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Autore: Marge    10/02/2014    11 recensioni
In occasione del funerale del padre, tre fratelli molto diversi tra loro si incontrano, ognuno con il proprio bagaglio di errori passati ed aspettative future. Il tutto attraverso gli occhi di una ragazzina, vera protagonista, che con la morte ha un rapporto irrisolto.
Scritta per il contest "Nemiciamici" di (Gaea).
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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TAMBURI

 

Daniele chiama per dire che arriverà il giorno dopo, in compagnia di Marie, con il treno di mezzogiorno. Dice che non è possibile precipitarsi quella sera, perché Marie sta dalla madre ed ha bisogno di tempo per prepararsi, e, inoltre, prima di ventiquattro ore non ci sarà stato molto da fare.
Clara risponde che capisce, certo, ma non appena attacca la cornetta si gira verso il letto del padre: “Si porta dietro anche la figlia!”. Lui è sdraiato sul letto, nel suo miglior completo, le mani giunte in grembo. “A me fa paura quella ragazzina: è troppo nera. Ti fissa con quegli occhi da spiritata, sembra che stia per lanciarti il malocchio da un momento all’altro. Troppo nera.”
Nota una macchia su una sua mano, e con un fazzolettino cerca di strofinarla via. “Non vedo che bisogno c’era di farsene mandare una dall’Africa. L’altro l’hanno preso dalla Russia, potevano prendere anche la femmina così, bianca e bionda.” Strofina con delicatezza, ma la macchia non si toglie. Comincia a rovistare nel cassetto del comò. “Non è questione di razzismo, lo sai. Ma sono convinta che ci siano delle differenze, ecco. Se uno nasce in un posto così lontano con una cultura così diversa, perché dobbiamo imporgli la nostra?”
Esamina il flacone che ha tratto dal cassetto, annuisce tra sé e sé e torna al letto. “Ora ti copro la macchia, papà, non ti preoccupare. Non si vedrà nulla.” Finalmente un uso per quella confezione di fondotinta acquistata mesi fa. Con cura ne spalma una goccia sulla macchia, fino a coprirla del tutto. Si allontana fino alla porta, per osservare l’effetto da lontano. È soddisfatta e ripone il fondotinta nella borsetta – dovesse servire ancora. “Anche Francesco arriverà domani” annuncia ad alta voce. “Ovviamente viene anche Martina. Sarai felice di vedere la tua nipotina, vedrai. È diventata una ragazza adorabile.”
In quel momento squilla il citofono. “Già qui!” esclama. Improvvisamente le tremano le mani, non sa cosa fare né come accoglierli, si abbottona la giacca ma poi apre i primi due bottoni, butta un occhio allo specchio e sistema i capelli con due manate, ma la ricrescita grigia, implacabile, torna a mostrarsi. Alza le spalle ed apre la porta, con lacrime inaspettate tra le ciglia.
“Buongiorno” balbetta.
“Le mie più sentite condoglianze, signora.” L’uomo in completo nero le stringe a lungo la mano con entrambe le proprie, osservandola con uno sguardo penetrante ed affettuoso. Clara, nonostante sappia che riservano ad ogni loro cliente la stessa stretta, sente un groppo alla gola. La scena si ripete con l’aiutante, un ragazzino imberbe sui vent’anni dotato dello stesso sguardo affranto e comprensivo.
“Suo padre è di là?”
Clara fa strada.
“Ha già parlato con il prete?”
“Sì. Domenica mattina ci sarà il funerale. Prego, di qua.”
“Ma guardi come lo ha vestito bene. E profumato.” Il tipo dell’agenzia si sfrega le mani. “Alcuni, sa, hanno timore a fare queste cose, e noi siamo pronti ad aiutare in tutto.”
Clara sorride: “Figurarsi. Avrei fatto qualsiasi cosa, per mio padre”, ed appoggia una mano sulla fronte calva. La accarezza piano, tranquilla.

