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Autore: Carlos Olivera    10/02/2014    2 recensioni
Storia partecipante ai contest Ritorno all’Infanzia di Frantasy94, e Il Contest degli Ossimori di Higurashishinko
Tutti corriamo nella vita.
Chi dietro ad un fantasma sfumato tra i meandri dei ricordi, chi verso un sogno di gloria splendente.
E quando afferri la trama sottile del sogno, la costringi a trascendere dall’effimero al tangibile, tra le labbra non rimane che il dolce ma crudo paradosso della fama, tanto da renderlo indistinguibile da una cieca ossessione.
In questo mondo ci sono due tragedie. Una è il non avere ciò che si desidera, l’altra è l’ottenerlo
(Oscar Wilde)
Genere: Drammatico, Fantasy, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Tales Of Celestis'
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PARTE V

 

 

Helena non riuscì a trattenersi, e nascosto il viso dietro le mani si lasciò andare ad un pianto disperato, gettando fuori quel dolore la dilaniava ogni qualvolta quelle immagini tornavano a ripresentarsi nella sua mente.

 

«Perché piangi? Non è mica stata colpa tua.»

«Dovevo fermarla! Non dovevo permetterglielo! Se avessi avuto un briciolo di giudizio, se non fossi stata così cieca, lei non sarebbe diventata quella… quella cosa! Non sarebbe morta!

Ho spezzato il legame che avevo promesso di mantenere per tutta la vita! Ho ucciso la mia migliore amica! L’ho uccisa, io! Con queste mie mani!»

«Ognuno è artefice del suo destino. Lo dicevi spesso una volta.»

«Questo dovrebbe farmi sentire meglio?»

«È per questo che dopo quella volta Helena, scusa, Octavia, è sparita dal mondo?»

«Con che coraggio avrei potuto farmi rivedere in giro? Ora che finalmente avevo capito in che razza di mondo ero finita? Da un istante all’altro, tutto mi sembrò inutile.

Il mio prestigio, la mia fama, i miei soldi. Persino quel sedicente, maledetto sogno. Era tutta spazzatura! Io ero spazzatura!»

«Finché non è arrivata lei.»

 

La giovane donna parve calmarsi, e spalancò gli occhi in un senso come di stupore.

 

«Già. Lei. Ancora mi domando come sia stato possibile».

 

Il mondo rimase di stucco quando Octavia, la campionessa in carica, mancò all’ultimo la partecipazione allo scontro per la difesa del suo titolo al termine dell’ultimo campionato mondiale, perdendo di fatto la sua corona senza neppure essere scesa nell’arena.

Ma questo all’interessata non importava. Helena non voleva avere più nulla a che fare con quel mondo.

Ma d’altra parte, non poteva neanche tornare nel vecchio, al quale ormai non apparteneva più.

Non sapeva più niente. Non aveva certezze, né idee, né sensazioni.

Si sentiva vuota. Come la sua casa, quel castello delle fiabe nel quale, da un giorno all’altro, si rinchiuse, isolata dal mondo, lontana da tutto ciò che aveva inseguito e cercato per tutta la vita, dagli affetti morali e materiali.

Sola. Come sentiva di essere rimasta al mondo.

Passò molto tempo, non sapeva quanto esattamente.

Era un pomeriggio come tutti gli altri.

Helena sedeva nel suo salotto, le tende tirate e le luci accese, gli occhi come persi nel vuoto, che di tanto in tanto andavano a posarsi senza attenzione sul libro che la ragazza aveva poggiato sulle ginocchia. Non ricordava neppure di che libro si trattasse, tanto distrattamente lo aveva recuperato dal ripiano appoggiato alla parete alle sue spalle.

D’un tratto, Francine comparve al centro della stanza. I suoi tratti erano cambiati; Helena aveva voluto cambiarli, anche se il perché lei stessa non riusciva a comprenderlo: forse voleva illudersi che tutto fosse ancora come prima, almeno un po’, o forse non voleva correre il rischio, semmai fosse stato possibile, di dimenticare il suo peccato.

«Signorina, hanno suonato alla porta.»

«Non voglio vedere nessuno.» rispose Helena girandosi dall’altra parte «Né giornalisti né nessun altro. Se è Monagan, poi, digli pure di andare al diavolo.»

«Come desidera».

La ragazza mora scomparve, per poi ricomparire qualche secondo dopo.

«Non si tratta di ammiratori o giornalisti. È un agente della MAB. Una signorina. O almeno così dice, visto che non ha potuto esibire il proprio distintivo».

