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Autore: Neko no Yume    11/02/2014    4 recensioni
A volte Tokyo è una città pericolosa. A volte la tua famiglia ha le fattezze di un gruppetto sparuto di ragazzini dai sorrisi inestinguibili e i nasi sanguinanti. A volte ci sono cose che non riesci a lasciarti alle spalle. E a volte va bene così. (kagakuro; aokuro; lieve kisekasa)
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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L'aeroporto Haneda aveva la stessa atmosfera asettica ma allo stesso tempo quasi caotica con cui tre anni prima aveva visto partire per l'America un Kagami Taiga ancora ragazzino: gli stessi pavimenti lucidi, le stesse voci piatte che si rincorrevano da un altoparlante all'altro, la stessa aria così innegabilmente giapponese che adesso gli stava dando il bentornato.
Il suo volo con l'American Airlines aveva spaccato il minuto e il ragazzo si concesse qualche minuto di semplice girovagare per la struttura prima di avviarsi verso la fermata della monorotaia annessa all'aeroporto che l'avrebbe portato alla sua nuova dimora; aveva bisogno di sgranchirsi le gambe dopo tutte quelle ore di immobilità forzata e sentiva il bisogno di farsi una passeggiata più o meno da quando si era alzato in volo parecchie ore prima.
Quando si sentì psicologicamente pronto a tornare col sedere spiaccicato su un sedile, lasciò che i suoi piedi lo guidassero a passi strascicati (il jet lag era un duro colpo anche per lui, dopotutto) verso la stazione, per poi salire sul primo vagone della monorotaia che si trovò davanti e aspettare che quel trabiccolo super-tecnologico lo portasse a destinazione.
Per fortuna il quartiere in cui suo padre l'aveva mandato a stabilirsi non era troppo lontano e, una volta sceso alla sua fermata, le indicazioni che gli aveva lasciato erano talmente dettagliate che Taiga riuscì a collassare sano e salvo sul suo nuovo letto nel giro di una sola assonnatissima ora da quando aveva messo piede sul suolo giapponese.
Aveva una voglia bruciante di esplorare la zona (gli sembrava di aver visto un campetto da basket per strada), ma la pesantezza delle sue palpebre gli suggerì che una cosa del genere poteva anche aspettare qualche ora; del resto era atterrato a Tokyo di prima mattina, dormire un po' non poteva che fargli bene.
Lasciò che il sonno lo cogliesse con un sorriso carico di aspettativa e si svegliò con un'espressione pressapoco identica, illuminata da un tenue sole di tardo pomeriggio.
Il tempo di sciacquarsi il viso ed era già di nuovo fuori dall'appartamento, gironzolando per le vie con le mani nelle tasche della tuta e gli occhi intenti a scandagliare ogni angolo alla ricerca del campetto che gli sembrava di aver notato prima.
Ed era lì, non era un miraggio frutto della stanchezza: troneggiava al di là di una rete metallica, seminascosto dal muro di un palazzo e da qualche albero, e Taiga avrebbe giurato di poter sentire il canto delle sirene nelle orecchie, senza rendersi conto che fosse solo il suono di una canzone pop in lontananza.
Non aveva una palla con sé, ma si avviò ugualmente verso il campo nella speranza di potersi unire a qualcuno per un match improvvisato.
Trovò la porta nella rete che permetteva di accedere e la schiuse con euforia appena trattenuta, senza però riuscire a dissimulare altrettanto bene l'espressione estatica che gli si dipinse in volto nel sentire la familiare sensazione che provava ogni volta che le sue scarpe calcavano un suolo destinato a vederlo giocare.
“Ehi,” una voce alle sue spalle lo fece sobbalzare con un grido alquanto indecoroso intrappolato in gola, probabilmente assieme al suo cuore che sembrava essergli schizzato verso l'alto di punto in bianco.
Non si era accorto che il campetto fosse già occupato da qualcun altro, eppure quando si voltò nella direzione della voce si ritrovò davanti un ragazzo mingherlino intento a fissarlo con due occhi azzurri e placidi troppo grandi per il suo viso.
“E tu da dove diavolo salti fuori?” lo interpellò Taiga senza troppi complimenti, una volta assicuratosi di non essere prossimo a un colpo apoplettico.
L'altro non parve scomporsi davanti alla sua reazione, si limitò a inclinare il capo di qualche millimetro. Forse.
“Mi sto allenando qui da un paio d'ore,” fu la sua laconica risposta. “Tu piuttosto che ci fai qui?”
La voce non aveva nessuna inflessione particolare, ma a Taiga parve improvvisamente di trovarsi nel posto più sbagliato in cui sarebbe potuto capitare.
“Mi sono appena trasferito,” si limitò a spiegare, restio a fornire ulteriori informazioni.
