto la zona qui intorno fino ad ora.»
rimbeccò Vedova Nera, tagliente.
«E’ perché non siete in grado di aspettare.»
Stark emise un verso stizzito, Natasha stava già per
replicare e un doppio frullo d’ali li colse entrambi impreparati. Da una
breccia delle fronde discesero due colombe bianche, con gli occhi di lucido
nero e i becchi di bronzo; cinguettando e urlettando il loro tubare pigolante,
s’appollaiarono ognuna su una spalla di Enea e strofinarono le testoline
candide nell’incavo asciutto delle sue guance.
«Novelle mi giungono dal ventre dell’Ade» annunciò
il figlio di Priamo «Lo spirito che cercate ha pagato l’obolo a Caronte e ha
già messo piede sulla riva opposta dell’Acheronte.»
A quelle parole, Tony drizzò il capo e spalancò gli
occhi, la schiena tesa in avanti, il respiro ratto in gola e sulla lingua.
Odisseo gli fece cenno di non muoversi, né dire di più, così che Enea potè
proseguire e, invitate le colombe a levarsi in volo, far risuonare la foresta
della sua limpida voce.
«Siate le mie
guide, se c'è un qualche sentiero e per l'aria dirigete il volo nei boschi,
dove l'aureo ramo ombreggia la pingue terra! E tu, o madre divina, non
abbandonarmi in questa incerta impresa!(1)»
Un battito d’ali appena e gli uccelli erano già un
lampo nel ventre della selva. Ignorando le proteste di Stark circa
l’insensatezza di seguire un paio di
piccioni candeggiati allevati da un paninaro, il gruppo andò loro dietro e
la via, che prima era parsa ostile e piena di tranelli, si snodò facile al
cammino e non rocce, né buche li trassero un inganno, ma sentieri sicuri e
calde coperte d’erba, cuscini di foglie e fiori odorosi.
Natasha non si concesse nemmeno l’idea di
abbandonarsi ad un tale senso di pace, le bastava vedere gli occhi di Bruce e i
barbagli verdi scaglionati dall’agitarsi della Bestia dentro di lui per
infonderle sospetto e attenzione; Tony aveva indossato nuovamente il casco e li
precedeva, subito alle spalle di Odisseo, mentre Orfeo ed Enea aprivano la
fila.
Presto, l’aria pura diede spazio a reflussi
nauseabondi, lezzo di decomposizione e misture deplorevoli di zolfo e carne
irrancidita; l’ingresso dell’Averno era maleodorante, oscuro come fauci di
belva. Le colombe si librarono dinanzi alla bocca sdentata degli Inferi e
l’affiancarono per condurli attraverso una viuzza infinitesimale, una lingua di
sassolini che s’inerpicava stretta stretta proprio accanto l’apertura
principale.
Oltre uno sperone appuntito e bassi rovi, un arco
roccioso s’inarcava sopra una curva ridotta, tanto sottile da essere costretti
a procedere con la schiena e i palmi appoggiati alla parete dell’Antro.
«Vi dirò» Bruce girò il viso verso Natasha e le
rivolse un’occhiata ironica «Questo non mi aiuta a mantenere i nervi saldi.»
«Andrà tutto bene, dottore.» Vedova Nera annui e i
capelli rossi caddero a coprire una striatura di terra sulla guancia sinistra
«Abbiamo affrontato di peggio.»
«Loki?» l’uomo proruppe in un guaito amaro «Almeno
lui potevo farlo schiantare contro il pavimento.»
Le colombe raccolsero il bisbiglio della risata di
Natasha e li sparsero all’intorno, agitando l’aria a punta d’ali; ferme a
mezz’aria, attesero che ognuno di loro avesse passato indenne il sentiero, e
sfrecciarono tubando allegre oltre la piega della via.
Lì svettava maestoso l’albero aureo.
Le radici nodose, larghe quanto un uomo, si
piegavano, curvavano, inarcavano sopra la terra, si conficcavano poderose in
essa e vi s’aggrappavano come artigli; il fusto rigagnolava di bave di linfa e
strisce aguzze di corteccia dorata, i rami, protesi verso il cielo, erano
immersi nel tripudio canterino delle foglie lucide, tempestate di gocce
luminose e bacche di preziosi.
Enea raggiunse il tronco, mise il piede in un incavo
fatto su misura per lui e vi si issò, il braccio disteso in avanti. S’udì uno
schiocco melodico e il ramo d’oro fu finalmente nelle loro mani.
***
«Non mi hanno permesso di portarti il liquore. Mi
dispiace, Steven.»