Helena ebbe come un momento di stupore: che cosa voleva da lei la forza di polizia internazionale, che qualcuno definiva in realtà una vera e propria organizzazione militare con funzioni civili, incaricata di vigilare sulla prosperità del mondo assicurando il corretto uso della magia?

«Non mi interessa.» sentenziò stizzita «Mandala via.»

«Ci ho provato, ma dice che è molto urgente. Deve conferire assolutamente con lei».

Helena si passò una mano tra i capelli, sbuffando contrariata.

«E va bene, falla entrare».

Pochi attimi dopo, dinnanzi a lei si palesò una ragazzina dall’aria spesata, abbastanza minuta ma non per questo gracile, capelli marrone chiaro tagliati piuttosto corti e grandi occhi verdi.

A guardarla così, quasi tremante di soggezione, tutto sembrava meno che un poliziotto.

Cercando di non darlo a vedere, senza in verità riuscirci, la nuova arrivata si guardò attorno; tutte le tende erano tirate, le luci ridotte al minimo indispensabile. Sembrava la dimora di un vampiro, che rifuggiva il sole per timore di venirne consumato.

«Scusi il disturbo.» disse quasi a volersi giustificare «Sono l’agente Carmy O’Neill, della polizia militare.»

«So chi siete.» tagliò corto Helena fissandola dritta in volto «Ha detto di dovermi parlare con urgenza. Di che si tratta?».

Carmy temporeggiò, colta dall’imbarazzo.

Il suo silenzio parve incuriosì Helena, che si alzò dalla poltrona per avvicinarsi e guardarla più da vicino.

«Certo non sembra davvero un agente di polizia.»

«Me lo dicono spesso.» replicò d’istinto Carmy, non sapeva se per sdrammatizzare o cercare di calmare l’imbarazzo.

Helena continuò a fissarla, e infine tornò sui propri passi.

«Francine.» disse sedendosi, e facendo accomodare anche la sua ospite.

La donna virtuale comparve nuovamente.

«Desiderate, signorina?»

«Prepara del caffè.»

«Come volete.»

«Uno spectre.» disse un po’ incredula Carmy vedendo la proiezione sparire e la caffettiera che, subito dopo, si metteva in funzione da sola.

«Non sono mai stata brava nelle faccende domestiche. E ultimamente, come può immaginare,  non ho molta voglia di avere gente che gira per casa. Lei lavora al posto mio.»

«Potessi avercela anch’io un’aiutante così. La mia coinquilina ha il disordine nel sangue, e spesso devo sistemare la casa per tutte e due ogni domenica.»

Il fischio della caffettiera interruppe il discorso, ed Helena si alzò dalla poltrona per andare in cucina.

Quando rientrò in salotto, trovò la sua ospite in piedi accanto alla libreria, con in mano quella foto ormai sbiadita che il signor Boniek aveva assistito per fare alle sue allieve preferite nel giorno in cui aveva consegnato loro le tessere CFC.

«È una chandrista

«In un certo qual modo».

Carmy guardò un’altra volta l’immagine.

«Io non seguo molto il chandra, ma non mi pare di averla mai vista. È da molto che pratica questo sport?»

«Abbiamo iniziato insieme. Ma ormai è da circa sei mesi che non è più in grado di calcare l’arena».

Solo allora Carmy si accorse che le mani di Helena tremavano.

«Mi dispiace.» si affrettò a dire «Non sono affari miei, dopotutto».

Non capiva cosa le stesse succedendo, ma sentiva qualcosa dentro di lei, come una specie di calore. Era una sensazione famigliare, e ogni qualvolta le capitava di incrociare gli occhi spauriti ma gentili della giovane agente la sentiva un po’ più forte; posato il vassoio sul tavolino, si avvicinò alla vetrata e scostò leggermente la tenda, quanto bastava per far entrare nella stanza pochi raggi di luce.

Ormai si appressava il tramonto, e quanto rimaneva del sole aveva già iniziato a scomparire dietro i grattacieli, che avvolgevano Heaven’s Gate come le sbarre di una gabbia, proiettando lunghe ombre sulle strade sottostanti e i marciapiedi affollati di pedoni.

«Siamo cresciute insieme.» disse cercando di scorgere il sole oltre i palazzi «Vivevamo nello stesso quartiere. Immagino sappia a che cosa mi riferisco.»

«Credo di sì.» rispose timidamente Carmy.

Fu a quel punto che accadde qualcosa che Helena non avrebbe mai immaginato.

Non capiva perché, e non riuscì a capirlo per tutti i minuti successivi, ma parlò.

