[3]
Non è molto, ma è in ogni caso abbastanza per
farmi sentire come
allora.
Con le mani
appoggiate al davanzale della finestra, fisso l’orizzonte
azzurro, lontano,
quasi irraggiungibile.
Nell’ultimo
mese in
cui ho vissuto qui, mi è capitato spesso di restare in
questa posizione per
ore, immaginando che tu fossi proprio laggiù e che quello
dovesse essere il
paradiso; un posto
che avrei tanto
voluto raggiungere per rincontrarti ancora una volta. E ci ho provato
una sola
volta, senza successo.
Quando non è
destino, succede sempre qualcosa. Sempre. Chiamalo miracolo, se vuoi.
Soltanto oggi
comprendo che avrei fatto unicamente una sciocchezza, una stupida
sciocchezza.
Vorrei che nessuno
entrasse qui dentro tranne me, eppure mi rendo conto che sarebbe
inutile.
Beatrice mi starà
cercando, anzi, sicuramente starà cercando proprio questo
appartamento.
Deve aver
fantasticato molto su quello che le ho raccontato. Avrà
sicuramente immaginato
ogni singola scena, ogni dettaglio, anche quello più
insignificante. Ad essere
sincero, non le ho riferito che la superficie di questo stagno torbido
di
ricordi e probabilmente, quando scoprirà che
c’è dell’altro, ne rimarrà
profondamente delusa.
Io non sono riuscito a fidarmi di lei.
Non sapevo
se
avrebbe potuto capire: la vedevo così piccola e fragile,
così vulnerabile.
Magari sono stato
troppo prevenuto, magari, invece, ho soltanto scelto la cosa
più pratica.
O mi vieni a prendere o mi dici la strada per
raggiungerti..decidi tu.*
Rileggo il suo
messaggio ancora una volta immaginandomi la sua faccia imbronciata
mentre
sprezzantemente dice ‘Braccio di Ferro’ e non
trattengo un piccolo ghigno
divertito.
Si. Piena di quella sana follia che fa vivere la vita con gioia e
vitalità.
Decido di
risponderle, sebbene il desiderio di farla stizzire di più
sia quasi
incontenibile.
E’ di nuovo lei e
la cosa non mi meraviglia nemmeno un po’. Le
possibilità sono due: o si è persa
andando a finire chissà dove, oppure mi sta ancora
aspettando lì impalata in
piazza. E non so dire quale tra le due ipotesi sia effettivamente la
peggiore.
Leggo il messaggio traendo un impercettibile sospiro di sollievo.
Da come bussa, non
mi è difficile indovinare il verso del suo umore e quasi
preferisco non
aprirle.
Eppure, non penso
che sia affatto una buona idea: quando Beatrice si arrabbia diventa
piuttosto
manesca.
Sotto al suo
caschetto biondo intravedo i suoi occhi brillare per la collera ed un
soffuso
rossore sulle guance.
Lì per lì non la
sto ascoltando: parla talmente svelta che non riesco a comprendere
tutte le
parole, tuttavia mano a mano che sbollisce la sua rabbia, si fa
più
comprensibile. Mi squadra torvamente.
“Sono
dieci minuti
buoni che suono al tuo citofono, Stefano. Dieci minuti.
Perché non mi hai
aperto? E poi non mi hai sentita bussare alla porta? Mancava poco e te
l’avrei
buttata giù a furia di battere!”
“Il citofono è
staccato e dal piano di sopra non sentivo nulla. Mi dispiace.”
Le indico con il
braccio l’appendiabiti accanto alla bicicletta nel
sottoscala, salendo sul
primo gradino.
“Staccato? Scusa e
perché?” Appende
il giubbino accanto
agli altri e mi segue come un’ombra.
“E’ sempre stato
staccato ad essere sinceri. Era una tale scocciatura, così
abbiamo tagliato il
filo.”
Si mostra
visibilmente esterrefatta e non posso darle tutti i torti. E’
un po’ stupido.
Certo, all’epoca ci
era sembrata la soluzione migliore, un po’ drastica, ma pur
sempre la migliore.
“Oh beh… ma come
facevate a sapere se qualcuno era fuori dalla…”
Non termina la
frase, il suo sguardo perso sul minuscolo ambiente che le si apre
davanti agli
occhi.