Quelle due iridi inespressive recepirono la notizia con un guizzo di comprensione, poi tornarono a scrutarlo con tutta la fissità di cui sembravano essere capaci.
“Benvenuto,” commentò alla fine lo sconosciuto, accompagnando il saluto con un inchino appena accennato. “Ti dispiace se continuiamo la nostra conoscenza in un altro posto...”
“Kagami, mi chiamo Kagami Taiga,” si affrettò a venirgli in aiuto lui.
“Kagami-kun,” ripeté l'altro, e a Taiga sembrò di riuscire a notare un certo nervosismo crescente nei suoi atteggiamenti.
“Perché?” chiese senza riuscire a reprimere una punta di dispiacere: si era svegliato con la voglia di giocare a basket e ora che ne aveva l'occasione quello strano tipo lo stava cordialmente invitando a sloggiare.
“Quello è il perché,” gli rispose lo strano tipo in questione, l'indice puntato verso un gruppetto di ragazzi dall'altra parte della strada. “E ti consiglio di seguirmi.”
Poi girò sui tacchi e svicolò fuori dal campetto a passo svelto, seguito da un Taiga vagamente irritato.
“Fammi capire, stiamo scappando da quei teppistelli?” insisté lui, che nel voltarsi indietro aveva notato come i nuovi arrivati avessero preso possesso del campo senza troppi complimenti.
“Precisamente.”
“Ma non è giusto!”
“Se ti va di fare il paladino della giustizia, siete uno contro sei,” lo informò il ragazzo senza scomporsi.
Lui lo fulminò con lo sguardo, per nulla soddisfatto da un così scarso coinvolgimento emotivo in quella che a lui sembrava l'effrazione più nefanda attuabile da un essere umano, ma le sue gambe seguitarono ad allontanarsi dal campetto.
“E a te sta bene?” si decise a chiedere dopo qualche secondo di frustrante silenzio.
Il modo in cui quegli occhi imperturbabili si strinsero d'improvviso in due fessure, due lame di azzurro che avrebbero potuto tagliargli in due l'anima se fossero state puntate verso di lui, fu abbastanza per convincerlo che no, non gli stava affatto bene.
Durò solo un attimo.
“Tanto lo fanno solo quando lui non c'è,” mormorò lo sconosciuto, la voce incrinata da una sorta di impalpabile malinconia.
Taiga si sarebbe volentieri informato sull'identità di quel misterioso paladino del campo da basket, ma un'improvviso grido dal timbro più alto che gli fosse mai capitato di udire lo fece sobbalzare per la seconda volta in una decina di minuti e il momento dopo il suo Virgilio in quella selva oscura popolata di bulletti da quattro soldi barcollava pericolosamente sotto il peso di una ragazza intenta a salmodiare con lo stesso tono acuto qualcosa che suonava circa come “Tetsuuudov'erifinitomiseimancatotaaaaantotaaaantoooo” o giù di lì.
Taiga era troppo impegnato a contemplare la scollatura della sua camicetta per prestare particolare attenzione al dialogo in corso tra i due, finché la nuova arrivata non lo interpellò direttamente, indice puntato contro il suo petto e sguardo fiammeggiante di curiosità.
“E tu chi saresti?”
“Si chiama Kagami, è nuovo,” intervenne Tetsuqualcosa prima che lui potesse anche solo aprire bocca per rispondere. “Sembra interessato al basket,” aggiunse dopo una breve pausa.
“Ci giocavo spesso in America,” si sentì in dovere di puntualizzare lui.
Ora gli occhi della ragazza avrebbero potuto innescare una reazione di autocombustione.
“Qui si gioca street basket, novellino,” sentenziò con una punta di provocazione che un qualsiasi essere di sesso maschile e dal petto piatto come una tavola avrebbe scontato con un destro ben assestato. “Pensi di esserne all'altezza?”
Taiga stirò le labbra in un ghigno.
“Potrei farvi a stessa domanda.”
Poi, come se avesse pronunciato senza saperlo qualche sorta di parola d'ordine, la ragazza gli concesse un sorriso decisamente meno malizioso.
“Momoi Satsuki, piacere,” cinguettò; neanche il tempo di sentire la sua risposta e si era di nuovo voltata verso l'altro ragazzo.
“Non trovi che gli somigli?”
“Fastidiosamente.”
Una risatina femminile tremolò nell'aria attorno a loro.
“Beh, io devo andare,” decretò Momoi. “Ci vediamo!”
Scomparve dietro un angolo con la stessa rapidità con la quale era arrivata, lasciandosi dietro un urlato “Ricordati che domani lui torna!”
Taiga stava iniziando a seccarsi di questa penuria di soggetti nella sintassi degli abitanti del luogo.