Come se una chiave invisibile avesse aperto il lucchetto del suo cuore, lasciò uscire tutte quelle parole, quei pensieri, quei ricordi che aveva accumulato in tutta la sua vita, e che per tanti anni si era gelosamente tenuta dentro, un bagaglio emotivo che pensava non avrebbe mai condiviso con nessuno.

Perché lo fece, non le era dato di comprenderlo.

Quella ragazza, Carmy, per un attimo le era sembrata come lei. Nei suoi occhi, oltre alla semplicità e alla gentilezza, aveva letto anche l’indecisione: quella specie di ombra che si addensa solitamente negli occhi dei nuovi adulti, ancora insicuri della vita e non del tutto certi della strada da percorrere.

Proprio come si era sentita lei quando il mondo le era caduto addosso.

Raccontò tutto, persino ciò che nessun’altro sapeva, persino il suo segreto più nero, come se una parte di lei non aspettasse altro che trovare qualcuno con cui dividere quei tremendi ricordi, per alleggerirsi la coscienza ed evitarle di impazzire.

Carmy ascoltò, senza commentare né giudicare in alcun modo il contenuto di quella specie di confessione, e quando il racconto ebbe fine stette a lungo ad osservare Helena che, come sotto ipnosi, fissava senza sosta le proprie mani tremanti.

«Non ho mai saputo nulla di questa storia.» disse Carmy cercando di trovare le parole «Ero alla Magic Arena solo poche ore fa, e nessuno ne ha mai fatto parola.»

«È naturale.» rispose Helena con la più ironica rassegnazione «Anche se nessuno a parte Luna teoricamente ne aveva colpa, se una cosa del genere si fosse venuta a sapere sarebbero stati in molti a pagarne le conseguenze. La società che gestisce lo stadio. Quelle che finanziano i grandi tornei. I gruppi industriali che hanno creato i sistemi informatici, le machina e l’arena virtuale. Persino i miei sponsor».

Le sue mani, da tremanti che erano, si irrigidirono di colpo, facendosi come di pietra, e serrandosi con tale vigore attorno alla tazza da farla scricchiolare.

«Prima di allora non avevo mai visto tutte quelle serpi maledette andare così d’accordo su cosa fare e come.

Tutta la vicenda fu fatta passare sotto silenzio. Ufficialmente nessuno seppe mai cosa era accaduto in quell’arena. Fu come se Luna Warner non fosse mai esistita. Quanto a me, non ebbi il coraggio neanche di andare al suo funerale.

Mi sarebbe sembrato il più ipocrita dei gesti. Non sono mai riuscita neanche ad andare al cimitero».

Helena  sentì il cuore iniziare a battere un po’ più forte, accompagnato da una sensazione di freddo.

«Da quel giorno, non me la sono più sentita.» disse rassegnata posando la tazzina «Ho tagliato ogni ponte, ogni legame. E sono venuta qui, da sola. A fare o ad aspettare che cosa, non lo so».

Fece una pausa, nascondendo un momento il volto dietro una mano.

«Spesso si passa così tanto tempo ad inseguire le proprie aspirazioni che non si tiene conto del fatto che ogni cosa, anche i sogni che rincorriamo a volte per tutta la vita, hanno il loro rovescio della medaglia.

Denaro. Fama. Gloria. Ammiratori. Quando mi allenavo in una palestra sgangherata con machina tenute insieme per miracolo sono arrivata al punto da non pensare ad altro che al giorno in cui avuto tutto questo. E ora che ce l’ho, quasi non so che cosa farmene.

Luna era diversa. Anche lei voleva ascendere, ma a differenza di me non è mai arrivata a considerare il chandra solo uno strumento. Anzi, probabilmente sarebbe stata disgustata dal vedere quello che è in realtà lo sport per il quale ha faticato fino a rimetterci la vita.»

Carmy sembrava a disagio, ed Helena lesse nel suo sguardo ciò che in realtà aveva già intuito: l’indecisione di chi non sa quali decisioni prendere e si domanda il senso di quelle già prese. Eppure, a differenza di lei, non sembrava esservi rassegnazione o sconforto nei suoi occhi, ma solo tanta speranza.

«Anche io sono venuta in questa città per realizzare un sogno. Anche per me non è stato facile, ma a differenza di lei la mia è una famiglia abbastanza benestante, con delle ideologie piuttosto intransigenti. Mio padre ha sempre contestato il sistema in cui viviamo, e nonostante i miei tentativi non sono mai riuscita a fargli comprendere che se avevo accettato di farne parte non era perché lo approvassi, ma perché volevo cercare di migliorarlo.»

«E ci è riuscita?»