Sembrano una coppia di amici adolescenti in gita, pensa Daniele. Sua figlia, con le treccine ribaltate su un orecchio solo, dall’inizio del viaggio è occupata al suo cellulare. C’è un mondo, lì dentro: ride tra sé e sé, scrive affannata, legge assorta, sorride guardando una foto. Sembra non sia mai sola. Daniele a volte tenta di immaginarla, con le fattezze di adesso, nel suo villaggio, lì dove è andato a pescarla insieme a Vittoria, mentre Macsim era rimasto in Italia con la nonna. Era una bimba nerissima avvolta in stoffe colorate, con occhi splendenti come gemme picee; Vittoria l’aveva abbracciata ed era scoppiata subito in lacrime, e Daniele, come già per Macsim, aveva pensato che non avrebbe mai più provato invidia per i racconti della sala parto degli altri padri.
Marie sorride: “Guarda questa foto” e gli pone il cellulare. C’è un gattino arancione stravaccato su una pietra squadrata in mezzo al verde, sullo sfondo colonne romane, ed un fumetto recita: “Io so’ Romeo, er mejo der Colosseo”.
“Chi te l’ha mandata?”
“Un mio amico” dice, e a Daniele non sfugge il tono volutamente leggero con cui risponde, “dice che a Roma, a largo di Torre Argentina, c’è un enorme posto pieno di rovine romane e gatti. Mi ci porti?”
“Ci sei stata, qualche anno fa. Non ricordi?”
Marie scuote la testa. “È tanto che non veniamo a Roma.”
Daniele annuisce,  ma una sorta di vigliaccheria gli impedisce di continuare su quella china scivolosa. Potrebbe dire, ma certo, da quando io e la mamma ci siamo separati è stato difficile da organizzare, e poi il nonno si è ammalato, che venivate a fare, ad aspettare nelle corsie d’ospedale?
Di certo nessuno si aspettava che morisse davvero così all’improvviso. Stava male, ma lo era stato per anni, era stabile e poi, senza alcun preavviso, se ne è andato. Macsim e Marie neanche l’hanno salutato.
“Clara dev’essere sconvolta” si ritrova a pensare.
Gli dà fastidio soffermarsi su quei concetti tristi: la separazione, i figli dispersi, la sorella zitella. Sta andando al funerale di suo padre, eppure vuole essere felice, entusiasta. Stringe tra le mani il suo cellulare, un cosino di vecchia generazione, un telefono della prima guerra mondiale, come suole dire Marie canzonandolo. Cerca di vedere da fuori lui e sua figlia, nel vagone del treno, ognuno con il proprio cellulare tra le dita: una coppia di amici che vanno in gita a Roma. Un pensiero decisamente più piacevole.
Quando il suo vibra quasi salta per la sorpresa, poi s’illumina in viso. Stando attento a non far capire nulla a Marie apre il messaggio, e la sola vista del nome – Patrizia – gli fa sentire le farfalle nello stomaco.
Come due amici adolescenti in gita a Roma. 

 

Giovanna insiste per venire. “Ti pare che ti lascio solo in un momento del genere” mormora carezzandogli i capelli. Ha la sindrome dell’infermiera, e quella frase è risolutiva: Francesco ha già deciso che al ritorno la mollerà.
“Non ce n’è bisogno” risponde. Infila un maglione nero in valigia – magari non ce ne sarà bisogno, Clara non imporrà a tutti di vestirsi davvero a lutto, non siamo mica nell’Ottocento, ma non si sa mai.
“Non puoi andare solo!” pigola quella ancora.
“Non sono solo, viene Martina con me.”
“Potrebbe essere l’occasione per conoscerci” ha la risposta pronta lei.
“Sei matta?” esclama allora, e l’assurdità della sua proposta lo fa rimanere fermo, in mezzo alla stanza, dimentico di cosa stava cercando. “Vuoi conoscere mia figlia, mia sorella e mio fratello il giorno del funerale di mio padre?”
Giovanna alza le spalle. Per lei andrebbe bene qualsiasi momento: basta farlo, questo passo, per dare un po’ di ufficialità in più a quella relazione ballerina. Ma Francesco ha deciso – quando torna la molla, non ora, che non ha tempo di stare a sentire le sue proteste, perderebbe l’aereo.
Nel frattempo lei storce il viso, si sente colpevole, e piega compulsivamente una camicia di lui.
Francesco guarda l’orologio: avrebbe tempo anche per una trombatina, una cosa veloce subito, qui sul letto. Ma uno sguardo a lei lo convince: non gli viene neanche più duro a guardarla. Questa storia deve finire.
“Scappo” dice. “Devo passare prima a prendere Martina. Ti chiamo quando arrivo, va bene?”
Dentro di sé pensa: le manderò un messaggio. E al ritorno si giocherà anche la carta dell’uomo distrutto dalla morte del padre al quale non ha detto addio; dirà che vuole stare da solo, che ha bisogno di ritrovare se stesso, pensare alla propria infanzia.
Solo per un attimo, mentre raduna nel beauty-case il rasoio e la crema da barba, pensa a suo padre. È l’odore del pennello, che rimane sempre intriso nonostante i risciacqui, a farglielo venire in mente. Una volta lui aveva detto: “Daniele, insegna a tuo fratello a farsi la barba, ormai è ora.” Daniele non aveva trovato il momento, così alla fine ci si era messo lui. Ricorda il brivido mentre il rasoio, guidato dalla mano di suo padre stretta attorno alla sua, percorre la guancia per la prima volta. 
Giovanna gli porge il viso per un bacio, lui per evitare il contatto delle labbra l’abbraccia, ma poi pensa che è peggio: lei lo interpreterà come un segno ancora più intimo.
Se ne va confuso.

