11.
Il male minore
Draco
fu svegliato da un rumore basso e profondo, un fruscio cupo che, però, nel
silenzio delle prime luci dell’alba risuonò tetro, potente come un tamburo di
guerra. Quando aprì le palpebre, con uno scatto di paura che era frutto di
quegli ultimi anni battaglie e terrori, due grandi occhi scuri lo stavano
fissando.
« Che stai facendo? » domandò con voce gracchiante, ancora
vagamente impastata dal sonno, sobbalzando indietro e battendo la testa contro
una delle sbarre di legno della sua cella. Mentre la vibrazione si smorzava
nell’aria lattiginosa di un’alba fredda e vuota, Neville si alzò in piedi. Non
si scompose nemmeno dopo l’occhiata glaciale dell’altro, e continuò a fissare Draco con solenne serietà.
« Devi andartene. Ora » disse, per poi indicare la porta
della sua prigione, aperta. «
Vai, prima che sia troppo tardi » Si alzò in piedi e lo strattonò forte, tirando la manica
della sua camicia, ormai sudicia, e tentando di sospingerlo verso l’uscita. Draco si divincolò da quella presa e gli scoccò un’occhiata
obliqua.
« Perché? » ringhiò, come un animale ferito. Oltre la figura
slanciata del ragazzo, il fu Serpeverde intravedeva
lame di luce pallida e opaca, pennellate d’oro e arancio che davano persino a
quell’accampamento, persino a quella cella, un’aria rassicurante.
«
Questo non è più un luogo sicuro per te » replicò Neville con tono estremamente
serio, guardando il biondo fisso negli occhi, come se volesse imprimergli nella
mente lo stesso timore che attanagliava il suo cuore ma di cui, era evidente,
l’altro non si curava. Lo dimostrava la risata, fredda e roca, che gli sfuggì
dalle labbra, forse un primo sintomo di pazzia, che Neville accolse con un
cipiglio perplesso e incerto.
«
Non lo è mai stato » sputò Draco con rabbia,
raddrizzandosi e acquistando la stazione eretta. Fronteggiò il ragazzo con
orgoglio e fierezza, e nei suoi occhi grigi lampeggiò, per un istante, quella
luce arrogante che gli era appartenuta molti anni prima, in tempi ben diversi
da quelli che stavano vivendo ora.
«
Vattene, Malfoy. Vattene adesso, prima che sia troppo
tardi » Il tono di Neville era profondo e duro, e nella sua voce c’era l’eco di
una paura che l’altro non riuscì a identificare, a cui non sapeva dare un nome.
« Hai combinato un bel casino stanotte, e… » Non fece in tempo a finire. L’ira
dilagante che saettò nello sguardo di Draco non lo
spaventò, perché sapeva che era una collera innocua, ma lui riuscì comunque a
vedere l’esatto istante in cui qualcosa si frantumò dentro quelle iridi
metalliche, torbide di un sentimento che non aveva fatto in tempo a nascere,
prima che una tempesta inclemente strappasse quelle radici fragili.
«
Hai fatto di tutto perché succedesse » urlò Draco,
incurante del fatto che la sua voce, così acuta e stridula, avrebbe potuto
svegliare tutto l’accampamento. Incurante, infine, persino del fatto che stava
ammettendo un amore che aveva tenuto nascosto troppo a lungo. « E ora mi dici
che devo andarmene. Adesso che… » La voce gli si spezzò nel momento in cui
l’emozione violenta di quella notte raggiunse la gola.
Neville
prese un profondo respiro, prima di replicare, con una calma che non si
rifletteva nell’altro: « Se la ami davvero, vattene via prima che ti veda morto
».
Il
volto di Draco rimase una maschera di implacabile
durezza. Una scintilla vibrò negli occhi cinerei del giovane, prima che questo
rispondesse, in un sibilo glaciale: « Se me ne vado sono già morto ». Una
sfumatura di panico gli colorò la voce, stemperando l’atonia delle sue parole.
Per qualche minuto, tutto rimase silente.