«Non credo. E onestamente, dubito di riuscirci mai».

Seguì un lungo silenzio. Le due ragazze si osservarono l’un l’altra, cercando di cogliere i rispettivi pensieri.

«Comunque, io non ho intenzione di tornare indietro sulla mia decisione. Che mio padre lo accetti o meno, e per quanto difficile possa essere, non posso gettare al vento tutto quello che ho fatto per arrivare fino a qui.

E, se posso permettermi, non dovrebbe farlo neanche lei.»

«Come?» replicò Helena interdetta

«Non credo di poter comprendere davvero quello che prova, ma da come me ne ha parlato è evidente che il chandra le piace ancora, così come piaceva a Luna. Ha passato tutta la sua vita ad inseguire l’obiettivo che si era prefissata, e ora che ha finalmente ottenuto quello che desiderava non le sembra stupido gettare via tutto?».

Helena batté violentemente il pugno sul tavolino, colta da una furia improvvisa.

«Tu non capisci. Con che coraggio potrei far finta che non sia successo niente e tornare alla mia vecchia vita? Dopo quello che ho fatto? Dopo quello che sono diventata?»

«Nessuno ha detto che deve dimenticare.» rispose Carmy per nulla intimorita «Farlo sarebbe il vero crimine. Il fatto che questa storia la faccia soffrire così tanto è la prova che i suoi sentimenti e il suo animo non sono così avvizziti come lei crede».

Detto questo Carmy prese fuori dalla tasca della giacca una piccola scheda virtuale contente la versione documentario del secondo campionato del mondo al quale aveva partecipato, quello in cui aveva difeso con successo il suo titolo di campionessa del mondo in carica.

«Ci sono molte persone, molti ragazzi pieni di sogni come i suoi, che la ammirano e credono in lei. Pensa davvero che la adorerebbero così tanto se la vedessero sotto la luce in cui lei si vede ora? Persino Luna ha continuato a credere in lei fino all’ultimo, senza mai dubitare del vostro legame o della sua forza d’animo».

Helena rimase in silenzio, gli occhi spalancati e l’espressione attonita.

Era incredibile. Si stava facendo dare lezioni di vita da una ragazzina più giovane di lei, e la cosa più incredibile era il dover ammettere che quella specie di agente per caso aveva ragione.

«Sono consapevole che la sua è stata un’esperienza terribile. Chiunque ne sarebbe rimasto schiacciato. Il consiglio che mi sento di darle è, invece che permettere al senso di colpa e al rimorso di sopraffarla, provi a fare tesoro di quanto successo per riscoprire ciò che realmente l’ha portata fin qui».

Carmy guardò nuovamente la foto, e anche Helena fece altrettanto.

«Non pensa che Luna lo avrebbe voluto? In fin dei conti, ora sta a lei portare avanti ciò in cui entrambe avete creduto».

Ci fu un nuovo, lungo silenzio, poi Helena si alzò dalla poltroncina, si avvicinò nuovamente alle tende e spinse un pulsante, aprendole. In lontananza si intravedeva la Magic Arena, una cupola specchiata che si stagliava al centro di un grande parco.

«Come ha fatto una come te a finire nella MAB?» domandò in tutta schiettezza, e riuscendo perfino ad abbozzare un sorriso «Sembri davvero troppo semplice e onesta per accompagnarti a gente simile.»

«Nella MAB ci sono persone indegne del ruolo che ricoprono. Ma è così in ogni istituzione, come immagino lei saprà molto bene. È nella natura umana che qualcuno anteponga sempre e comunque i propri interessi al bene della collettività o al proprio dovere. Ma può credermi se le dico che c’è anche tanta gente perbene, che ama il proprio lavoro e si adopera davvero per aiutare questa società.»

«Sembra quasi impossibile. Ma vedendo te, mi viene da pensare che forse potresti anche avere ragione».

Carmy sorrise, alzandosi a sua volta.

«Allora?» disse nuovamente Helena «Se non sbaglio non mi hai ancora detto per quale motivo sei venuta qui.»

«Accidenti, è vero!» esclamò Carmy cadendo dalle nuvole «Effettivamente, avrei bisogno di una piccola cortesia da parte sua.»

«E cioè?».

Helena, sentendo di che si trattava, quasi sorrise.

Tutto per colpa di un autografo.

Quella ragazza era così svampita e fuori dal mondo da essersi dimenticata del compleanno di sua sorella, e non avendo altre idee aveva pensato bene di regalarle la cosa che più di ogni altra l’avrebbe resa felice.