 

Non c’è molto da fare, Clara ha predisposto tutto: la bara è esposta in salotto, con due luci accanto; ha girato tra le dita del padre il rosario che era appartenuto alla madre, e che toglierà un momento prima di chiudere la bara, così da averlo a disposizione per la prossima morte in famiglia.
“Perché non prendiamo una pizza?” sussurra Marie all’orecchio del padre.
Da ore siedono senza far nulla nel tinello, lei, Daniele e Clara, impantanati in inutili chiacchiere, aspettando Francesco con Martina. Sono quasi le otto e l’intestino di Marie brontola senza alcun rispetto per il lutto.
“Non so se Clara ha deciso di cucinare qualcos’altro…” le risponde lui.
“Magari non ha proprio voglia di cucinare.” Si chiede perché siano venuti così presto, perché non direttamente per il funerale il mattino dopo. Suo padre neanche è entrato davvero nel salotto: è rimasto sulla soglia, a guardare il nonno da lontano, stringendo le mani sulle spalle di Marie; lei si è divincolata e ha raggiunto la bara issata sui supporti, si è chinata sul volto affilato e l’ha osservato con attenzione. Si è presa tutto il tempo necessario, fino a quando zia Clara ha battuto le mani ed ha detto Su, ora andiamo di là. Lasciamolo riposare come quando era vivo.
“Zia Clara” dice, “perché non ordiniamo una pizza? Zio Francesco e Martina saranno qui fra poco, possiamo chiedergli come la vogliono.”
Lei alza gli occhi e la guarda spalancandoli: sono azzurri chiarissimo, rossi per il pianto e circondati da occhiaie nere.
“Pizza?”
“Magari non ti va di cucinare” ripete Marie.
Clara si volge a Daniele: “Ma come può avere fame, tua figlia, proprio in questo momento?”
Lui alza le spalle: “Sai, i giovani. Il loro stomaco non si chiude mai” e tenta un sorriso, ma Clara stringe le labbra.
“I giovani insensibili che non capiscono cosa voglia dire perdere un genitore.”
Allora Marie si alza in piedi: “Guarda che io un padre l’ho già perso” sibila, e gira sui tacchi, mentre Clara si mette una mano sulla bocca e lascia andare un gemito – sembra più sdegno, che di dispiacere.
Marie si rintana nel salotto, dove Daniele la trova accovacciata su una poltrona accanto alla bara. La raggiunge senza voltare la testa verso il padre.
“Mi dispiace, tesoro” dice carezzandole la testa. “Lo sai com’è fatta zia Clara. È sempre vissuta qua dentro, senza neanche lavorare mai. Questo è tutto il suo mondo.”
“Bel mondo di merda” ribatte lei, ed in quel momento suona il campanello. “Martina!” esclama, e si precipita ad abbracciare la cugina.

 