Neville non replicò alle sue parole, perché sapeva che aveva ragione; Draco si limitò a fissarlo con la consapevolezza che tutto
stava finendo proprio quell’istante: le sue speranze si erano appena infrante
dentro lo sguardo di un ragazzo che aveva deriso, disprezzato, odiato, e che
ora rispettava nel silenzio di un giorno senza fine.
«
Malfoy! » Quel nome, urlato da una voce aspra, colma
di rabbia e disgusto, più che un richiamo era un’accusa, denigratoria ma falsa.
Malfoy non
era esattamente quello che era, ma solo quello che rappresentava. Malfoy era la
fonte originaria dei suoi problemi. Quanto gli sarebbe piaciuto, ora come nove
anni prima, liberarsi dalle catene del suo nome e vivere la sua vita privo di
condizionamenti, libero di scegliere e di sbagliare. Ma era già troppo tardi
per farlo: aveva perso la sua occasione molto tempo prima, quando aveva
permesso ad altri di disporre della sua vita. Ora, quello che rimaneva da fare
non sarebbe stato semplice, ma era l’unica via che poteva percorrere.
Si
voltò verso Ronald Weasley, che procedeva a grandi
passi verso di lui, con una calma gelida sul viso. Lo guardò senza paura, anche
mentre lui ricambiava con odio il suo sguardo.
«
Neville, vattene via » L’attenzione di Ron era tutta
per Malfoy: nonostante si fosse appena rivolto
all’amico, non l’aveva guardato nemmeno un istante, liquidandolo con un rapido
cenno della mano.
«
Ron, per favore, ascoltami » Neville si frappose tra Ron e Draco, tentando di evitare
l’inevitabile. « Non c’è bisogno di arrivare a questo. Non ne abbiamo bisogno,
adesso. Dobbiamo pensare alla guerra, a Vol… » Il
tentativo di farlo ragionare naufragò dentro i suoi occhi, che fiammeggiavano
di collera repressa e astio puro.
«
Neville, non sono affari che ti riguardano » scandì lentamente, scoccandogli
un’occhiata rabbiosa che costrinse l’altro a chinare il capo con fare
rassegnato. Forse Ron aveva ragione: non erano affari
che lo riguardavano, e aveva interferito già troppo.
Neville
emise un sospiro, e prima di uscire dalla cella, lanciò un’occhiata dispiaciuta
a Draco, come una richiesta di perdono.
Il
sole era ormai sorto, e le luci argentee che filtravano oltre lo spesso velo di
nuvole cineree illuminavano d’una luce falsa e irreale tutto l’accampamento. Le
urla di Ron e Draco avevano
svegliato la maggior parte dei presenti, che si erano riuniti attorno la
piccola prigione di legno e ora guardavano i due contendenti con il fiato
sospeso, come in attesa.
Se
Ron aveva ancora un barlume di dubbio e compassione a
frenarlo, nonostante la bacchetta stretta nel pugno, Draco
non aveva più alcuna incertezza.
«
Sì, Paciock, vattene via. Weasley
vuole uccidermi prima che sia troppo tardi » Un lungo ghignò si disegno sul suo
volto, ora increspato da un cipiglio sarcastico, malvagiamente divertito. « Perché
ha paura che gli porti via la ragazza ».
Se
Ron fosse stato un po’ più sicuro di sé, l’avrebbe
senz’altro ucciso all’istante: sarebbe bastato alzare la bacchetta,
puntargliela al petto, urlare quell’incantesimo, temuto e desiderato al tempo
stesso. Malfoy sarebbe caduto senza far rumore, e lui
avrebbe bevuto l’ultima goccia di vita del suo corpo, con il piacere della
vendetta a vibrargli dentro. Avrebbe potuto farlo, se fosse stato certo che Hermione non l’avrebbe rimproverato per tutta la vita, che
lei non lo avrebbe odiato per tutta
la vita. Ma Ron era stato via per due anni; due
lunghissimi anni in cui di Hermione aveva avuto solo
notizie sporadiche, sussurrate di nascosto da alleati incontrati quasi per
caso. Anni in cui di Hermione era rimasto solo il
profumo, ad aleggiare nell’aria dei ricordi più dolci.