Ne aveva firmati tantissimi, ma quello che impresse sulla copertina di quella scheda, accompagnato da una dedica personale vergata velocemente su di un foglietto per una potenziale futura campionessa, ebbe un sapore speciale.

Non era come le migliaia di altri che aveva firmato; farlo le fece piacere.

«La ringrazio infinitamente.» disse Carmy, che subito dopo corse via veloce come il fulmine, lasciando Helena sola a riflettere sulla sua vita.

 

«Un incontro voluto dal destino, si potrebbe dire.»

«Mi avevano sempre detto che la MAB era la polizia dei potenti. I cani sciolti di questo sistema in cui viviamo che si finge perfetto ma esalta e premia il peggio dell’essere umano.

Vedendo lei, mi sono chiesta se a volte la gente non tenda un po’ troppo a giudicare senza conoscere davvero.»

«Più o meno come avevi fatto con te stessa, dico bene?»

 

La giovane donna sussultò, quindi, sorridendo ironica, si ritrovò a fissare il pavimento, le mani incrociate come in preghiera e poggiate sulle ginocchia e le gambe accavallate.

 

«Di certo, non ero esente da colpe. Ma avevo passato tanto di quel tempo ad auto commiserarmi, da aver smarrito qualsiasi obiettivo. Non sapevo più niente.

Dapprincipio non cambiò nulla. O meglio, credevo non fosse cambiato nulla. Ma in realtà, quella ragazza aveva acceso qualcosa in me. Mi aveva fatto capire che non era tutto da buttare via. Potevo recuperare i cocci della mia vita e andare avanti.

Lì per lì, però, non me ne resi conto subito. Ci voleva qualcosa di più. Un’ultima spinta.

E fu così bello provare di nuovo quella sensazione».

 

Per giorni, le parole della giovane agente della MAB non smisero un momento di risuonare nella mente di Helena.

Da un lato, voleva credere che anche per lei ci fosse una seconda possibilità, un modo per raddrizzare la propria vita, dall’altra sentiva di non meritarla, non dopo essersi lasciata corrompere e aver ucciso la sua migliore amica.

Ma qualcosa dentro di lei sembrava essere scattato.

Una mattina, quasi mossa da una forza sovrannaturale più grande di lei, dopo una notte passata in bianco a sfogliare l’album delle vecchie foto ritrovato chissà come sepolto in un armadio, si alzò, si coprì, infilò un cappello dalla fodera larga, un paio di occhiali, si sciolse i capelli, si abbottonò un cappotto ed uscì.

Quella forza che la guidava seguitò ad agire per lei, facendola prima perdere per gli affollati marciapiedi e poi scivolare silenziosa a bordo prima di un treno e poi di una corriera, restituendole il raziocinio solo quando fu dinnanzi al cimitero del villaggio di Jakup, paese natale della famiglia Warner.

Quasi non riuscì a credere di trovarsi proprio lì, ma pur sentendosi nuovamente padrone della sua volontà varcò comunque il cancello, scrutando con gli occhi le lapidi più recenti fino a fermarsi dinnanzi ad una un po’ più piccola delle altre, sovrastata dalla statuetta di un angelo con una mano rivolta al cielo e l’altra stretta attorno ad una lancia la cui punta arrivava quasi a lambire il terreno.

Non dovette leggere il nome inciso sopra per capire che era quella la tomba che stava cercando.

Vi sostò davanti per molte ore, senza proferire parola, e per quanto ci provasse non le riuscì di piangere.

Sembrava che qualcuno, forse la stessa forza che l’aveva condotta lì, le impedisse di farlo, quasi a volerle rammentare che quello non era il momento del pianto, ma del riscatto.

Una vita era andata perduta. Ma la sua, forse, era ancora recuperabile.

Poteva, anzi, doveva riprenderla nelle sue mani; perché ora la vita che stava vivendo non era più solo la sua. Da quel giorno per lei sarebbe stato come condurre due esistenze parallele, e la seconda in particolare aveva ancora troppe cose da fare per lasciarsi andare senza reagire.

Come riuscirci, però, non lo sapeva.

Per quanto ci provasse, Helena non riusciva a capire in che modo potesse riuscire ad andare avanti.

E nuovamente, il destino ci mise del suo.

Deposto sulla tomba un fiore raccolto da terra, la giovane donna lasciò in silenzio il cimitero, ed incamminatasi senza meta per le strade del paese in cerca di una risposta i suoi passi la condussero fuori da quella che aveva tutta l’aria di essere una festa campagnola, poco più di una sagra, che qualcuno aveva voluto rendere speciale aggiungendovi un piccolo torneo di chandra.

