PARTE V
Helena non riuscì a trattenersi,
e nascosto il viso dietro le mani si lasciò andare ad un pianto disperato,
gettando fuori quel dolore la dilaniava ogni qualvolta quelle immagini
tornavano a ripresentarsi nella sua mente.
«Perché piangi? Non è mica stata
colpa tua.»
«Dovevo fermarla! Non dovevo
permetterglielo! Se avessi avuto un briciolo di giudizio, se non fossi stata
così cieca, lei non sarebbe diventata quella… quella
cosa! Non sarebbe morta!
Ho spezzato il legame che avevo
promesso di mantenere per tutta la vita! Ho ucciso la mia migliore amica! L’ho
uccisa, io! Con queste mie mani!»
«Ognuno è artefice del suo
destino. Lo dicevi spesso una volta.»
«Questo dovrebbe farmi sentire
meglio?»
«È per questo che dopo quella
volta Helena, scusa, Octavia, è sparita dal mondo?»
«Con che coraggio avrei potuto
farmi rivedere in giro? Ora che finalmente avevo capito in che razza di mondo
ero finita? Da un istante all’altro, tutto mi sembrò inutile.
Il mio prestigio, la mia fama, i
miei soldi. Persino quel sedicente, maledetto sogno. Era tutta spazzatura! Io
ero spazzatura!»
«Finché non è arrivata lei.»
La giovane donna parve calmarsi,
e spalancò gli occhi in un senso come di stupore.
«Già. Lei. Ancora mi domando
come sia stato possibile».
Il mondo rimase
di stucco quando Octavia, la campionessa in carica, mancò all’ultimo la
partecipazione allo scontro per la difesa del suo titolo al termine dell’ultimo
campionato mondiale, perdendo di fatto la sua corona senza neppure essere scesa
nell’arena.
Ma
questo all’interessata non importava. Helena non voleva avere più nulla a che
fare con quel mondo.
Ma
d’altra parte, non poteva neanche tornare nel vecchio, al quale ormai non
apparteneva più.
Non
sapeva più niente. Non aveva certezze, né idee, né sensazioni.
Si
sentiva vuota. Come la sua casa, quel castello delle fiabe nel quale, da un
giorno all’altro, si rinchiuse, isolata dal mondo, lontana da tutto ciò che
aveva inseguito e cercato per tutta la vita, dagli affetti morali e materiali.
Sola.
Come sentiva di essere rimasta al mondo.
Passò
molto tempo, non sapeva quanto esattamente.
Era
un pomeriggio come tutti gli altri.
Helena
sedeva nel suo salotto, le tende tirate e le luci accese, gli occhi come persi
nel vuoto, che di tanto in tanto andavano a posarsi senza attenzione sul libro
che la ragazza aveva poggiato sulle ginocchia. Non ricordava neppure di che
libro si trattasse, tanto distrattamente lo aveva recuperato dal ripiano
appoggiato alla parete alle sue spalle.
D’un
tratto, Francine comparve al centro della stanza. I
suoi tratti erano cambiati; Helena aveva voluto cambiarli, anche se il perché
lei stessa non riusciva a comprenderlo: forse voleva illudersi che tutto fosse
ancora come prima, almeno un po’, o forse non voleva correre il rischio, semmai
fosse stato possibile, di dimenticare il suo peccato.
«Signorina,
hanno suonato alla porta.»
«Non
voglio vedere nessuno.» rispose Helena girandosi dall’altra parte «Né giornalisti
né nessun altro. Se è Monagan, poi, digli pure di andare al diavolo.»
«Come
desidera».
La
ragazza mora scomparve, per poi ricomparire qualche secondo dopo.
«Non
si tratta di ammiratori o giornalisti. È un agente della MAB. Una signorina. O
almeno così dice, visto che non ha potuto esibire il proprio distintivo».
Helena
ebbe come un momento di stupore: che cosa voleva da lei la forza di polizia
internazionale, che qualcuno definiva in realtà una vera e propria
organizzazione militare con funzioni civili, incaricata di vigilare sulla
prosperità del mondo assicurando il corretto uso della magia?
«Non
mi interessa.» sentenziò stizzita «Mandala via.»
«Ci
ho provato, ma dice che è molto urgente. Deve conferire assolutamente con lei».
Helena
si passò una mano tra i capelli, sbuffando contrariata.
«E
va bene, falla entrare».
Pochi
attimi dopo, dinnanzi a lei si palesò una ragazzina dall’aria spesata,
abbastanza minuta ma non per questo gracile, capelli marrone chiaro tagliati
piuttosto corti e grandi occhi verdi.