«Professor Erskine…?»
Il medico di Augsburg arricciò divertito le labbra e
annuì. Gli occhialetti tondi mandarono un riflesso ridente mentre intrecciava
le dita dietro la schiena e raddrizzava le spalle, coperte dal sempiterno
camice bianco. Era proprio come lo ricordava Steve, posato e paterno, la
zazzera brizzolata scomposta e più scura sulla nuca, la barba lunga di qualche
giorno e l’onnipresente gilet borgogna sulla camicia candida e la cravatta
beige.
«Credo ti abbiano detto di me, dall’altra riva» tese
un braccio ad indicare la sponda opposta dell’Acheronte, nascosta da un soffuso
banco di nebbia «Sono qui per condurti al cospetto dei tre Giudici.»
Il Capitano torse il collo a guardarsi le spalle,
puntò lo sguardo all’intorno e setacciò ogni zona d’ombra fin dove l’occhio
poteva arrivare: sperava nella comparsa di un secondo volto, di un ghigno
sicuro e sorvolato di strafottenza, sopracciglia sempre pronte ad inarcarsi in
un’espressione saputa, una mano a stringere la spalla in segno di vicinanza e
conforto.
«Cerchi forse qualcuno in particolare, Steven?»
«Io…» Steve aprì la bocca, la richiuse, scosse il
capo «Un vecchio amico.»
«La via è ancora lunga, ragazzo mio, non sei ancora
arrivato. Sono qui per condurti al cospetto dei tre Giudici» ripetè, pacato
«Chissà che una volta attraversata la Prateria Degli Asfodeli tu non finisca
per ritrovarlo mentre danza nelle eterne musiche degli Elisi. Andiamo, mh?»
Con un sospiro stanco sulle labbra, il Capitano
gettò un ultimo sguardo dietro di sé e si apprestò a seguire il medico lungo la
strada che si srotolava incolore ai loro piedi.
«Sapevo saresti arrivato» gli confidò Erskine,
appoggiandogli una mano sulla schiena «L’ho visto due volte. Per i defunti il futuro dei vivi è di immediata
conoscenza, a dispetto del loro presente.»
Il viale proseguiva per alcune miglia, brevi come
pochi passi: un boschetto di pioppi e salici li accolse con applausi e scrosci
di foglie, i tronchi che si susseguivano a lato del sentiero come tante
sentinelle sull’attenti. Non c’erano suoni, persino il loro fiato era
silenzioso: il medico parlava, ma la sua voce non produceva eco alcuna, piombava
a terra non appena cadeva dalla bocca gentile e abbandonava la memoria. Avesse
dovuto raccontare a qualcuno il monologo di Erskine –Giacché, fedele al monito
di Tony, non dava all’altro spunto per cominciare un dialogo-, Steve non
sarebbe stato capace di trovare un inizio o una fine, tantomeno il punto focale
del discorso. Era come se non esistesse, come se non avesse avuto un punto di
partenza e neanche uno di arrivo.
Appena fuori dal bosco, giganteggiò davanti a loro
un’immensa porta dai cardini possenti, di legno spesso e nero, senza intarsi o
chiavistello; sulla sinistra uno slargo tenebroso, dove le pareti aggettanti
dell’Ade si piegavano a creare una semi abside di roccia grigia. Sparsi a terra
chiazze di sangue nero, pozze di bava secca, stracci penduli e resti
arrugginiti d’ armature, spade spezzate e scudi fracassati. Sul metallo erano
visibili depressioni affilate, causate dal morso feroce di alcune zanne.
«La dimora di Cerbero.» spiegò Erskine «Solitamente
il suo latrato si sente fino all’Erebo. Da tre giorni almeno, però, si ode solo
lo schiamazzo delle Erinni. Le tre teste hanno lasciato l’Ade e nessuno sa
quando faranno ritorno.»
Steve promise a se stesso che, una volta tornato
sulla Terra -Perché sarebbe tornato sulla
Terra, non c’era ragione di credere il contrario. O meglio, ragioni per
credere il contrario ve n’erano in sovrannumero a cominciare da Erskine che lo
precedeva e appoggiava la mano destra sulla porta, aprendovi una breccia
abbastanza larga per far passare entrambi. Era un’esagerazione di ragioni per
credere il contrario, una lista infinita che s’aggiornava passo dopo passo e
non aveva alcuna intenzione di smettere di raccogliere ulteriori motivazioni.