La competizione doveva essersi appena conclusa, perché a sentire la voce del presentatore il vincitore a breve sarebbe stato chiamato sul palco per ritirare il suo premio, e di nuovo quella sensazione di calore si accese nel petto di Helena.

Una serie di immagini le passarono come d’incanto davanti agli occhi, immagini lontane di un passato felice, fatto di duro allenamento, tanta fatica, ma anche molte speranze, speranze ingenue forse, ma sincere e pure, come quelle dei giovani che sicuramente avevano partecipato a quella piccola competizione.

Qualche momento dopo, la coppia di locali che sedeva all’ormai chiuso banchetto delle iscrizioni si vide venire incontro uno strano individuo completamente nascosto dietro ai suoi ingombranti vestiti, che chiese di poter partecipare a sua volta al torneo sfidando il vincitore in un incontro amichevole.

«Non si può fare, mi dispiace.» rispose uno dei due.

Al che lo sconosciuto si liberò del proprio fardello, rivelando un volto che lasciò i due uomini con gli occhi spalancati e la bocca socchiusa per lo stupore.

«Non potreste fare un’eccezione per me?».

 

Come già detto più volte, alla grande Octavia non si negava mai un favore.

E così, la sparuta folla riunitasi per assistere a quel piccolo torneo regionale di periferia ebbe il grande onore e piacere di veder comparire, per la prima volta dopo sei mesi, la leggendaria Octavia, ricomparsa dal nulla come un fantasma proprio un attimo prima che avesse inizio la premiazione.

La vincitrice, una ragazzina appena adolescente, non ci pensò due volte ad accettare la sfida, che sapeva persa in partenza, ma che nonostante tutto la eccitava al solo pensiero.

Inspiegabilmente, un attimo prima di entrare nella machina, la campionessa tergiversò, seguitando ad armeggiare per un po’ con la scheda di memoria contenente i dati del suo vessel, e quando finalmente comparve nell’arena quasi nessuno fece caso al suo improvviso quanto pittoresco cambiamento di look; i capelli, fluenti e biondissimi come tutti li ricordavano, erano ora racchiusi in una elegante e ricercata coda di cavallo, annodati sopra la nuca da una cordicella nera da cui pendeva una sorta di fermaglio a forma di punta di lancia.

Lo scontro fu breve, e dall’esito praticamente scritto, ma ciò che Helena trovò davvero speciale furono le emozioni che, già pochi attimi dopo il via dato dall’arbitro, presero come un fiume a scorrere dentro di lei.

Si stava divertendo.

Era felice.

Era questo che significava praticare il chandra.

Finalmente se ne era ricordata.

Ricordò i massacranti allenamenti, le notti in bianco, le maratone di studio, le interminabili corse, le fatiche dei lavori part-time, e dal profondo dell’animo sentì sgorgare un’esplosione di gioia, seguita subito dopo da una di profonda, totale serenità.

La battaglia finì nell’unico modo auspicabile, ma Helena, pur senza mancare di rispetto alla sua giovane avversaria, volle farla durare il più a lungo possibile; non voleva che quelle sensazioni bellissime l’abbandonassero, o voleva quantomeno imprimerle con forza nella sua mente, così da non dimenticarle mai più.

E quando la battaglia terminò, con la folla nuovamente raccolta attorno alla sua eroina preferita, Helena strinse la mano alla ragazza che aveva appena battuto, la quale, per nulla arrabbiata o delusa, era anzi ebbra di gioia.

«Riuscirò mai a diventare come lei?» le chiese

«Certo.» rispose Helena con un sorriso «Ma se vuoi diventare una grande chandrista, la cosa importante è non dimenticare mai chi sei.» e quale segno di buon augurio le regalò, imprimendone i dati sulla sua scheda di memoria, Etoile, il suo famoso stocco da battaglia, facendosi promettere che un giorno si sarebbero incontrate nuovamente per farselo restituire.

 

Qualche giorno dopo, Monagan, alla ricerca di un modo per far tornare in sé quella testa di legno che da settimane non voleva saperne di incontrarlo, si risolse ad entrare con la forza dentro casa sua, usando un passepartout che teneva con sé.

Entrato, però, non trovò nessuno, e fu sufficiente per lui guardarsi attorno per accorgersi che i libri, i suppellettili, e ogni altro effetto personale erano spariti.

L’appartamento era intonso, come il giorno in cui l’aveva regalato ad Helena, il letto fatto, le tende tirate e il pavimento pulito.

Ma soprattutto, era deserto.

L’uomo rimase basito, restando per alcuni minuti immobile al centro del salone, immerso in un silenzio assordante. Poi, Francine comparve alle sue spalle.