A
guardarla così, quasi tremante di soggezione, tutto sembrava meno che un
poliziotto.
Cercando
di non darlo a vedere, senza in verità riuscirci, la nuova arrivata si guardò
attorno; tutte le tende erano tirate, le luci ridotte al minimo indispensabile.
Sembrava la dimora di un vampiro, che rifuggiva il sole per timore di venirne
consumato.
«Scusi
il disturbo.» disse quasi a volersi giustificare «Sono l’agente Carmy O’Neill, della polizia militare.»
«So
chi siete.» tagliò corto Helena fissandola dritta in volto «Ha detto di dovermi
parlare con urgenza. Di che si tratta?».
Carmy
temporeggiò, colta dall’imbarazzo.
Il
suo silenzio parve incuriosì Helena, che si alzò dalla poltrona per avvicinarsi
e guardarla più da vicino.
«Certo
non sembra davvero un agente di polizia.»
«Me
lo dicono spesso.» replicò d’istinto Carmy, non sapeva se per sdrammatizzare o
cercare di calmare l’imbarazzo.
Helena
continuò a fissarla, e infine tornò sui propri passi.
«Francine.» disse sedendosi, e facendo accomodare anche la
sua ospite.
La
donna virtuale comparve nuovamente.
«Desiderate,
signorina?»
«Prepara
del caffè.»
«Come
volete.»
«Uno
spectre.» disse un po’ incredula Carmy vedendo la
proiezione sparire e la caffettiera che, subito dopo, si metteva in funzione da
sola.
«Non
sono mai stata brava nelle faccende domestiche. E ultimamente, come può
immaginare, non ho molta voglia di avere
gente che gira per casa. Lei lavora al posto mio.»
«Potessi
avercela anch’io un’aiutante così. La mia coinquilina ha il disordine nel
sangue, e spesso devo sistemare la casa per tutte e due ogni domenica.»
Il
fischio della caffettiera interruppe il discorso, ed Helena si alzò dalla
poltrona per andare in cucina.
Quando
rientrò in salotto, trovò la sua ospite in piedi accanto alla libreria, con in
mano quella foto ormai sbiadita che il signor Boniek aveva assistito per fare
alle sue allieve preferite nel giorno in cui aveva consegnato loro le tessere
CFC.
«È
una chandrista?»
«In
un certo qual modo».
Carmy
guardò un’altra volta l’immagine.
«Io
non seguo molto il chandra, ma non mi pare di averla mai vista. È da molto che
pratica questo sport?»
«Abbiamo
iniziato insieme. Ma ormai è da circa sei mesi che non è più in grado di
calcare l’arena».
Solo
allora Carmy si accorse che le mani di Helena tremavano.
«Mi
dispiace.» si affrettò a dire «Non sono affari miei, dopotutto».
Non
capiva cosa le stesse succedendo, ma sentiva qualcosa dentro di lei, come una
specie di calore. Era una sensazione famigliare, e ogni qualvolta le capitava
di incrociare gli occhi spauriti ma gentili della giovane agente la sentiva un
po’ più forte; posato il vassoio sul tavolino, si avvicinò alla vetrata e
scostò leggermente la tenda, quanto bastava per far entrare nella stanza pochi
raggi di luce.
Ormai
si appressava il tramonto, e quanto rimaneva del sole aveva già iniziato a
scomparire dietro i grattacieli, che avvolgevano Heaven’s
Gate come le sbarre di una gabbia, proiettando lunghe
ombre sulle strade sottostanti e i marciapiedi affollati di pedoni.
«Siamo
cresciute insieme.» disse cercando di scorgere il sole oltre i palazzi
«Vivevamo nello stesso quartiere. Immagino sappia a che cosa mi riferisco.»
«Credo
di sì.» rispose timidamente Carmy.
Fu
a quel punto che accadde qualcosa che Helena non avrebbe mai immaginato.
Non
capiva perché, e non riuscì a capirlo per tutti i minuti successivi, ma parlò.
Come
se una chiave invisibile avesse aperto il lucchetto del suo cuore, lasciò
uscire tutte quelle parole, quei pensieri, quei ricordi che aveva accumulato in
tutta la sua vita, e che per tanti anni si era gelosamente tenuta dentro, un
bagaglio emotivo che pensava non avrebbe mai condiviso con nessuno.
Perché
lo fece, non le era dato di comprenderlo.
Quella
ragazza, Carmy, per un attimo le era sembrata come lei. Nei suoi occhi, oltre
alla semplicità e alla gentilezza, aveva letto anche l’indecisione: quella
specie di ombra che si addensa solitamente negli occhi dei nuovi adulti, ancora
insicuri della vita e non del tutto certi della strada da percorrere.