Ciò lo avrebbe comunque fermato dallo sperare di aprire gli occhi e ritrovarsi nel
proprio letto, alla Tower, un mattino come tanti? No. Sarebbe stata perfetta finanche
una mattina uggiosa e carica di pioggia unticcia, pur di svegliarsi e
accorgersi con un sospiro di sollievo che aveva ceduto ai mormorii sibillini
dell’incubo, che s’era fatto giocare da un sogno di troppo, da un presentimento
ingiustificato. Qualsiasi tempo atmosferico, qualsiasi giorno della settimana,
qualsiasi mese. Non aveva importanza. Doveva soltanto svegliarsi. Solo quello.
Non soffiava un alito di vento, eppure Steve si
convinse che gli asfodeli intorno a lui si stesse muovendo come accarezzati da
una brezza leggera, i pistilli arancioni che tremolavano e fiammeggiavano
baluginando al tocco d’un respiro. Aguzzò la vista, nel procedere al seguito
del medico di Augsburg, e nel biancheggiare luminoso dei petali ebbe la fugace
impressione di un guerriero dal volto spigoloso, il cimiero rosso-brunito e
l’armatura lamellare, mentre portava alla bocca grigia una coppa priva di decori:
il pomo d’Adamo s’alzò e ricadde, due rivoli cremisi, unica nota di colore,
scivolarono a segnare la linea degli zigomi e la piega del collo.
«Antichi eroi» lo prevenne Erskine, annuendo «Bevono
il sangue delle offerte.»
Il Capitano deglutì a vuoto, avvertendo sulla pelle
il gelido ridacchiare di brividi e tremori. Ai lati degli occhi, ora, si
susseguivano, si inseguivano spiriti
a guisa di pipistrelli, dai volti umani e le ali di bestia, parole di uomo e
squittii di ratto. Si gettavano rumoreggiando tra gli asfodeli, si dibattevano
tra le radici, sollevavano spruzzi di polline e ghirlande di terriccio.
«Non qui, non ancora, Steven!» lo richiamò l’altro e
gli fece cenno di proseguire «Là, vedi, mh? E’ la che dobbiamo andare.»
Indicò la facciata di un castello privo d’età o di
tempo, una struttura che raccoglieva in sé tutte le epoche del mondo, tutti i
modi che l’uomo aveva imparato per erigere la grandezza della propria civiltà.
I bastioni erano protetti da alte mura e sulla cima di esse strillavano tre
figure alate di donna, dai corpi ingobbiti, enfi di crudeltà; la loro testa un
nido di serpi, la bocca un’alcova di urla disumane e sangue marcescente.
Agitavano torce e fruste, squassavano con tizzoni ardenti corpi ormai logori,
scuoiati, orrendamente gettati tra gli interstizi dei merli. Ai lati del grande
mastio centrale erano cresciuti due cipressi dalle foglie bianche e il tronco
niveo, di splendore sopraffino: dalle loro radici prendevano vita due fonti,
una dall’odore aromatico, quasi stucchevole, del loto, capace di avvolgere
mente e cuore, lenire gli affanni e acquietare l’animo nel cullante oblio dei
sensi; l’altra riportava alla memoria del Capitano i ricordi più belli, i
profumi più amati.
E quando, evitando per mera fortuna la caduta
accidentale di viscere e altri liquami stomachevoli, Steve era certo di aver
ormai visto tutto e di essere preparato al peggio, ecco che gli si palesarono
di fronte tre forme abbruttite di giganti, ritti a bloccare il passo per i tre
sentieri alle loro spalle. Uno aveva un’alta corona a torrioni e un’urna al
fianco; il secondo, con grosse chiavi tra le dita sgraziate, lo fissò in
silenzio con gli occhi di giaietto; l’ultimo, seduto su uno scranno di pietra e
con uno scettro rozzo, bronzeo nella sinistra, distolse noncurante lo sguardo.
Il Capitano si schiarì la gola e guardò Erskine, in
cerca di aiuto su come procedere; il medico lo osservò di rimando, guardò i tre
Giudici, tornò a fissare Steve, quindi sbocconcellò qualche parola in tedesco, lo
prese per le spalle e lo spintonò in avanti.
«Su, su, andiamo Steven. Presentati. Le buone
maniere. Ricordi ancora come si fa, mh?»
«Certo. Certo, ahm.» il Capitano si portò le dita
alla fronte, la schiena dritta e lo sguardo il più fermo possibile «Capitan
Steven Grant Rogers.»
«Ah! Il soldato!»