«Benvenuto, signor Raius. Ho un messaggio per lei dalla mia ex padrona.

Trovati un’altra campionessa».

 

«Avrei pagato per vedere la faccia di quel pallone gonfiato.»

«Immagino non gli abbia fatto piacere.»

«E adesso sei felice?»

«Diciamo che sto cercando di ricordarmi cosa significhi essere felici.»

«Sembri sulla buona strada. Se non altro, hai finito di piangerti addosso.

Ora combatti secondo le tue regole, senza che nessuno te lo imponga.

Hai pensato che aiutare le altre persone a non diventare come te, anche a costo di perdere tutto quello che possedevi, e che intimamente avevi sempre cercato, fosse il modo migliore per espiare alle tue colpe.

Ma d’altra parte, non puoi smettere di fare quello che ti appassiona, soprattutto ora che ti sei ricordata quanto ti piaccia.»

 

La folla, che in tutto quel tempo non aveva smesso un momento di rumoreggiare, di colpo si acquietò, come  nella calma che precede la tempesta.

Poi, una lucina rossa si accese sopra la porta d’ingresso.

Ancora una volta, l’ennesima, era giunto il suo momento. Il momento di scendere nell’arena.

Quanto a lungo Helena aveva aspettato di risentire quella specie di fastidioso, ma allo stesso tempo rassicurante, nodo allo stomaco, quell’ansia che una volta la colpiva ogni qualvolta si appressava il momento di combattere, e che negli ultimi anni aveva quasi dimenticato, tanto la sensazione di essere invincibile e l’aver scordato cosa fosse davvero per lei il chandra le avevano annebbiato il giudizio.

 

«Alla fine non era così difficile, vero?

Restituire dignità e significato a quel sogno.»

«Può darsi. Però, ora che ci penso, non mi hai ancora detto chi sei.»

«Solo qualcuno a cui piace ricordare e far ricordare.»

 

Senza esitazioni, la giovane donna si risolse finalmente a guardare alle proprie spalle, cercando di dare un volto a quella voce eterea con la quale aveva appena terminato di compiere quel suo lungo, e allo stesso tempo brevissimo, viaggio tra i ricordi di una vita, come alla ricerca di un modo per ricordare a sé stessa gli eventi che l’avevano condotta lì, in quel luogo così famigliare, ma che da un giorno all’altro aveva assunto ai suoi occhi un altro significato.

Giusto il tempo di riconoscere un paio di vispi occhi chiari, un’espressione sbarazzina, un volto piacevolmente ovale incorniciato da una folta ma abbastanza corta chioma scura, che un inatteso quanto inopportuno bussare alla porta la distrasse, e quando guardò nuovamente in quella direzione appoggiato alla parete, con quel fare sornione e sicuro di sé, non vi era più nessuno.

In quella stanza era sola.

Forse lo era sempre stata. O forse no.

Eppure, si sentiva felice.

«Signorina, è ora.»

«Sì.» disse con un sorriso sulla bocca e una lacrima negl’occhi «Arrivo».

 

La folla era quella delle grandi occasioni.

In fin dei conti, era pur sempre un incontro valido per il titolo mondiale.

Senza contare poi che non capitava spesso che fosse proprio il campione a mettere in gioco la propria corona proponendo egli stesso una sfida.

Dal canto suo, Warewolf, già in piedi accanto alla sua machina, ne aveva abbastanza.

Non ne poteva più di vivere all’ombra di chi l’aveva preceduto, o di essere additato come colui che aveva rubato il titolo senza meritarlo per il semplice fatto che il legittimo proprietario, al momento fatidico, aveva marcato visita sparendo nel nulla.

C’era un solo modo in cui poteva rivendicare il proprio ruolo di campione, ed era annichilire davanti agli occhi di tutto il mondo quella leggenda che per lui era come un’ombra diabolica della quale non riusciva a liberarsi.

Sapeva di non avere molte speranze, né tantomeno il sostegno del pubblico, ma confidava nei propri mezzi, come ogni chandrista degno di questo nome, e in caso di sconfitta era pronto ad accettarla con onore. Sarebbe voluto dire che non era ancora pronto per quel traguardo.

Il pubblico rumoreggiava, mentre le luci psichedeliche dell’arena viaggiavano nervosamente in ogni direzione, e quando queste si concentrarono tutte sul presentatore vi fu, per un istante, il silenzio più assoluto.

«Buonasera, signore e signori! Benvenuti alla Magic Arena! Questo è il momento che tutto il mondo aspettava da tempo! Finalmente, scopriremo chi è il solo, unico e vero campione del mondo in carica!