Proprio
come si era sentita lei quando il mondo le era caduto addosso.
Raccontò
tutto, persino ciò che nessun’altro sapeva, persino il suo segreto più nero,
come se una parte di lei non aspettasse altro che trovare qualcuno con cui
dividere quei tremendi ricordi, per alleggerirsi la coscienza ed evitarle di
impazzire.
Carmy
ascoltò, senza commentare né giudicare in alcun modo il contenuto di quella
specie di confessione, e quando il racconto ebbe fine stette a lungo ad
osservare Helena che, come sotto ipnosi, fissava senza sosta le proprie mani tremanti.
«Non
ho mai saputo nulla di questa storia.» disse Carmy cercando di trovare le
parole «Ero alla Magic Arena solo poche ore fa, e
nessuno ne ha mai fatto parola.»
«È
naturale.» rispose Helena con la più ironica rassegnazione «Anche se nessuno a
parte Luna teoricamente ne aveva colpa, se una cosa del genere si fosse venuta
a sapere sarebbero stati in molti a pagarne le conseguenze. La società che
gestisce lo stadio. Quelle che finanziano i grandi tornei. I gruppi industriali
che hanno creato i sistemi informatici, le machina e l’arena virtuale. Persino
i miei sponsor».
Le
sue mani, da tremanti che erano, si irrigidirono di colpo, facendosi come di
pietra, e serrandosi con tale vigore attorno alla tazza da farla scricchiolare.
«Prima
di allora non avevo mai visto tutte quelle serpi maledette andare così
d’accordo su cosa fare e come.
Tutta
la vicenda fu fatta passare sotto silenzio. Ufficialmente nessuno seppe mai
cosa era accaduto in quell’arena. Fu come se Luna Warner non fosse mai
esistita. Quanto a me, non ebbi il coraggio neanche di andare al suo funerale.
Mi
sarebbe sembrato il più ipocrita dei gesti. Non sono mai riuscita neanche ad
andare al cimitero».
Helena sentì il cuore iniziare a battere un po’ più
forte, accompagnato da una sensazione di freddo.
«Da
quel giorno, non me la sono più sentita.» disse rassegnata posando la tazzina
«Ho tagliato ogni ponte, ogni legame. E sono venuta qui, da sola. A fare o ad
aspettare che cosa, non lo so».
Fece
una pausa, nascondendo un momento il volto dietro una mano.
«Spesso
si passa così tanto tempo ad inseguire le proprie aspirazioni che non si tiene
conto del fatto che ogni cosa, anche i sogni che rincorriamo a volte per tutta
la vita, hanno il loro rovescio della medaglia.
Denaro.
Fama. Gloria. Ammiratori. Quando mi allenavo in una palestra sgangherata con
machina tenute insieme per miracolo sono arrivata al punto da non pensare ad
altro che al giorno in cui avuto tutto questo. E ora che ce l’ho, quasi non so
che cosa farmene.
Luna
era diversa. Anche lei voleva ascendere, ma a differenza di me non è mai
arrivata a considerare il chandra solo uno strumento. Anzi, probabilmente
sarebbe stata disgustata dal vedere quello che è in realtà lo sport per il
quale ha faticato fino a rimetterci la vita.»
Carmy
sembrava a disagio, ed Helena lesse nel suo sguardo ciò che in realtà aveva già
intuito: l’indecisione di chi non sa quali decisioni prendere e si domanda il
senso di quelle già prese. Eppure, a differenza di lei, non sembrava esservi
rassegnazione o sconforto nei suoi occhi, ma solo tanta speranza.
«Anche
io sono venuta in questa città per realizzare un sogno. Anche per me non è
stato facile, ma a differenza di lei la mia è una famiglia abbastanza
benestante, con delle ideologie piuttosto intransigenti. Mio padre ha sempre
contestato il sistema in cui viviamo, e nonostante i miei tentativi non sono
mai riuscita a fargli comprendere che se avevo accettato di farne parte non era
perché lo approvassi, ma perché volevo cercare di migliorarlo.»
«E
ci è riuscita?»
«Non
credo. E onestamente, dubito di riuscirci mai».
Seguì
un lungo silenzio. Le due ragazze si osservarono l’un l’altra, cercando di
cogliere i rispettivi pensieri.
«Comunque,
io non ho intenzione di tornare indietro sulla mia decisione. Che mio padre lo
accetti o meno, e per quanto difficile possa essere, non posso gettare al vento
tutto quello che ho fatto per arrivare fino a qui.
E,
se posso permettermi, non dovrebbe farlo neanche lei.»