“Sono arrivato anch'io,” annunciò il suo accompagnatore, fermandosi davanti a un appartamentino dall'aria malmessa ma nel complesso vivibile.
“Oh, uhm,” fu la sua brillante risposta. “Allora ci si vede.”
L'altro annuì con un breve cenno del capo, per poi avviarsi verso la porta di casa.
“Ah!” esclamò Taiga dopo qualche istante.
“Kuroko Tetsuya,” lo anticipò di nuovo lui, questa volta gentilmente, prima di chiudersi la porta alle spalle.
Kuroko Tetsuya.
Taiga non era tanto sicuro di ricordarsi la strada per tornare al suo condominio.


Quella era stata una pessima nottata per Tetsuya.
E non era stata colpa del caldo, né dell'attacco a sorpresa del suo cane verso le cristianissime quattro del mattino, né del livido sull'avambraccio destro che gli faceva ancora un po' male.
La colpa era interamente da attribuire al novellino, l'americano, Pel di carota.
Kagami Taiga insomma.
Tetsuya se ne era accorto sin da subito di quanto Kagami somigliasse a quella persona, anche senza bisogno del commento di Momoi.
Si capiva dal modo in cui aveva messo piede sul suolo del campetto come se fosse appena entrato in chiesa, dal tono burbero che sembrava avere di default, dall'occhiata rabbiosa che aveva lanciato a Haizaki e i suoi nell'allontanarsi assieme a lui.
E, dato che Tetsuya aveva avuto la brillante idea di presentarlo proprio a Momoi come uno a cui piaceva il basket (per giunta di ritorno dagli Stati Uniti, ci poteva essere un limite alla sua sfiga cosmica?), una simile presenza molesta sarebbe diventata in breve tempo un habitué del loro campetto, giusto il tempo di venire accettato dagli altri.
Come se un solo fanatico della pallacanestro non fosse stato abbastanza da sopportare, come se lui, Tetsuya, non avesse perso già abbastanza ore di sonno a pensare a com'erano andate le cose.
Ed erano andate parecchio male, le cose.
“Così torna oggi, eh,” mugugnò ancora assonnato, una mano intenta a carezzare distrattamente la testa di Nigou. “Almeno troverà pane per i suoi denti.”
Poi, dato che iniziare a parlare da solo non era mai un buon segno, si decise ad alzarsi e affrontare una giornata che non prometteva niente di buono.
Iniziò con qualcosa di semplice e potenzialmente innocuo: si scaldò una tazza di latte in cui versò del caffè solubile, accompagnato da del pane tostato sul quale spalmò la prima marmellata a portata di mano, poi cercò di rendersi presentabile per il mondo esterno e portò Nigou a fare una passeggiata.
Il tutto mentre dietro la sua solita facciata di apatia si rincorrevano immagini, suoni, odori di quando, due mesi prima, gli era sembrato che la sua vita fosse una sigaretta che bruciava troppo in fretta.
Una volta lui e Kise avevano provato a fumarne una, più che altro per divertirsi a vedersi tossicchiare a vicenda con tanto di lacrime agli occhi in allegato.
Lui se ne era accorto e aveva fatto dono alle loro teste vuote di due scappellotti ben assestati.
Tetsuya non riuscì a impedirsi di ridacchiare piano mentre la faccia sconsolata di Kise gli si dipingeva in mente e Nigou alzò il muso verso di lui con un sonoro “bau!”, come se avesse aspettato fino a quel momento di veder sorridere il proprio padrone.
“Sei troppo di parte,” gli rispose, per poi accorgersi di essere già tornato a casa.
Aveva istintivamente evitato qualsiasi strada che potesse condurlo dalle parti del campetto, finendo col ritornare quasi subito sui suoi passi, ma il suo cane non sembrava esserne seccato e una leccatina alle sue scarpe da ginnastica bastò per comunicare a Tetuya che andava bene così, che poteva tornare a rintanarsi in camera se voleva.
“Nel pomeriggio ci vado,” decretò più a se stesso che a Nigou. “Lasciare Kagami-kun tutto solo a alle prese con quel gruppo di svitati sarebbe troppo crudele anche in queste circostanze.”
Un altro “bau!” dal basso gli fece sapere che il suo coinquilino peloso era d'accordo.
“A volte mi sembra che tu capisca sin troppe cose,” borbottò Tetsuya, la voce che tremava appena di gratitudine.
Il resto della mattinata lo passò a preparare il pranzo e gironzolare per casa senza meta, aspettando a malapena che il sole si abbassasse sull'orizzonte quel tanto che bastava a non prendersi un'insolazione per uscire di casa a passo di marcia, diretto verso il luogo che sino a poche ore prima aveva evitato come la peste.