Perciò,
Ron mantenne il braccio inerte, lungo il fianco. Non
parlò, mentre stringeva la bacchetta quasi convulsamente, fino a far diventare
le nocche bianche. Una risata lugubre e bassa fu tutto ciò che gli sfuggì dalle
labbra.
«
Hermione non potrebbe mai amare uno come te » sputò
quelle parole con la sicurezza di un disgusto certo e, nonostante le apparenze,
il suo tono e quell’enfasi maldestra ma voluta, andarono a segno.
Draco
respirò a fondo ma qualcosa nel suo stomaco si contorse violentemente. Il suo
viso rimase una maschera imperturbabile: il ghigno sul suo volto si accentuò,
ma era una smorfia a metà, qualcosa che non arrivava a illuminare anche gli
occhi.
«
Naturale. Perché dovrebbe quando può avere uno
come te » ricambiò con lo stesso disprezzo usato da Ron,
marcando con forza sulle ultime quattro sillabe, e accompagnando le sue parole
con un’espressione cattiva.
«
Tu non la meriti » L’urlo di Ron proveniva
direttamente dal cuore, e fu tanto forte e intenso che, per un attimo, gli
invisibili confini di protezione che accerchiavano l’accampamento vibrarono
violentemente, per poi riassestarsi subito dopo. Uno stormo di uccelli,
disturbato dall’eco di quelle grida profonde, si alzò in volo nel cielo,
preferendo altri alberi più quieti per il riposo mattutino. La magia che era
esplosa dentro il ragazzo crepitò ancora per qualche istante sulla punta delle
dita, per poi estinguersi dentro lo sguardo incredulo di Hermione,
arrivata in chissà quale momento di quel litigio.
Draco
la vide con la coda dell’occhio, al di là di quelle sbarre che, per lui, non
erano solo barriere fisiche: accanto a lei, Ginny
osservava la scena con cipiglio scettico. Non ebbe bisogno di pensare, per
sapere cosa doveva fare. Le parole gli uscirono dalle labbra prima che avesse
il tempo di riflettere, o di fermarsi.
«
Pensi davvero che m’importi qualcosa di una schifosa Sanguesporco
come lei? »
Lo
disse perché sapeva già come sarebbe andata a finire. Lo disse perché il suo
destino era quello di uscire da quell’accampamento e venire massacrato in una
guerra in cui non aveva creduto nemmeno un istante. Lo disse perché lesse negli
occhi di Hermione la scelta che avrebbe fatto, e perché
era la cosa giusta: dentro lo sguardo di quella donna a lungo amata, Draco aveva imparato a leggere un alfabeto diverso da
quello della sua vigliaccheria. Forse lei non se ne sarebbe mai resa conto, ma
voleva renderla fiera di lui, farle capire la portata del suo amore. Lo disse,
e mentre lo diceva un tremore segreto e violento gli squassò il cuore. Era il
male minore, per lei; perciò lo disse. Perché tutto quello che Hermione doveva
fare era vivere, seguire la strada che aveva davanti e scoprire il proprio
futuro. Un futuro che con lui non avrebbe potuto avere, perché l’avrebbe
portata tra le braccia della morte. A Draco, invece,
pareva che la sua vita si sarebbe svolta tutta in una stanza priva di porta.
Davanti
a lui, Ronald Weasley lo guardava in cagnesco, il
viso contratto da una rabbia che non era deflagrata solo perché il suo migliore
amico lo aveva frenato con un’occhiata ammonitrice.
«
Ti devi guadagnare il tuo posto qui » sputò quelle parole scandendole con
rabbia, e ogni sillaba sembrava distillata nell’odio e cresciuta nel rancore.
«
Io non devo niente a nessuno » replicò Draco con
altrettanta enfasi, il volto contratto da una collera che deformava i
lineamenti nobili. Se sua madre l’avesse visto in quel momento, non avrebbe
affatto apprezzato quel modo barbaro di porsi con una creatura a lui inferiore,
mostrando sentimenti eccessivi che l’altro non meritava. Ma sua madre, si disse
lui, era lontana, dispersa, dimenticata.