Una voce leziosa deflagrò nel ventre dell’Ade, zittì
il gracchiare sanguinolento delle Erinni e costrinse i tre giganti ad incassare
le teste tra le spalle bombate. Erskine arretrò, il colore risucchiato dal
volto allibito, gli occhi stravolti dietro le lenti ora di traverso sul naso;
l’orrore si fece strada sul viso altrimenti pacifico, lo sguardo s’appigliò,
vitreo di terrore e incomprensione agli occhi di Steve. Questi boccheggiò, il
fiato frantumato, disintegrato nei polmoni contratti; ansimò e sputò
imprecazioni e veleno nell’inalare viticci di nebbia verdastra, serpenti
sibilanti che s’appiccicavano ai denti, incollavano la lingua al palato e
oscuravano la vista.
Il Capitano cadde in ginocchio con l’urlo di Erskine
a rombare nelle orecchie trafitte dalla voce melliflua; afferrò il cordone di
fumo strettosi alla carotide, cercò di tirarlo via prima che lo soffocasse,
prima che lo uccidesse per la seconda volta. Nel momento esatto in cui esso gli
si sciolse tra le dita, Steve capì che non era stato per mano propria: non si
trovava più al cospetto dei Giudici, bensì in un ampio salone colmo del
riverbero di danzati bracieri; tavolate di biondo grano e succosi melograni
erano disposti contro le pareti laterali, chiusa a ferro di cavallo su quella
di fondo. Brocche di vino denso come liquore cantavano litanie di miele ed erbe
tra orci straripanti datteri e olive; un cospicuo numero di fette di pane
occhieggiavano spugnose, immerse fin nella crosta dentro gli intingoli più
disparati; coppe d’uva e altra frutta zuccherina sbiadivano per colore e
lucentezza al confronto della cacciagione e dei dolci spruzzati di sesamo.
«…L’uomo senza tempo.»
Steve voltò il capo alla propria sinistra e negli
induriti dall’odio guizzarono lingue di fuoco e fiamme.
***
Tony poteva ancora sentire su di sé lo sguardo
assente della Malattia.
Il volto emaciato, tirato sugli zigomi sporgenti,
gli era rimasto nella memoria come riflesso di sé in uno specchio: si era
osservato, si era visto in quel corpo
smagrito, imbevuto d’alcool fin negli stracci logori, penduli sulle spalle
aguzze e sulle braccia scheletriche; la Malattia aveva modellato il suo nome
con le labbra seriche, inspirato dalle narici del naso adunco l’odore della sua
paura e ne avevo riso, i denti snudati e scivolosi di bava, unti di liquore. Il
Lutto aveva allungato il collo d’avvoltoio, svegliato dal latrato della compagna,
e s’era fatto avanti vestito d’un completo nero ingrigito di polvere, la
cravatta allentata e le palpebre cispose di pianto, sali di lacrime a
balbettare sulle ciglia, la barba sfatta, lunga e annodata, le mani tremule di
mille tormenti.
«Non sono molto lusinghiere.» aveva commentato
Stark, rivolto ad Odisseo «Non mi fanno il naso giusto.»
L’eroe omerico non aveva riso e al posto suo era
stato Enea a parlare.
«Questo è il primo ingresso dell’Orco.» e la voce
era serpeggiata nelle tane, gli spiriti si erano ritirati, l’avevano fissato
con odio e sibilato nella sua direzione «Lutto ed Affanni, Malattia, Vecchiaia»
e il fatto che Tony non avesse notato alcun se stesso coi capelli canuti e la
schiena gobba lo aveva messo abbastanza sul chi vive, come un cattivo presagio
«La Paura, la Fame, la Miseria, la Morte» qui il guerriero si era inchinato ad
un’ombra passata loro davanti in un tintinnio di monete e chiodi, una visione
fuggevole avvolta in un sudario di porpora «E il Dolore.(2)»
Stark dovette compiere un immenso sforzo per
distogliere la propria attenzione dall’immagine del Capitano, di traverso in un
angolo, il collo innaturalmente reclinato all’indietro, la mascella dislocata e
le orbite un nido di vermi e carne necrotica.
Si sentiva nervoso, messo alle strette:
quell’accozzaglia infinita di spiriti ed esseri lo infastidiva, così come i
brividi che non era in grado di soffocare od il morso gelido allo stomaco che
non pareva intenzionato ad allentare la presa. Erano nell’Ade, nell’Oltretomba,
nel Regno dei Morti, Cristo Santo! Se non ci fosse stato il visore
dell’armatura a scandagliare ogni elemento circostante, ad analizzarlo e
sezionarlo sottoforma di codici e nastri numerici, avrebbe dato sicuramente di
matto.