Alla fine le pizze le hanno ordinate davvero. Marie ha suggerito a Martina di chiedere alla zia se poteva darle una mano a preparare qualcosa; Martina ci ha messo del suo, perché l’ha abbracciata e ha detto: “Dovremmo fare una bella cena tutti insieme per il nonno, lui ne sarebbe felicissimo” e zia Clara si è sciolta in lacrime.
Alla fine, ovviamente, non vi era nulla di semplice in cucina da preparare per tutte quelle persone, ed ancora una volta Martina ha proposto le pizze, ed ha anche scelto la preferita del nonno. Del resto, lei è la nipote preferita.
Clara sbocconcella la sua tagliandola in mille quadratini minuscoli, e nel frattempo racconta a Francesco tutto ciò che Daniele e Marie hanno già sentito: il nonno che, dopo pranzo, annuncia come sempre di volersi fare una pennichella; poi la chiama per andare in bagno, e lei non fa in tempo ad arrivare che lui la guarda e muore. Così, dice lei, senza avvertire. Sono rimasta come una scema, davvero. Non riuscivo a crederci. Chissà cosa sentiva. Continua a piangere, mentre lo racconta, e Daniele le stringe una mano.
“Clara” dice masticando, “hai fatto così tanto per lui. Gli sei stata vicino fino alla fine.” Guarda Francesco allusivo, e lui ripone il cellulare nella tasca: “Ha ragione. Ora devi stare tranquilla. Hai tutto il tempo per organizzarti, vedrai.”
Lei li guarda confusa: “In che senso?”
“Siamo stati preoccupati per te, in passato” continua Daniele. “Hai sacrificato così tanti anni della tua vita. Sono sicuro che ora papà vorrebbe che…”
“Voi non capite proprio” sibila lei. Marie e Martina alzano gli occhi dal cellulare con il quale si trastullano dall’inizio della cena. “Non è mai stato un sacrificio.”
“Ma certo” dice Francesco, abbozzando un sorriso.
“Certo cosa? Ve ne siete fregati entrambi, per anni. Tanto c’è quella scema di Clara, a pensarci. A lui e a mamma, prima.”
“Ma smettila!” sbotta allora lui. Daniele lo guarda allarmato, quasi a chiedergli di non andare oltre. “Ma se mamma non vedeva l’ora che te ne andassi di casa anche tu. Lo diceva sempre, e tu, invece, appiccicata come una cozza.”
Clara apre la bocca, la richiude senza dire nulla. Contrae il viso in una smorfia e le lacrime cominciano nuovamente a scorrerle sulle guance.
Le due ragazze non mangiano neanche più, osano appena respirare.
“Francesco, dovevi proprio…” inizia a dire Daniele, ma lei esplode: “Siete due traditori! Ve ne siete fregati sempre, sempre! Tu!” si gira verso Francesco, il volto tra le mani, “metti incinta una a vent’anni, mica potevi fare la cosa giusta, eh no! Tanto c’è Clara che ci penserà, a far felici mamma e papà, tu potevi fare il ragazzino viziato, neanche te la sei sposata!”
Martina aggrotta la fronte, e Marie appizza le orecchie: quella parte della storia si fa interessante, le mancano dei particolari sulla nascita della cugina e sul perché i suoi genitori non si siano mai sposati.
“Ma questo cosa c’entra ora?” sbraita Francesco. “Cosa cazzo c’entra mia figlia? Vuoi prenderti tutti i meriti? Fallo pure!” Si alza in piedi e dà una manata al tavolo. “Quanto sei brava, Clara, quanto sei buona! Contenta?”
“Ma dai, Francesco…” continua Daniele, conciliatore. È a disagio, non sa dove guardare e più spesso i suoi occhi cadono sulle due ragazzine: non vorrebbe che ascoltassero. “Perché dobbiamo litigare così? In questa situazione, poi…”
“E certo” continua Clara. “Continua pure a scappare, tu. È quello che hai sempre fatto: Francesco fa una cazzata? Mamma e papà sono distrutti? Tu te ne vai. Tanto che ti frega: c’è Clara, a casa.”
“Me ne sono andato?” chiede Daniele strabiliato. Guarda Francesco, a cercare un appoggio questa volta, ma l’altro è rosso in viso, ha le mani in tasca e fissa furioso la sorella.
“Ti sei trasferito a Milano. Non è esattamente dietro l’angolo.”
Daniele è talmente sorpreso che non dice nulla.
“Ma che dici, zia” si intromette Marie. “Papà si è solo sposato con la mamma, e lei lavorava lì.”
“Non mettere bocca su questioni che non conosci” dice lei con cattiveria.
“Smettila di parlare a questo modo a mia figlia” interviene allora Daniele. “Da quando siamo arrivati non hai fatto altro che risponderle male.”