«Come?»
replicò Helena interdetta
«Non
credo di poter comprendere davvero quello che prova, ma da come me ne ha
parlato è evidente che il chandra le piace ancora, così come piaceva a Luna. Ha
passato tutta la sua vita ad inseguire l’obiettivo che si era prefissata, e ora
che ha finalmente ottenuto quello che desiderava non le sembra stupido gettare
via tutto?».
Helena
batté violentemente il pugno sul tavolino, colta da una furia improvvisa.
«Tu
non capisci. Con che coraggio potrei far finta che non sia successo niente e
tornare alla mia vecchia vita? Dopo quello che ho fatto? Dopo quello che sono
diventata?»
«Nessuno
ha detto che deve dimenticare.» rispose Carmy per nulla intimorita «Farlo
sarebbe il vero crimine. Il fatto che questa storia la faccia soffrire così
tanto è la prova che i suoi sentimenti e il suo animo non sono così avvizziti
come lei crede».
Detto
questo Carmy prese fuori dalla tasca della giacca una piccola scheda virtuale
contente la versione documentario del secondo campionato del mondo al quale
aveva partecipato, quello in cui aveva difeso con successo il suo titolo di
campionessa del mondo in carica.
«Ci
sono molte persone, molti ragazzi pieni di sogni come i suoi, che la ammirano e
credono in lei. Pensa davvero che la adorerebbero così tanto se la vedessero
sotto la luce in cui lei si vede ora? Persino Luna ha continuato a credere in
lei fino all’ultimo, senza mai dubitare del vostro legame o della sua forza
d’animo».
Helena
rimase in silenzio, gli occhi spalancati e l’espressione attonita.
Era
incredibile. Si stava facendo dare lezioni di vita da una ragazzina più giovane
di lei, e la cosa più incredibile era il dover ammettere che quella specie di
agente per caso aveva ragione.
«Sono
consapevole che la sua è stata un’esperienza terribile. Chiunque ne sarebbe
rimasto schiacciato. Il consiglio che mi sento di darle è, invece che
permettere al senso di colpa e al rimorso di sopraffarla, provi a fare tesoro
di quanto successo per riscoprire ciò che realmente l’ha portata fin qui».
Carmy
guardò nuovamente la foto, e anche Helena fece altrettanto.
«Non
pensa che Luna lo avrebbe voluto? In fin dei conti, ora sta a lei portare
avanti ciò in cui entrambe avete creduto».
Ci
fu un nuovo, lungo silenzio, poi Helena si alzò dalla poltroncina, si avvicinò
nuovamente alle tende e spinse un pulsante, aprendole. In lontananza si
intravedeva la Magic Arena, una cupola specchiata che
si stagliava al centro di un grande parco.
«Come
ha fatto una come te a finire nella MAB?» domandò in tutta schiettezza, e
riuscendo perfino ad abbozzare un sorriso «Sembri davvero troppo semplice e
onesta per accompagnarti a gente simile.»
«Nella
MAB ci sono persone indegne del ruolo che ricoprono. Ma è così in ogni
istituzione, come immagino lei saprà molto bene. È nella natura umana che
qualcuno anteponga sempre e comunque i propri interessi al bene della
collettività o al proprio dovere. Ma può credermi se le dico che c’è anche
tanta gente perbene, che ama il proprio lavoro e si adopera davvero per aiutare
questa società.»
«Sembra
quasi impossibile. Ma vedendo te, mi viene da pensare che forse potresti anche
avere ragione».
Carmy
sorrise, alzandosi a sua volta.
«Allora?»
disse nuovamente Helena «Se non sbaglio non mi hai ancora detto per quale
motivo sei venuta qui.»
«Accidenti,
è vero!» esclamò Carmy cadendo dalle nuvole «Effettivamente, avrei bisogno di
una piccola cortesia da parte sua.»
«E
cioè?».
Helena,
sentendo di che si trattava, quasi sorrise.
Tutto
per colpa di un autografo.
Quella
ragazza era così svampita e fuori dal mondo da essersi dimenticata del
compleanno di sua sorella, e non avendo altre idee aveva pensato bene di
regalarle la cosa che più di ogni altra l’avrebbe resa felice.
Ne
aveva firmati tantissimi, ma quello che impresse sulla copertina di quella
scheda, accompagnato da una dedica personale vergata velocemente su di un foglietto
per una potenziale futura campionessa, ebbe un sapore speciale.
Non
era come le migliaia di altri che aveva firmato; farlo le fece piacere.
«La
ringrazio infinitamente.» disse Carmy, che subito dopo corse via veloce come il
fulmine, lasciando Helena sola a riflettere sulla sua vita.