Era palese che l’Ade non li volesse, che l’atmosfera
soffocante, il terrore sordo alle ginocchia e alle vene intirizzite di freddo
cadaverico fosse una reazione istintiva del luogo, un monito ringhiante a chi
non aveva alcun diritto di essere lì, non con il respiro ancora sulle labbra e
il canto del cuore entro la gabbia toracica. Era autoinvitarsi ad una bisca
clandestina di mafiosi russi: Tony si sentiva un agente sottocopertura e, non
fosse stato per il collega invischiato a suo malgrado nella questione e con in
mano una coppia di due, non ci avrebbe pensato due volte a girare le spalle e
andarsene il più velocemente possibile.
Enea indicò loro il Sonno languidamente adagiato in
un sarcofago imbottito di velluto, i Piaceri dell’Animo -«Di questi sono un
esperto» aveva ghignato Tony, rivolgendo al baccanale di spiriti il miglior
sorriso complice del repertorio-, quindi la Guerra che batteva la lancia sullo
scudo, letti di ferro e una vecchia folle con vipere che le sibilavano sul
cranio coperto di chiazze marroni, le iridi opache e gli occhi pazzi,
lampeggianti sotto le bande insanguinate che le fasciavano la fronte –La
Discordia.
Giunti ai piedi di un olmo malarico, cinto d’una corona
di foglie smunte, Enea disse loro di sporgersi un poco oltre lo spiazzo elevato
dove si trovavano e non prestare attenzione agli schiamazzi e ai ruggiti e agli
urli e agli strepiti –Il che, considerò Tony, era parecchio difficile e parecchio
stupido. Anche senza girare la testa, le orrende creatura che dimoravano l’Ade
si affollavano e affannavano attorno a loro, li scrollavano, li scuotevano,
strillavano nelle orecchie, mordevano le carni, tiravano i capelli, riempivano
la testa di versi lugubri, parole astiose dal significato incomprensibile,
nenie di morte e litanie funebri.
Ancora una volta, il magnate ringraziò la visuale
periferica di J.A.R.V.I.S. e la professionalità con cui l’AI catalogava ogni
essere, presentava per ognuno una breve descrizione e poi lo costringeva nella
banca dati perché la smettesse di fare i capricci.
Un santo, J.A.R.V.I.S. era un santo.
«Quel palazzo che vedete alla fine del vostro
sguardo» cominciò Enea, indicando l’orizzonte nero davanti a loro «E’ la meta
del vostro viaggio.»
«J.A.R.V.I.S., uno zoom per favore?»
Subito, signore.
«Mh.» Tony annuì, mentre l’interno della calotta gli
restituiva l’immagine tridimensionale di una struttura composta da un corpo
centrale a piante rettangolare, elegante susseguirsi di colonne da un lato e un
cortile in posizione occidentale. Il tutto, orientato a nord-sud, era
circondato da alte mura decisamente poco propense ad essere espugnate «Non
male. Un po’ vintage, se volete la mia opinione. Consiglierei al padrone di
casa un giro veloce sul sito dell’Ikea.»
Odisseo lo redarguì con uno sguardo silenzioso,
Orfeo lo fissò truce e contrasse la mascella, la bocca storta in una smorfia
irata.
«Non oltrepasseremo l’Acheronte sulla barca di
Caronte, fedele nocchiero.» continuò il Guerriero «Io e i miei compagni vi
condurremo su ben altro sentiero, per passi nascosti e ascosi alla conoscenza
dei defunti.»
«Quando torniamo, ricordami di dire a Fury che
voglio un aumento.» Tony s’accostò a Natasha e lei gli rivolse un’occhiata in
tralice.
«Il Direttore non ti paga alcuno stipendio, Stark.»
«Per questo è meglio iniziare a trattare fin da
subito.»
Scesero per una via laterale, lasciandosi alle
spalle l’olmo ed il vestibolo, coi suoi spiriti e le sue minacce; l’Ade si
fece, se possibile, ancor più silenzioso, nonostante il ciangottare delle acque
negli alvei antichi e il battere d’ali dei trampolieri. Gocce di pallido latte
cadevano dall’invisibile soffitto sopra le loro teste e s’infrangevano a terra
in un mulinare frammentario di sangue e miele; le sterpaglie rabbrividivano al
loro passaggio, ma non emettevano alcun suono.
«Come va il tuo Senso Verde, dottor Banner?» lo
canzonò Tony, al solo fine di smuovere l’aria pesante che infiacchiva piedi e
spirito.