Daniele vorrebbe dire molto di più, ma non è un uomo forte. La frase di sua figlia di poche ore prima gli brucia nel cuore e vorrebbe dare uno schiaffo a Clara per averla provocata, ma è più forte la pena che gli si spande nel cuore per quella ragazzina che ha già vissuto tanto, per se stesso che non è in grado di difenderla né di riempire tutti i suoi vuoti, e per sua sorella, che è cattiva e sola.
“Se l’è cercata” risponde Clara, e finalmente lascia la stanza.
Martina sospira forte, come se fosse stata per tutto quel tempo in apnea.
“Come mai Vittoria non è qui?” chiede allora Francesco. Sembra accorgersene in quel momento.
Marie fulmina il padre con un’occhiata, e lui risponde: “Non poteva. Macsim è in Inghilterra per una vacanza studio” aggiunge, anche se non gli è stato chiesto.
“Mamma e papà si sono separati” dice allora Marie. Daniele la guarda sconcertato e lei alza le spalle.
“Che cosa?” esclama Martina.
“Cosa?” ripete Francesco. Si rimette a sedere. “Non riesco a crederci. Da quando?”
“Qualche mese” continua Marie.
“Non è il momento” dice Daniele. “Ci manca solo questa, stasera…”
“No, aspetta un attimo. Perché non ci hai detto nulla?”
“Volevamo prima essere sicuri di… prima di dirlo. Insomma, magari è una fase.” Daniele è preso in trappola: parlare davanti al fratello ed alla figlia è difficile, giustificare il silenzio all’uno e la decisione presa all’altra. Sente caldo e vorrebbe andar via.
Martina passa un braccio attorno alle spalle della cugina. “Vieni, andiamo di là” le sussurra, e l’altra si lascia convincere. Lasciano il tinello, e Daniele vorrebbe tanto andar via anche lui ma non sa come congedarsi.
“Come è successo?” chiede Francesco.
“Ma sai come succede… Dopo tanti anni…”
“Hai un’altra?”
“Cosa c’entra adesso?”
“Hai un’altra?”
“Ma che ti importa? No, non è per un’altra. Parli tu, poi…”
“Cosa vorresti dire?”
“Voglio dire che tu hai mille storie, mille donne, da sempre. Se anche io avessi un’altra, adesso, cosa vorrebbe dire?”
Francesco si volta a guardarlo. “Ma voi siete sposati! Ed avete due figli. E Vittoria è così… così in gamba. Ma cosa ti salta in mente? Non ne troverai un’altra come lei.”
Daniele non capisce. “È andata così. Succede a tante coppie. E i due figli li abbiamo comunque. Parli tu, poi!”
“Non posso crederci” mormora Francesco. Guarda lontano. È perso nei ricordi. “Una come Vittoria. Come fai a lasciare una come Vittoria.” 
“Non ti seguo.”
Francesco si volta e lo fissa. Daniele si sente improvvisamente a disagio, come quando si cerca a tutti i costi di rammentare un sogno, si ha un sentimento addosso ma non si riesce a focalizzare l’immagine. Ha la sensazione di dover ricordare qualcosa.
“Mi avevi detto che era la donna della tua vita” dice il fratello. “Mi avevi detto che non riuscivi ad immaginarti in nessun altro posto che non accanto a lei. Mi hai perfino chiesto di farti da testimone, con la faccia come il culo.”
Allora Daniele ricorda: un amico che gli dà una gomitata nelle costole, gli indica Vittoria che dà ripetizioni di latino ad un Francesco adolescente e sussurra Ehi, ma che tuo fratello si è preso una cotta per la tua ragazza?
“Non è possibile” dice. “Dopo tutti questi anni?”
“Dopo tutti questi anni” conferma Francesco, e si alza in piedi. Lo fronteggia.
“Avrei potuto essere davvero felice con Vittoria, ma te l’ho lasciata. E tu ora mandi tutto a puttane. Sei un coglione.”
“Tu stai delirando” dice Daniele. Non crede davvero che una cotta adolescenziale sia stata vissuta a quella maniera: Vittoria è sempre stata solo la sua ragazza, e lui il fratello maggiore con la storia seria, mentre Francesco, già allora, svolazzava di fiore in fiore impunito.
“Io almeno avrei potuto darle un figlio vero” aggiunge Francesco, ed un secondo dopo capisce che è andato troppo oltre: Daniele alza una mano in aria, si fa rosso in viso e le labbra gli tremano.
Ma non lo colpisce. Il braccio cade  sulla tavola, rovescia la bottiglia della Coca Cola. Poi Daniele se ne va, sbatte la porta, e Francesco ricade seduto sulla sedia, la testa tra le mani.