«
Allora fuori » Ron ruggì quelle parole come se
fossero un tuono, potente e foriero di una tempesta che difficilmente avrebbe
potuto terminare in quel momento, in quel luogo.
Forse
era proprio quella sensazione di eterno che spinse Hermione
a voltare le spalle a entrambi, a tutto – Ron, Draco, la cella, le persone intorno a lei, l’accampamento,
tutto – e fuggire, andare lontano da quelle urla, dai litigi, forse persino
dalla guerra – perché quella era una
guerra che non poteva vincere, quella del cuore, non poteva sconfiggerlo, non
poteva uscirne integra, trionfante, non avrebbe potuto, nemmeno se avesse voluto. Perciò Hermione
girò le spalle a entrambi, senza dire una parola. E nel silenzio di quel gesto
il mondo ammutolì per un istante.
***
Silenzio nella foresta. Lontano, bubbolii di gufi
e il fischio del vento. Attorno a lei, fruscii.
Un sottile mantello bianco copriva il
suolo di quella foresta dimenticata. Erano diventate ghiaccio e polvere le
foglie autunnali, tinte di rosso e oro, che qualche mese prima avevano
abbandonato le braccia forti e sicure di alti alberi secolari, i quali avevano vissuto
millenni e visto forse battaglie impetuose e sanguinarie molto più di quella
che adesso si stava combattendo nel cuore della giovane strega.
Un vento implacabile, impolverato di neve,
percorreva le campagne del confine francese. Tra i capelli di Hermione si imprigionarono fiocchi di neve candida, pura
come lei non era mai stata. La neve le accarezzò il viso accaldato,
sciogliendosi sotto il tocco impetuoso di una lacrima. Le ciglia imperlate di
dolore, le gote arrossate dal pianto, Hermione era
china su una tomba anonima, solo una tra le tante. Sconfitta.
Nemmeno lo scricchiolio che annunciava l’arrivo
di qualcuno riuscì a scuoterla da quel torpore. In silenzio e immobile, la
giovane strega rimase china su quel cumulo di terra, le unghie affondate nel
suolo, incrostate di sporcizia e costellate di cicatrici.
Ginevra Weasley le si
sedette accanto senza dire una parola. L’eleganza innata dei suoi modi
contrastava fortemente con quel carattere ribelle e indomabile che, lei sapeva,
le apparteneva più di quell’orrendo sfregio che le tagliava la faccia a metà.
Per moltissimi minuti, l’aria fu riempita solo
dal ritmo incerto dei loro respiri. La neve ricominciò a cadere quieta,
depositandosi sui capelli rossi di Ginny con una
carezza gentile, e sfiorandole la cicatrice sul volto con dita gelate:
sembravano lentiggini bianche e invisibile sul candore della sua pelle.
« Ti ha fatto male? »
Non era una domanda stonata. Avrebbe potuto sembrarlo, in quel silenzio; nel tacito riposo di un bosco
il mutismo in cui entrambe si erano chiuse sembrava quasi obbligatorio, un
dolcissimo oblio dettato dalla necessità, e dal caso. Eppure, quelle parole,
rumore bianco nella pace della foresta, non erano inappropriate, né sbagliate. Non
erano sbagliate le parole, non era sbagliato il momento, non era sbagliato
niente, neanche quel tono quieto, in concordanza con la serenità di quel luogo,
che nascondeva, a dispetto delle apparenze, un caos irrefrenabile sotto la
superficie di muta quiete.
« No » Quello di Hermione
era un sussurro, ma sorpreso. Non era chiaro se Ginny
si riferisse alle parole di Draco o a quel bacio
rubato, ma lei non ebbe bisogno di chiedere conferme. Non le aveva fatto male
quel bacio, non l’avevano ferita quelle parole. No, era la risposta universale. No,
era quello che sentiva di dover rispondere, nonostante il meravigliato stupore
con cui le pronunciò, con una semplicità spiazzante, come se quella risposta
fosse stata lì da sempre, ad attenderla. No,
era la risposta giusta, ed Hermione non poté fare a
meno di chiedersi se non fosse la domanda, ad essere sbagliata.