Se devo
dirla tutta
non penso che questo appartamento giustifichi una reazione del genere,
ma
evidentemente per Beatrice deve essere molto diverso perché
continua a ripetere
la stessa frase ad intervalli più o meno regolari.
Mi appoggio con le spalle al
muro e la lascio curiosare un po’ tra le nostre cose.
Sembra una
bambinetta in un negozio di giocattoli: tutto le fa esprimere un
ché di
stupore.
“E’
una delle
uniche foto che ho insieme a Sofia. Eravamo in un paese non molto
lontano da
qui, l’abbiamo scattata in una sosta durante un viaggio in
camper. Era per uno
dei nostri primi ingaggi come band in un locale, sai tipo concerto
live. Non è
stato un granché, ma ci siamo divertiti in
compenso..”
“Sembrate felici
insieme. Io…non ho molti ricordi di mia sorella che sorride,
purtroppo.”
“Beh, in quel
periodo le cose ci stavano andando piuttosto bene e lei era serena,
forse è per
quello che...”
“Sai, Stefano,
molte volte ho come l’impressione che tu mi stia tenendo
all’oscuro di
qualcosa, anche se non so dirti di cosa. Mi sembra di sapere
così poco di lei
che spesso faccio fatica a credere di essere davvero sua sorella. E me
ne
dispiace da morire.” Ripone la cornice sulla mensola della
libreria, ma non si
volta.
Mi trovo
spiazzato
perché vorrei proteggerla, ciononostante, allo stesso tempo,
capisco il suo
punto di vista.
“Non
è facile per
me dover convivere con tutto quello che ho passato, se ti ho
risparmiato alcune
cose è solo perché non voglio che tu debba
portare sulle tue spalle lo
stesso peso che ho io.”
“Grazie tante per
il pensiero, ma così facendo mi impedisci di conoscere
davvero mia sorella…”
“Prendersela non
serve a niente, Beatrice…”
“Mi domando se
prima o poi mi dirai davvero tutto riguardo a questa storia.”
E continuare a guardarla, mentre si
curva su se stessa, chinando appena la testa sofferente.
Quelle piccole
perle traslucide che, colorandosi di nero, colano lungo le sue guance
chiare,
mi fanno provare il desiderio di avvicinarmi e cancellarle. Non avevo
mai visto
piangere Beatrice prima di quel momento.
Con le dita
della
mia mano destra, raccolgo le ultime lacrime da quel viso triste e non
posso
fare a meno di avvicinarla a me con la mano libera e stringerla tra le
braccia
cullandola come una bambina.
Sussurro dolcemente
parole di una vecchia canzone per farla calmare, carezzandole piano i
capelli.
“Non
piangere più,
bambina, perché se lo vorrai ti dirò ogni
cosa..”
“…tutto quanto?” La
sua voce è ancora rotta dal pianto e mi provoca uno strano
moto di tenerezza.
“Si, tutto quanto.”
E giurai che l’avrei fatto sul serio, fino in fondo.
Dopo aver
accuratamente sciacquato il bicchiere e averlo riempito quasi fino
all’orlo,
torno affianco a lei.
La vedo allungare
una mano bianca verso di me, senza tuttavia accennare a guardarmi.
Mi ritrovo così
costretto a prenderle la mano e stringere con forza quelle dita
affusolate
attorno a vetro.
Non so come
cominciare il discorso e tentando di schiarirmi le idee, inizio a
camminare per
la stanza.
Come mi sembra di
aver trovato una posizione, e con essa anche le parole, vengo assalito
dall’insicurezza e torno nuovamente a camminare. Prendere
tempo è forse una
delle cose che meglio mi riesce.
Dopo il saper
suonare il basso elettrico, ovviamente.
Alla fine decido di
non cercare ad ogni costo un modo particolare per raccontare la mia
storia; non
serve a nulla crearsi un problema per una cosa tanto stupida. Mi
rilasso
impercettibilmente e, dandole le spalle, punto i miei occhi sul vecchio
basso
nell’angolo più remoto della stanza.
E le parole, così come musica, escono rapide dalla mia gola, si inseguono l’una con le altre senza esitazione. Senza averne una chiara percezione, ascolto distrattamente la mia voce cominciare a descrivere quello che vedono i miei occhi: una spiaggia, una schiera di gabbiani bianchi, l’alba ed infine… lei.