 

Non riesce a capire se il funerale la fa sentire triste o meno. I nonni muoiono. I vecchi muoiono. E le persone attorno a lei, nella chiesa, non piangono.
Una volta è stata al funerale della madre di una sua amica, una morte brutta. La sua amica aveva gli occhiali da sole, ed era composta e silenziosa; da mesi accampava scuse per non uscire con loro, neanche al sabato sera. A quel funerale Marie aveva pianto, singhiozzato per l’intera funzione senza ritegno, mentre la sua amica strizzava un fazzoletto asciutto tra le mani.
Ma a questo no. Al funerale di un nonno non piange nessuno.
Scruta il volto di suo padre, guardinga. Lei piangerebbe, se si trattasse di lui, ma le sta accanto serio, apre il portafoglio quando passa il chierichetto con il cestino, stringe la mano ai vicini al momento giusto con un “pace” a mezza voce.
Zio Francesco siede rintronato, con la bocca semi aperta e lo sguardo perso nel vuoto. Ogni tanto tira fuori il cellulare dalla tasca, controlla che non siano arrivati messaggi.
Martina, che le siede dall’altro lato, si spertica nel ripetere le preghiere e canta a voce alta, e la sua sembra la sola a riempire la Chiesa. Non c’è molta gente, tutti gli amici del nonno sono già morti o troppo malandati per venire fin lì.
La voce del prete è talmente bassa che quasi non si sente, coperta dal frastuono della pioggia che inonda le strade dalla mattina.
In un momento, la Messa è finita: escono in fila, Clara che non perde di vista la bara neanche un momento, con gli occhi rossi e le labbra tremanti; poi lei con Daniele, seri e composti, ed infine Francesco, dall’aria svagata, con Martina al suo fianco, commossa ma dispensatrice di sorrisi per tutti coloro che vengono a porgere le condoglianze. In poco tempo le persone si disperdono, sconfitte dalla pioggia, e solo in poche si infilano in macchina per andare al cimitero.

 

Il terreno è scivoloso e bagnato, la pioggerellina fitta si infila in ogni fessura tra cappotti, cappucci ed occhiali appannando la vista, ricordando fastidiosa che tutti sono ancora, immancabilmente, in vita. Marie scuote la testa, infastidita dagli aghi di pioggia sulle orecchie.
Sorretta dagli uomini dell’agenzia, la bara sembra assolutamente immobile, come scivolasse su in invisibile nastro trasportatore. La portano senza alcuna fatica apparente, come fosse vuota.
È un momento. Il piede di uno di loro slitta sull’erba alta gonfia d’acqua, si alza in alto come quello di una ballerina ed il peso grava infine su di lui; non può fare a meno di franare in terra, toglie il supporto agli altri e, per proteggersi dal legno che gli cade addosso, si chiude a palla, proteggendosi il volto. Fa da leva involontaria e la bara si capovolge su di lui, sfuggendo alle mani degli altri.
Emette un gemito quando l’angolo lo colpisce alla nuca e subito dopo la cassa cade a terra su un lato, un rumore sordo.
Rimane solo per un breve momento in equilibrio, mentre il corteo frena bruscamente e le persone si calpestano i piedi. Marie trattiene il respiro.
Poi si capovolge, e nel cadere sul coperchio, si sente il rumore.
Tu-tum.
Il corpo che sbatte.
La cassa non è vuota.
Non lo è, ovviamente.
Marie confonde quel suono con quello del suo cuore che le batte nelle orecchie.
Tu-tum, tu-tum. Il corpo, una sola volta, il suo cuore, vivo, impazzito, sempre più velocemente.
Tu-tum, e sembra quasi un tamburo; la vista le si appanna, l’eco le riempie le orecchie e davanti agli occhi si fa nero, compare un fuoco, sagome danzanti, e quel tu-tum incessante.
E poi Clara urla, e gli altri rumori tornano a farsi udire: l’uomo a terra che geme, uno che gli chiede come sta, un altro che si precipita sul feretro, ma Clara è arrivata per prima ed grida tra le lacrime di fare qualcosa.
La visione sparisce; la pioggia cade incessante, sembra quasi più forte.
Marie stringe il braccio del padre, ma Daniele si divincola e corre lì, seguito da Francesco.
“Su, forza!” esclama, e dopo uno sguardo per coordinarsi, i due fratelli spingono e rimettono la cassa sul lato giusto.
“È tutto a posto, non piangere” dice passando un braccio sulle spalle di Clara.
“Va tutto bene” aggiunge Francesco con voce commossa, e le carezza i capelli piano.
Marie si copre il viso con le mani e scoppia in lacrime.  

 

***
Scritta per il contest "Nemiciamici" di (Gaea), in coppia con Elenri che ha scritto "L'occasione". Leggete anche la sua storia, perché è sorella di questa e vi sono dei punti in comune ;)

 

  
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