«Un incontro voluto dal destino,
si potrebbe dire.»
«Mi avevano sempre detto che la
MAB era la polizia dei potenti. I cani sciolti di questo sistema in cui viviamo
che si finge perfetto ma esalta e premia il peggio dell’essere umano.
Vedendo lei, mi sono chiesta se
a volte la gente non tenda un po’ troppo a giudicare senza conoscere davvero.»
«Più o meno come avevi fatto con
te stessa, dico bene?»
La giovane donna sussultò,
quindi, sorridendo ironica, si ritrovò a fissare il pavimento, le mani
incrociate come in preghiera e poggiate sulle ginocchia e le gambe accavallate.
«Di certo, non ero esente da
colpe. Ma avevo passato tanto di quel tempo ad auto commiserarmi, da aver
smarrito qualsiasi obiettivo. Non sapevo più niente.
Dapprincipio non cambiò nulla. O
meglio, credevo non fosse cambiato nulla. Ma in realtà, quella ragazza aveva
acceso qualcosa in me. Mi aveva fatto capire che non era tutto da buttare via.
Potevo recuperare i cocci della mia vita e andare avanti.
Lì per lì, però, non me ne resi
conto subito. Ci voleva qualcosa di più. Un’ultima spinta.
E fu così bello provare di nuovo
quella sensazione».
Per giorni, le
parole della giovane agente della MAB non smisero un momento di risuonare nella
mente di Helena.
Da
un lato, voleva credere che anche per lei ci fosse una seconda possibilità, un
modo per raddrizzare la propria vita, dall’altra sentiva di non meritarla, non
dopo essersi lasciata corrompere e aver ucciso la sua migliore amica.
Ma
qualcosa dentro di lei sembrava essere scattato.
Una
mattina, quasi mossa da una forza sovrannaturale più grande di lei, dopo una
notte passata in bianco a sfogliare l’album delle vecchie foto ritrovato chissà
come sepolto in un armadio, si alzò, si coprì, infilò un cappello dalla fodera
larga, un paio di occhiali, si sciolse i capelli, si abbottonò un cappotto ed
uscì.
Quella
forza che la guidava seguitò ad agire per lei, facendola prima perdere per gli
affollati marciapiedi e poi scivolare silenziosa a bordo prima di un treno e
poi di una corriera, restituendole il raziocinio solo quando fu dinnanzi al
cimitero del villaggio di Jakup, paese natale della
famiglia Warner.
Quasi
non riuscì a credere di trovarsi proprio lì, ma pur sentendosi nuovamente
padrone della sua volontà varcò comunque il cancello, scrutando con gli occhi
le lapidi più recenti fino a fermarsi dinnanzi ad una un po’ più piccola delle
altre, sovrastata dalla statuetta di un angelo con una mano rivolta al cielo e
l’altra stretta attorno ad una lancia la cui punta arrivava quasi a lambire il
terreno.
Non
dovette leggere il nome inciso sopra per capire che era quella la tomba che
stava cercando.
Vi
sostò davanti per molte ore, senza proferire parola, e per quanto ci provasse
non le riuscì di piangere.
Sembrava
che qualcuno, forse la stessa forza che l’aveva condotta lì, le impedisse di
farlo, quasi a volerle rammentare che quello non era il momento del pianto, ma
del riscatto.
Una
vita era andata perduta. Ma la sua, forse, era ancora recuperabile.
Poteva,
anzi, doveva riprenderla nelle sue mani; perché ora la vita che stava vivendo
non era più solo la sua. Da quel giorno per lei sarebbe stato come condurre due
esistenze parallele, e la seconda in particolare aveva ancora troppe cose da
fare per lasciarsi andare senza reagire.
Come
riuscirci, però, non lo sapeva.
Per
quanto ci provasse, Helena non riusciva a capire in che modo potesse riuscire
ad andare avanti.
E
nuovamente, il destino ci mise del suo.
Deposto
sulla tomba un fiore raccolto da terra, la giovane donna lasciò in silenzio il
cimitero, ed incamminatasi senza meta per le strade del paese in cerca di una
risposta i suoi passi la condussero fuori da quella che aveva tutta l’aria di
essere una festa campagnola, poco più di una sagra, che qualcuno aveva voluto
rendere speciale aggiungendovi un piccolo torneo di chandra.
La
competizione doveva essersi appena conclusa, perché a sentire la voce del
presentatore il vincitore a breve sarebbe stato chiamato sul palco per ritirare
il suo premio, e di nuovo quella sensazione di calore si accese nel petto di
Helena.