«Ahm, non sono l’Uomo Ragno» scherzò Bruce, con un
sorriso di scuse sul volto sudato «Ma Hulk non è tranquillo.» da dietro le
lenti calate sul naso, i suoi occhi si posarono diffidenti sul terzetto che li
precedeva –S’erano fatti silenziosi, schivi, si guardavano intorno come se
stessero drizzando le orecchie a suoni inudibili, le narici allargate ad
ingoiare odori indistinguibili «C’è del pericolo. Qualcosa di brutto sta per
accadere.»
«Dimmi qualcosa che non so.» commentò il magnate,
permettendo sia a lui che a Vedova Nera di aggrapparglisi alle spalle per
superare indenni –E asciutti- il corso fangoso dell’Acheronte.
Da sotto il casco, la fronte di Tony s’aggrottò:
Enea, Orfeo ed Odisseo non avevano saltato, né trovato una secca grazie cui
attraversare il fiume infernale, eppure erano già sulla riva opposta ancor
prima che egli formulasse l’ipotesi di raggiungerli in volo.
«I pantaloni dell’Altro non sono stati modificati
con le particelle Pym.»
«Dannazione. Dovrò pagare a Richards quella
maledetta cena al Ritz.»
«Potreste per cortesia smetterla di comportarvi da
bambini?» lo rimproverò Natasha, stizzita «Qualcosa non va.»
La via s’era improvvisamente aperta su di uno slargo
immenso, circolare, sulla sinistra di una porta immane, priva di cardini e
serrature.
Le loro guide erano ferme al centro esatto dell’area
e l’aria era elettrica.
Un ringhio raggiunse le labbra di Bruce, la cui
pelle già aveva assunto una sfumatura verdastra sulle guance e alla base del
collo; Natasha sistemò il ramo d’oro alla cintura e Tony fece un passo in
avanti.
«J.A.R.V.I.S. Assetto da battaglia.»
Il ronzio dell’energia che s’accumulava nei repulsi
e nel Reattore impiantato al centro del petto gli scagliarono una scarica
d’adrenalina direttamente in vena e lungo la spina dorsale; l’oppressione che
fino a quel momento lo aveva imprigionato nel corpo tremante d’un bambino
spaventanto, svanì nel calore combattivo dell’armatura.
«L’Antro di Cerbero.» osservò Orfeo, girandosi
lentamente verso di loro. Un ghigno famelico gli attraversava di sbieco la
bocca ora priva di labbra, le gengive scoperte e i denti aguzzi.
«Figlio di Tifone e di Echidna, custode
dell’Averno.» Odisseo, sulla destra di Enea ancora di spalle, piegò orrendo la
testa e si voltò per guardarli in viso: la cornea era completamente tinta di
nero, le dita ingrossate ricoperte di pelame scuro, ispido.
«Canis praegrandis,
teriugo et satis amplo capite praeditus, immanis et formidabilis, tonantibus
oblatrans faucibus mortuos» per ultimo, il figlio di Priamo latrò e
sghignazzò, mostrando loro il collo rubizzo, il petto ansante «Ante ipsum
limen et atra atria Proserpinae semper excubans servat vacuam Ditis domum.(3)»
Le ultime parole si
spensero in un ruggito tale da far sanguinare le orecchie: i sensori
dell’armatura fischiarono e lo schermo del visore traballò, sputò insensatezze
intramezzate da interferenze sconosciute. Il terreno si scosse, vibrò, la
roccia restituì cento e mille volte l’abbaiare poderoso.
I corpi dei tre si fusero
in uno solo, spalle gigantesche s’innestarono su quattro zampe vigorose, di
lucido pelo nero e dotate di artigli ricurvi, affilati e letali; la coda immensa
spazzò l’intorno con un fragore d’aria divelta e pietra sconquassata; dal
principio della schiena si flessero tre colli massicci, fauci possenti e
allungate, con zanne delle dimensioni d’un braccio e l’alito fetido. I nasi
umidi, palpitanti, soffiavano e sbuffavano come froge d’un cavallo in corsa,
gli occhi di tizzoni ardenti avevano il dominio su ogni cosa si muovesse al
loro cospetto, alle orecchie triangolari, ritte sul muso sbavante, non sfuggiva
alcun rumore.
«...D’accordo» fu il
commento di Tony «Questa non me l’aspettavo.»
Cerbero piegò le zampe
anteriori e saltò in avanti.
Stark aveva già le
braccia sollevate e i palmi aperti per scaricargli addosso una buone dose di
riflesso pavloviano al retrogusto di repulsori, che una sottospecie di bomba
verde si schiantò contro il fianco della creatura; il cane a tre teste guaì
molto probabilmente più per la sorpresa che per il dolore, e venne sbalzato di
lato.