« Allora perché stai piangendo? » Non era un’accusa. Nel tono di Ginny non c’era traccia di rancore o amarezza, la sua voce
era come un fievole sussurro, delicato e neutro.
« Perché… » La voce di Hermione
si spezzò nell’esatto momento in cui la lacrima che le era rimasta impigliata
tra le ciglia le scivolò lungo la gota. «
Perché le sue labbra mi hanno detto un’altra cosa, Ginny
»
Non si stavano guardando negli occhi,
ma nessuna delle due ebbe bisogno di farlo: per vergogna o per discrezione, non
si scambiarono uno sguardo, ma entrambe capirono quanto quelle parole
nascondessero, di implicito.
Ginny strinse le labbra: una linea sottile
e imperscrutabile assottigliò la bocca carnosa, stringendo tra i denti parole
che non aveva intenzione di dire ma che le erano risalite su per la gola,
indesiderati ospiti. Quando parlò, la sua voce era debole, come se fosse rotta
dal pianto.
« Stanno partendo »
E non ci fu bisogno di dire altro.
***
A un passo dall’accampamento, forti
schiocchi rompevano l’equilibrio instabile di quel giorno. Uno dopo l’altro, i
membri dell’Ordine della Fenice si stavano Smaterializzando, diretti verso mete
sconosciute a tutti eccetto che a loro stessi.
Quando Hermione
vide un lampo rosso sparire nel buio profondo della notte inglese, capì di non
avere più scampo. Il cuore le martellò forte contro il petto quando si fermò,
con il fiato corto e una cascata di riccioli a velarle gli occhi e il viso.
« Chi sei venuta a salutare? » La voce di Ron
era severa, ma addolcita da una nota di speranza malcelata, che saettava nei
suoi occhi combattendo con la rabbia cieca. Hermione
si voltò con uno scatto e quando incrociò gli occhi azzurri del ragazzo non
riuscì a trattenere un sospiro di sollievo. Qualcuno, nel viso dell’altro,
mutò: la collera si incrinò e andò in pezzi lentamente, lasciando intravedere
un altro sentimento, più morbido e conosciuto.
« Ron, non
farlo » ansimò Hermione, compiendo un passo verso di
lui. I suoi occhi vagarono incerti per l’accampamento, come alla ricerca di
qualcosa. Quando puntò ancora una volta il suo sguardo su Ron,
la sua espressione era dura e implacabile.
« Hai paura che gli
succeda qualcosa? » Le sue narici si dilatarono al ritmo fremente del suo
respiro.
« Non a lui, a te! » La
giovane strega scosse vigorosamente il capo, nascondendo gli occhi dietro la
massa di ricci ribelli che le ondeggiò attorno alla testa, e celando la sua
ansia dietro la convinzione che l’amore aveva diritto ad essere disonesto e
bugiardo.
Istintivamente, i suoi
occhi cercarono quelli di Draco. Li trovò fermi ad
aspettarli, come se non chiedesse altro che quello sguardo, da sempre. Avrebbe
voluto dirgli qualcosa, Sta’ attento,
aprì la bocca per farlo, Mi dispiace,
ma le parole le rimasero incastrate in gola, Torna da me, impigliate negli occhi, Draco, e alla fine non disse
nulla.
È che a volte le parole
non bastano. E allora servono i colori. E le forme. E le note. E le emozioni. Draco
l’aveva capito, per questo la guardò, con quello sguardo che era il primo
ricambiato da una vita, e per questo era privo di paura e impregnato di un
amore folle, inossidabile, eterno. I suoi
occhi erano come mani invisibili che le sfioravano la pelle, spogliandola, amandola,
adorandola come fosse una dea. Hermione non si era
mai sentita così amata, prima di quel momento.
Così fa il destino:
potrebbe filar via invisibile, e invece brucia dietro di sé, qua e là, alcuni
istanti, fra i mille di una vita. Nella notte del ricordo ardono, quelli,
disegnando la via di fuga della sorte. Fuochi solitari, buoni per darsi una
ragione, una qualsiasi.