I due pretendenti stasera saranno l’uno di fronte all’altro, e tra quindici minuti esatti incoroneremo il solo e vero re del chandra!

Per il titolo mondiale! Alla mia sinistra, nell’angolo rosso, lo sfidante, nonché attuale campione in carica! Lo spietato uomo lupo! Warewolf!».

Vi furono  molti applausi ed acclamazioni; dopotutto si trattava comunque di un grande campione, dalle indubbie qualità umane, e lo provava il fatto che avesse avuto il coraggio di mettersi in gioco proponendo lui stesso quella sfida.

Ma poi, tutto tornò improvvisamente silenzioso.

«E alla mia destra! Nell’angolo blu! Dopo sei mesi di oscuro oblio! Come uno spettro dimenticato che torna da un passato lontano ma anche molto vicino! L’eroina delle giovani generazioni! La campionessa perduta! La Rosa di Kyrador!

Signore e signori, Ooooooctaviaaaaaaa!».

Le luci si spensero un istante, e come si riaccesero tutte insieme sull’ingresso del tunnel la folla minacciò di far crollare lo stadio sotto il fragore assordante delle urla.

Octavia era lì, di nuovo in mezzo a loro, con quella sua aria sprezzante e sicura, quell’andatura fiera, e quel portamento da vera campionessa.

Eppure, c’era qualcosa di diverso; per chi poté o volle guardarla negli occhi, la sua espressione aveva un che di malinconico, per non dire di umile; ricordava l’Octavia dei primi anni, quella che era nelle memorie solo dei veri ammiratori, che l’avevano seguita fin dai suoi esordi nel professionismo, quando ancora non era nessuno, e si trovava spesso ad affrontare avversari molto più famosi e preparati di lei.

Ma non importava. L’importante era che lei fosse lì, tutta per loro. La folla era impazzita; soprattutto il pubblico femminile, ed in particolare quello appartenente ai suoi numerosi fan club, non smetteva un momento di evocare il suo nome, quasi che chiamarla volesse dire possederla.

«O-cta-via! O-cta-via! O-cta-via!».

La giovane si approssimò all’arena, ritrovandosi a tu per tu con quell’avversario che a suo tempo aveva ignorato, e che la guardò con un misto di sfida ed ammirazione, porgendole infine la mano.

«È un onore conoscerti.» le disse.

Lei lo fissò un momento stupita, poi, sorridendo, ricambiò la stretta.

«Anche per me. Ti chiedo scusa per come mi sono comportata l’ultima volta.»

«Non importa.» scherzò lui «Recupereremo stasera. È per questo che siamo qui, dopotutto.»

«Già».

A quel punto, venne il momento di combattere.

Helena entrò nella machina, e mente il portello si richiudeva sopra di lei ripensò per un attimo alla prima volta, in quella palestra scalcinata; le tornarono in mente la determinazione e le speranze, ma anche l’ansia, la paura di non farcela, e quella mano sempre pronta a sostenerla, che le dava il coraggio e la forza di andare avanti senza neanche, forse, rendersene conto. E allora, le venne da sorridere.

Quando fu al centro dell’arena, alzò gli occhi verso l’alto, verso le stelle, appena visibili oltre il soffitto trasparente dello stadio e le infinite luci di Kyrador, alla ricerca della sua stella, quel puntino luminoso che apparteneva solo a lei e che sapeva essere lassù, da qualche parte. Era passato tanto tempo, e molte cose erano successe. Ma non avrebbe più dimenticato. Non voleva più dimenticare.

«E ora, signore e signori!» annunciò esaltato il presentatore «Let’s chandra!».

 

 

Nota dell’Autore

Eccoci dunque alla fine di questa storia (si fa per dire) breve.

Effettivamente è molto più lunga di quanto mi fossi inizialmente immaginato, ma pensandoci ora devo ammettere che se l’avessi sviluppata interamente come appariva di volta in volta nei miei pensieri man mano che scrivevo ne sarebbe venuto fuori un romanzo parallelo, tanti e tali erano gli argomenti e le tematiche da trattare.

Di certo non sarà l’unica storia con protagonista Helena, o comunque in cui la campionessa non svolga un ruolo di una certa rilevanza, così come senza dubbio vi saranno altri racconti dedicati al mondo del chandra.

Ora sto lavorando ad altre due storie, sempre nell’ambito dei vari contest cui sto partecipando.

E mi raccomando, fatemi sapere sempre cosa pensate!^_^

A presto!^_^

Carlos Olivera

  
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