Hulk atterrò in piedi e
non gli diede il tempo di rialzarsi, gli fu addosso in un grido brutale; Iron
Man stava per far partire un colpo in aiuto, quando all’improvviso Vedova Nera
–Spuntata dal nulla come suo solito- gli piazzò in mano il ramo d’oro.
«Corri al Palazzo di Persefone.»
gli ordinò, le sopracciglia sollevate «Ci pensiamo noi a lui.»
«Ma…!» fece per
protestare il magnate, mentre già Natasha era scattata in avanti «Aspetta!»
«Mi ringrazierai servendo
gli alcolici gratis al rinfresco!»
Senza avere la benché
minima idea di come l’altra avesse avuto anche solo il sentore di quella
questione, Tony fece rientrare i razzi innestati sulle spalle e si lanciò
in volo.
«Vedete di tornare sani e
salvi.» pur avendo davanti soltanto l’icona di Vedova Nera collegata alla
trasmittente, Stark poté giurare che la donna stesse sorridendo –Era l’unica in
grado di ridere come una bambina sulle montagne russe quando si lanciava in
caduta libera da un aereo, in fondo(4).
«Nel caso, porteremo la
festa da te, Stark.»
Un ghigno ben visibile
all’angolo della bocca, il magnate si gettò a capofitto oltre l’immensa porta,
sulla cui superficie era comparso un rettangolo abbastanza grande da
permettergli di passare in tutta comodità. Sorvolò una vasta prateria
d’asfodeli, punteggiata d’ombre e pipistrelli rivoltanti, e superò senza fatica
le teste mastodontiche di tre giganti; ormai convinto di poter entrare nel
palazzo senza fatica, una fiammata scaturita alla propria destra lo rese poco
educatamente edotto del contrario.
Fece appena in tempo a
girarsi e una donna alata, rachitica, lo agguantò per le spalle, agitando una
frusta al cui confronto quella di Indiana Jones sarebbe sembrata un elastico un
giocattolino da Sexy-Shop.
«Mi dispiace, signora,
quest’oggi Iron Man non effettua servizio viaggiatori» così dicendo le appoggiò
una mano sul ventre e lasciò partire un raggio repulsore: la creatura gemette
ed ululò, la frusta schioccò inutile mentre crollava sibilando al suolo. Prima che le sorelle di Miss Simpatia
giungessero a darle man forte, Tony aveva fatto saltare i merli su cui erano
appollaiate: le mura si disintegrarono
in un tripudio di mattoni divelti e corpi smembrati, dondolio cigolante di
catene e schizzare pastoso di carne e sangue.
Stark s’immise nella
breccia così aperta e, grazie alla planimetria che J.A.R.V.I.S. era stato in
grado di elaborare tramite modelli e fonti letterarie e archeologiche(5)
-Non fosse stato troppo scontato, il magnate avrebbe detto qualcosa riguardo il
Wi-Fi negli Inferi- riuscì a trovare uno degli ingressi laterali del palazzo;
non attese l’arrivo di guardie o di chissà che altro aveva la casa delle
vacanze nelle vicinanze, e si lanciò attraverso il corridoio.
«Trova il Capitano,
J.A.R.V.I.S.! Trovalo!» gridò, accanto a lui una sfilata infinita vani e
porte e magazzini. Lo schermo del casco gli mostrò mappature e sovrapposizioni
di firme, calcolò e calibrò gli elementi dell’ambienti connettendoli a quella
che era la traccia fisica di Steve, cancellò e ridisegnò, aggiornò la
planimetria, ma ogni tentativo –Come, del resto, Tony avrebbe dovuto supporre,
si rivelò inutile.
«Dannazione! Dannazione!»
Signore?
La voce dell’AI aveva
avuto un tentennamento sostanziale per una coscienza elettronica, cosa che era
sempre foriera di notizie pessime e guai non da poco.
Ho rilevato una firma specifica,
già presente negli archivi. Ma non è quella del signor Rogers.
Quando il risultato
dell’AI comparve sullo schermo, Tony fu indeciso se scoppiare a ridere o
schiantarsi direttamente contro il muro laterale; visto e considerando che non
aveva del liquore in giro con cui giustificare l’istinto suicida, optò per la
terza opzione, ossia seguire quella…Assurdità per vedere dove l’avrebbe
condotto.