Hermione si sarebbe portata dietro quello sguardo per tutta la vita,
anche se non lo sapeva ancora.
Ron chinò il capo, e per un istante Hermione ebbe
la certezza che lui avesse scoperto la sua menzogna. Ma quando puntò gli occhi
su di lei ancora una volta, c’era dolcezza nelle iridi chiare che aveva
imparato ad amare, e poi a odiare per l’attesa, nell’attesa che lui tornasse.
« Devo andare »
sussurrò piano, ma stavolta con tono morbido. « Ma ti prometto che tornerò » Lo
disse con fare rassicurante, allungando una mano verso di lei come se volesse
toccarla, ma ritraendosi all’ultimo con una strana luce negli occhi. Hermione corrugò la fronte, perché quell’arrendevolezza con
cui lasciò che il braccio precipitasse, inerme, lungo il fianco, sembrava
proprio di un uomo sconfitto, che non si sente più all’altezza di niente. Fu
allora che ebbe paura, per la prima volta davvero, una paura folle e
intossicante che le annebbiò la vista. Quando riaprì gli occhi, Ron era scomparso, e aveva portato con sé anche Draco.
***
Un’alba
umida e agghiacciante bagnava di bagliori ciechi la foresta. La nebbia era
scesa durante la notte, avvolgendo con un vapore lattiginoso forme e colori e impacchettando
tutto in una distesa lattea: la neve era stemperata dal grigiore opaco di
quella foschia ingiusta.
Quell’atmosfera
cupa rendeva la logorante attesa dell’accampamento una pena se possibile ancora
maggiore. Ogni cosa taceva, dietro il velo lattescente di quella spessa bruma:
nessuno osava fiatare, e con il capo chino ognuno aspettava: un segno, un
miraggio, qualcosa.
Ma
Hermione era stanca di aspettare. Aspettare senza
sapere era una delle più grandi incapacità delle sue vita, e lei non sopportava
di essere incapace in qualcosa. Perché, nell’attesa, aveva avuto lo spazio, già
prima d’allora, per costruire enormi impalcature di significato, e dieci minuti
dopo farle crollare, per sua stessa mano. Poi, riprendere da un punto
qualunque, correggere il tiro di qualche centimetro per rendere la costruzione
immaginata più solida; salvo poi vederla crollare di nuovo. Hermione
non sapeva aspettare e non voleva farlo, perché sapeva che nell’attesa i mostri
prendono forma e si ingigantiscono, mangiano le ore per crescere; sapeva che alla
fine l’avrebbero mangiata viva.
Era
per questo che si teneva impegnata, consultando piani d’attacco e studiando
difese, rivedendo stratagemmi e punti d’offesa. Dopo due giorni di silenzio e
due notti privi del consolatorio abbraccio dei sogni, ancora non si era
stancata di fingere che non le importasse. Solo l’occhiata ammonitrice di Ginny riuscì a riportarla sulla retta via e la costrinse a
ore di assoluto e sterile mutismo.
Nessuno
si aspettava un silenzio tanto lungo, semplicemente perché quel piano, studiato
da un Ron troppo accecato dalla rabbia e dall’odio,
era quanto di più simile a un tentato suicidio potesse esserci. Per questo
Harry e Neville gli avevano dato corda, per questo all’accampamento l’attesa
era tanto tetra: non è mai facile aspettare la morte.
Perciò,
quando, con uno schiocco di sterpaglie strappate al letto umido della terra,
Ronald Weasley si Materializzò al centro
dell’accampamento, tutti trattennero il fiato. Il ragazzo fece due passi,
barcollò, cadde e si rialzò. Poi, con gesti lenti e misurati, alzò lo sguardo e
cercò gli occhi di Hermione.
Hermione
non li dimenticherà mai: quelli sono gli occhi di un uomo. Hanno dentro rancore
e goffaggine, imbarazzo e dolore, colpa e soddisfazione. Hanno dentro la
risposta che Hermione sa già.
«Devo
dirti una cosa, Hermione»
Ron la guardò, e per un istante fu certo della sua scelta. Perché aveva
scelto il male minore, e lo aveva fatto per Hermione.
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