Una
serie di immagini le passarono come d’incanto davanti agli occhi, immagini
lontane di un passato felice, fatto di duro allenamento, tanta fatica, ma anche
molte speranze, speranze ingenue forse, ma sincere e pure, come quelle dei
giovani che sicuramente avevano partecipato a quella piccola competizione.
Qualche
momento dopo, la coppia di locali che sedeva all’ormai chiuso banchetto delle
iscrizioni si vide venire incontro uno strano individuo completamente nascosto
dietro ai suoi ingombranti vestiti, che chiese di poter partecipare a sua volta
al torneo sfidando il vincitore in un incontro amichevole.
«Non
si può fare, mi dispiace.» rispose uno dei due.
Al
che lo sconosciuto si liberò del proprio fardello, rivelando un volto che
lasciò i due uomini con gli occhi spalancati e la bocca socchiusa per lo
stupore.
«Non
potreste fare un’eccezione per me?».
Come già detto
più volte, alla grande Octavia non si negava mai un favore.
E
così, la sparuta folla riunitasi per assistere a quel piccolo torneo regionale
di periferia ebbe il grande onore e piacere di veder comparire, per la prima
volta dopo sei mesi, la leggendaria Octavia, ricomparsa dal nulla come un
fantasma proprio un attimo prima che avesse inizio la premiazione.
La
vincitrice, una ragazzina appena adolescente, non ci pensò due volte ad
accettare la sfida, che sapeva persa in partenza, ma che nonostante tutto la
eccitava al solo pensiero.
Inspiegabilmente,
un attimo prima di entrare nella machina, la campionessa tergiversò, seguitando
ad armeggiare per un po’ con la scheda di memoria contenente i dati del suo
vessel, e quando finalmente comparve nell’arena quasi nessuno fece caso al suo
improvviso quanto pittoresco cambiamento di look; i capelli, fluenti e
biondissimi come tutti li ricordavano, erano ora racchiusi in una elegante e
ricercata coda di cavallo, annodati sopra la nuca da una cordicella nera da cui
pendeva una sorta di fermaglio a forma di punta di lancia.
Lo
scontro fu breve, e dall’esito praticamente scritto, ma ciò che Helena trovò
davvero speciale furono le emozioni che, già pochi attimi dopo il via dato
dall’arbitro, presero come un fiume a scorrere dentro di lei.
Si
stava divertendo.
Era
felice.
Era
questo che significava praticare il chandra.
Finalmente
se ne era ricordata.
Ricordò
i massacranti allenamenti, le notti in bianco, le maratone di studio, le
interminabili corse, le fatiche dei lavori part-time, e dal profondo dell’animo
sentì sgorgare un’esplosione di gioia, seguita subito dopo da una di profonda,
totale serenità.
La
battaglia finì nell’unico modo auspicabile, ma Helena, pur senza mancare di
rispetto alla sua giovane avversaria, volle farla durare il più a lungo
possibile; non voleva che quelle sensazioni bellissime l’abbandonassero, o
voleva quantomeno imprimerle con forza nella sua mente, così da non
dimenticarle mai più.
E
quando la battaglia terminò, con la folla nuovamente raccolta attorno alla sua
eroina preferita, Helena strinse la mano alla ragazza che aveva appena battuto,
la quale, per nulla arrabbiata o delusa, era anzi ebbra di gioia.
«Riuscirò
mai a diventare come lei?» le chiese
«Certo.»
rispose Helena con un sorriso «Ma se vuoi diventare una grande chandrista, la cosa importante è non dimenticare mai chi
sei.» e quale segno di buon augurio le regalò, imprimendone i dati sulla sua
scheda di memoria, Etoile, il suo famoso stocco da battaglia, facendosi
promettere che un giorno si sarebbero incontrate nuovamente per farselo
restituire.
Qualche giorno
dopo, Monagan, alla ricerca di un modo per far tornare in sé quella testa di
legno che da settimane non voleva saperne di incontrarlo, si risolse ad entrare
con la forza dentro casa sua, usando un passepartout che teneva con sé.
Entrato,
però, non trovò nessuno, e fu sufficiente per lui guardarsi attorno per
accorgersi che i libri, i suppellettili, e ogni altro effetto personale erano
spariti.
L’appartamento
era intonso, come il giorno in cui l’aveva regalato ad Helena, il letto fatto,
le tende tirate e il pavimento pulito.
Ma
soprattutto, era deserto.
L’uomo
rimase basito, restando per alcuni minuti immobile al centro del salone,
immerso in un silenzio assordante. Poi, Francine
comparve alle sue spalle.
«Benvenuto,
signor Raius. Ho un messaggio per lei dalla mia ex padrona.