Dovette salire al primo
piano per avere una risposta degna di questo nome, sul lato settentrionale
della corte centrale: una sala per i banchetti, abbastanza ampia da farci
entrare lo staff delle Stark Industries al completo per la canonica cena di
Natale. Le fiamme dei bracieri, dimentiche delle fondamentali leggi della
rifrazione, gettavano la loro luce a cuneo nel centro esatto della stanza, a
fargli capire che era lì, in quel punto preciso che era necessario si
concentrasse la propria attenzione.
Non che avrebbe potuto
rivolgerla ad altro, comunque.
In ginocchio a terra, i
polsi e le caviglie trattenuti da viticci verde smeraldo, il capo chino e il
petto ansante per rabbia a stento trattenuta, stava il Capitano, nella posa d’un
agnello pronto ad essere sacrificato.
«Steve!» lo chiamò Tony,
atterrando davanti a lui in un barbaglio di cromature rosso e oro.
Questi sollevò la testa e
negli occhi slavati, ma vivi, il riconoscimento fu così forte, feroce
nella sua intensità, che Stark avvertì distintamente il respiro spezzarsi per
una sì, no, forse commozione che non avrebbe mai ammesso.
«Tony!» e la voce del
compagno era distorta, la carne traslucida e non più livida, tinta appena d’un
pallore rosato attorno alle palpebre, la bocca spruzzata di rosso diluito.
«Va tutto bene» lo
rassicurò il magnate «Va tutto bene, d’accordo? Sono qui. Ci sono io. Adesso ti
porto fuori, andrà tutto bene. Sei salvo.»
«C’è lui dietro a tutto
questo, Tony!» esclamò Steve, cercando di sollevare le spalle e digrignando i
denti per lo sforzo «E’ tutta opera sua!»
«Dai ascolto al soldato,
Uomo di Ferro.»
Forse ricordandosi
dell’esistenza della fisica, la sala deflagrò di luce per il fuoco
improvvisamente alto, improvvisamente violento.
Dietro la schiena ingobbita
del Capitano, si palesarono due troni affiancati, i cui occupanti, però, non
potevano essere più distanti e diversi: assisa su quello di destra una donna
dal seno prosperoso, gli occhi d’ossidiana e le mille trecce sonanti di ninnoli
e spighe di grano, una cista ai piedi, un gallo in grembo –Persefone, considerò
Tony, chi altri poteva essere?
La figura alla sua
sinistra allargò le braccia, si levò in piedi con la mezzaluna sul petto che
spandeva bagliori e lo stesso fece Stark, serrando i pugni e facendo stridere
le giunture di metallo.
«Ti va un drink?»
propose, divertito e crudele, il nuovo Signore dell’Ade.
«Tu…» fu l’unica cosa che
Iron Man si concesse di sibilare.
Dall’alto del suo
scranno, Loki sorrise.
Cor Mortem Ducens
#08 Caninamente Latra
Note:
(1) Eneide, Libro VI,
vv. 190-211
(2) Eneide, Libro VI,
vv. 268-294
(3) Canis praegrandis,
teriugo et satis amplo capite praeditus, immanis et formidabilis, tonantibus
oblatrans faucibus mortuos, quibus iam nil mali potest facere, frustra
territando ante ipsum limen et atra atria Proserpinae semper excubans servat
vacuam Ditis domum
("un cane enorme, con una triplice testa in proporzione, gigantesco e
terribile, che con fauci tonanti latra contro i morti, cui peraltro, non può
fare alcun male; cercando di terrorizzarli senza motivo, e standosene sempre
tra la soglia e le oscure stanze di Proserpina, custodisce la vuota dimora di
Dite"), da “La Favola Di Amore e Psiche” in “L’Asino d’Oro”, Apuleio.
(4) Capitan America
presenta: Il Soldato d’Inverno, #2
(5) L’architettura del
palazzo dell’Ade è ripresa dal Palazzo di Cnosso.
Per maggiori informazioni sulla
struttura dell’Ade, vi rimando a questo sito: http://www.saint-seiya.it/sito1/mitologia/grecoromana/strutturaade.html
Note
finali:
E’ da Ottobre che non posto un nuovo capitolo e quando mi ripresento lo
faccio con uno schifoso e noioso capitolo di passaggio. Potete uccidermi, ne
avete facoltà.
Prometto che il prossimo sarà degno
(?) delle vostre aspettative e mi farò perdonare.
Ringrazio Alley per aver recensito con santa ed immane pazienza, e tutti
coloro che hanno inserito la storia tra le seguite/preferite/ricordate!
Spero non vi pentiate, dopo questo ;A;