Come previsto, Pel di carota era già lì, attorniato da alcuni ragazzi tra i quali gli sembrò di riconoscere Midorima, Kise e, ovviamente, Momoi.
Kagami fu il primo ad accorgersi del suo arrivo e lo salutò con un cenno del capo; Midorima lo imitò, mentre Kise e Momoi gli si appiccicarono addosso come al solito, uggiolando la loro contentezza per l'arrivo del loro Kurokocchi/Tetsu/Lucedeimieiocchi.
Lui li lasciò fare come sempre, intercettando però l'occhiata che Kasamatsu aveva appena lanciato a Kise: chiunque l'avrebbe interpretata come assassina, ma Tetsuya li aveva beccati una volta a mangiarsi la faccia in un parcheggio lì vicino e riusciva a cogliere chiaramente la sfumatura da niente sesso per una settimana, piccolo bastardo
. Ad ogni modo la confusione durò poco e l'attimo prima dell'impatto del piede di Kasamatsu sul deretano di Kise il campetto piombò nel silenzio più totale, segno che lui era arrivato.
“Ehi!” esordì una voce che con quella singola sillaba aveva liquefatto qualsiasi parvenza di materia grigia albergasse nel cervello di Tetsuya in quel momento. “Che bel comitato di accoglienza!”
“Dai-chan!” esclamò Momoi con un saltello appena trattenuto, per poi fiondarsi tra le sue braccia.
La risata calda, quasi riarsa, che ne seguì rischiò di mandare del tutto alle ortiche i buoni propositi di Tetsuya, ma ormai c'erano troppi testimoni perché potesse svicolare via come se niente fosse e oltretutto aveva dato la sua parola a Nigou che sarebbe rimasto a sostenere Kagami.
“Oi, Tetsu,” lo salutò la voce di prima, appena intaccata nella sua allegria.
“Aomine-kun,” ricambiò lui, sperando che l'improvviso tremito che gli stava scuotendo le mani passasse inosservato.
Tra i due cadde un silenzio teso come la corda di un violino e che Kagami, con somma gratitudine da parte di tutti i presenti, fu abbastanza disinvolto da interrompere con un “Vorreste dirmi che è questo qui il tizio di cui parlavate ieri?”
Aomine Daiki, maglietta dei Lakers e jeans logori, si voltò verso di lui con lo sguardo di un gatto che abbia appena intravisto un topolino.
“E tu chi saresti?”
Il ghigno che arricciò le labbra di Kagami era anche meno rassicurante dell'espressione dell'altro, se possibile.
“Solo un tifoso dei Celtics,” proclamò in tono falsamente innocente, per poi chinarsi a raccogliere la propria palla da basket da terra in modo da nascondere la ridarella che l'aveva preso nel vedere Aomine irrigidirsi come un pezzo di legno. “A qualcuno va di giocare?”
La risposta di Aomine venne spontanea, priva di qualsivoglia ironia o esitazione.
“Uno contro uno. Se riesci a non farmi annoiare troppo sei dei nostri.”
La piccola folla che gravitava attorno a loro si scostò d'istinto, in modo da lasciare libero il campetto, ma rimanendo comunque nelle vicinanze: si prospettava uno spettacolo divertente, sebbene nessuno avesse il minimo dubbio sull'esito finale.
Nel silenzio generale, Taiga fece rimbalzare la palla sul terreno.


Aomine sprizzava gioia da tutti i pori.
I capelli gli si erano appiccicati alla fronte per il sudore, aveva il fiato grosso e la testa gli girava un po', ma era la prima volta in due mesi che poteva affermare di sentirsi leggero, libero dall'oppressione che gli gravava sulle spalle da quella volta
. “Devo ammetterlo, c'è stato un momento in cui sei quasi riuscito ad andare a canestro,” ghignò, la voce impercettibilmente meno strafottente.
Il suo sfidante non rispose, ma la luce che gli bruciava negli occhi bastava per capire quanto, nonostante l'orgoglio ferito, il suo stato d'animo non fosse poi così diverso da quello del vincitore.
“Su, Aominecchi, dillo e basta!” esclamò Kise dal bordo del campetto, seguito a ruota dal vociare sovreccitato dei presenti.
“E va bene, va bene...” concesse lui in tono falsamente accondiscendente, per poi alzare uno sguardo trionfante su Kagami. “Kagami Taiga, benvenuto alla Corte dei miracoli!”





Yu's corner.
Salve, miei prodi!
Benvenuti nel meraviglioso (insomma) universo di questa storia, nata dal mio leggere kurobasu con canzoni rap come sottofondo preferenziale.
Che dire, lo street basket è una gioia per i miei occhi e spero che questa fanfic possa essere una gioa per voi!
Bye bye,
Yu.
  
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