Trovati un’altra campionessa».
«Avrei pagato per vedere la
faccia di quel pallone gonfiato.»
«Immagino non gli abbia fatto
piacere.»
«E adesso sei felice?»
«Diciamo che sto cercando di
ricordarmi cosa significhi essere felici.»
«Sembri sulla buona strada. Se
non altro, hai finito di piangerti addosso.
Ora combatti secondo le tue
regole, senza che nessuno te lo imponga.
Hai pensato che aiutare le altre
persone a non diventare come te, anche a costo di perdere tutto quello che
possedevi, e che intimamente avevi sempre cercato, fosse il modo migliore per
espiare alle tue colpe.
Ma d’altra parte, non puoi
smettere di fare quello che ti appassiona, soprattutto ora che ti sei ricordata
quanto ti piaccia.»
La folla, che in tutto quel tempo non aveva smesso un
momento di rumoreggiare, di colpo si acquietò, come nella calma che precede la tempesta.
Poi, una lucina rossa si accese
sopra la porta d’ingresso.
Ancora una volta, l’ennesima,
era giunto il suo momento. Il momento di scendere nell’arena.
Quanto a lungo Helena aveva
aspettato di risentire quella specie di fastidioso, ma allo stesso tempo
rassicurante, nodo allo stomaco, quell’ansia che una volta la colpiva ogni
qualvolta si appressava il momento di combattere, e che negli ultimi anni aveva
quasi dimenticato, tanto la sensazione di essere invincibile e l’aver scordato
cosa fosse davvero per lei il chandra le avevano annebbiato il giudizio.
«Alla fine non era così
difficile, vero?
Restituire dignità e significato
a quel sogno.»
«Può darsi. Però, ora che ci
penso, non mi hai ancora detto chi sei.»
«Solo qualcuno a cui piace
ricordare e far ricordare.»
Senza esitazioni, la giovane donna si risolse finalmente a
guardare alle proprie spalle, cercando di dare un volto a quella voce eterea
con la quale aveva appena terminato di compiere quel suo lungo, e allo stesso
tempo brevissimo, viaggio tra i ricordi di una vita, come alla ricerca di un
modo per ricordare a sé stessa gli eventi che l’avevano condotta lì, in quel
luogo così famigliare, ma che da un giorno all’altro aveva assunto ai suoi
occhi un altro significato.
Giusto il tempo di riconoscere
un paio di vispi occhi chiari, un’espressione sbarazzina, un volto
piacevolmente ovale incorniciato da una folta ma abbastanza corta chioma scura,
che un inatteso quanto inopportuno bussare alla porta la distrasse, e quando
guardò nuovamente in quella direzione appoggiato alla parete, con quel fare
sornione e sicuro di sé, non vi era più nessuno.
In quella stanza era sola.
Forse lo era sempre stata. O
forse no.
Eppure, si sentiva felice.
«Signorina, è ora.»
«Sì.» disse con un sorriso sulla
bocca e una lacrima negl’occhi «Arrivo».
La folla era
quella delle grandi occasioni.
In
fin dei conti, era pur sempre un incontro valido per il titolo mondiale.
Senza
contare poi che non capitava spesso che fosse proprio il campione a mettere in
gioco la propria corona proponendo egli stesso una sfida.
Dal
canto suo, Warewolf, già in piedi accanto alla sua
machina, ne aveva abbastanza.
Non
ne poteva più di vivere all’ombra di chi l’aveva preceduto, o di essere
additato come colui che aveva rubato il titolo senza meritarlo per il semplice
fatto che il legittimo proprietario, al momento fatidico, aveva marcato visita
sparendo nel nulla.
C’era
un solo modo in cui poteva rivendicare il proprio ruolo di campione, ed era
annichilire davanti agli occhi di tutto il mondo quella leggenda che per lui
era come un’ombra diabolica della quale non riusciva a liberarsi.
Sapeva
di non avere molte speranze, né tantomeno il sostegno del pubblico, ma
confidava nei propri mezzi, come ogni chandrista
degno di questo nome, e in caso di sconfitta era pronto ad accettarla con
onore. Sarebbe voluto dire che non era ancora pronto per quel traguardo.
Il
pubblico rumoreggiava, mentre le luci psichedeliche dell’arena viaggiavano
nervosamente in ogni direzione, e quando queste si concentrarono tutte sul
presentatore vi fu, per un istante, il silenzio più assoluto.
«Buonasera,
signore e signori! Benvenuti alla Magic Arena! Questo
è il momento che tutto il mondo aspettava da tempo! Finalmente, scopriremo chi
è il solo, unico e vero campione del mondo in carica!
I
due pretendenti stasera saranno l’uno di fronte all’altro, e tra quindici
minuti esatti incoroneremo il solo e vero re del chandra!
Per
il titolo mondiale! Alla mia sinistra, nell’angolo rosso, lo sfidante, nonché
attuale campione in carica! Lo spietato uomo lupo! Warewolf!».
Vi
furono molti applausi ed acclamazioni;
dopotutto si trattava comunque di un grande campione, dalle indubbie qualità
umane, e lo provava il fatto che avesse avuto il coraggio di mettersi in gioco
proponendo lui stesso quella sfida.
Ma
poi, tutto tornò improvvisamente silenzioso.
«E
alla mia destra! Nell’angolo blu! Dopo sei mesi di oscuro oblio! Come uno
spettro dimenticato che torna da un passato lontano ma anche molto vicino! L’eroina
delle giovani generazioni! La campionessa perduta! La Rosa di Kyrador!
Signore
e signori, Ooooooctaviaaaaaaa!».
Le
luci si spensero un istante, e come si riaccesero tutte insieme sull’ingresso
del tunnel la folla minacciò di far crollare lo stadio sotto il fragore
assordante delle urla.
Octavia
era lì, di nuovo in mezzo a loro, con quella sua aria sprezzante e sicura,
quell’andatura fiera, e quel portamento da vera campionessa.
Eppure,
c’era qualcosa di diverso; per chi poté o volle guardarla negli occhi, la sua
espressione aveva un che di malinconico, per non dire di umile; ricordava
l’Octavia dei primi anni, quella che era nelle memorie solo dei veri
ammiratori, che l’avevano seguita fin dai suoi esordi nel professionismo,
quando ancora non era nessuno, e si trovava spesso ad affrontare avversari
molto più famosi e preparati di lei.
Ma
non importava. L’importante era che lei fosse lì, tutta per loro. La folla era
impazzita; soprattutto il pubblico femminile, ed in particolare quello
appartenente ai suoi numerosi fan club, non smetteva un momento di evocare il
suo nome, quasi che chiamarla volesse dire possederla.
«O-cta-via! O-cta-via! O-cta-via!».
La
giovane si approssimò all’arena, ritrovandosi a tu per tu con quell’avversario
che a suo tempo aveva ignorato, e che la guardò con un misto di sfida ed
ammirazione, porgendole infine la mano.
«È
un onore conoscerti.» le disse.
Lei
lo fissò un momento stupita, poi, sorridendo, ricambiò la stretta.
«Anche
per me. Ti chiedo scusa per come mi sono comportata l’ultima volta.»
«Non
importa.» scherzò lui «Recupereremo stasera. È per questo che siamo qui,
dopotutto.»
«Già».
A
quel punto, venne il momento di combattere.
Helena
entrò nella machina, e mente il portello si richiudeva sopra di lei ripensò per
un attimo alla prima volta, in quella palestra scalcinata; le tornarono in
mente la determinazione e le speranze, ma anche l’ansia, la paura di non
farcela, e quella mano sempre pronta a sostenerla, che le dava il coraggio e la
forza di andare avanti senza neanche, forse, rendersene conto. E allora, le
venne da sorridere.
Quando
fu al centro dell’arena, alzò gli occhi verso l’alto, verso le stelle, appena
visibili oltre il soffitto trasparente dello stadio e le infinite luci di
Kyrador, alla ricerca della sua stella, quel puntino luminoso che apparteneva
solo a lei e che sapeva essere lassù, da qualche parte. Era passato tanto
tempo, e molte cose erano successe. Ma non avrebbe più dimenticato. Non voleva più
dimenticare.
«E
ora, signore e signori!» annunciò esaltato il presentatore «Let’s
chandra!».
Nota dell’Autore
Eccoci dunque alla fine di
questa storia (si fa per dire) breve.
Effettivamente è molto più lunga
di quanto mi fossi inizialmente immaginato, ma pensandoci ora devo ammettere
che se l’avessi sviluppata interamente come appariva di volta in volta nei miei
pensieri man mano che scrivevo ne sarebbe venuto fuori un romanzo parallelo,
tanti e tali erano gli argomenti e le tematiche da trattare.
Di certo non sarà l’unica storia
con protagonista Helena, o comunque in cui la campionessa non svolga un ruolo
di una certa rilevanza, così come senza dubbio vi saranno altri racconti
dedicati al mondo del chandra.
Ora sto lavorando ad altre due
storie, sempre nell’ambito dei vari contest cui sto partecipando.
E mi raccomando, fatemi sapere sempre
cosa pensate!^_^
A presto!^_^
Carlos Olivera