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Autore: gothika    16/06/2008    0 recensioni
Dolce come la passione per la musica.
Dolce come un sogno da raggiungere.
Salata come la fuga da un passato da dimenticare, come una crudele malattia da sconfiggere.
Ed, infine, unica come la storia romantica di un impossibile grande amore.
Genere: Malinconico, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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[3]

 

Dopo alcuni minuti, ho già mentalmente passato in rassegna tutto quello che è rimasto nel piccolo appartamento. 
Non è molto, ma è in ogni caso abbastanza per farmi sentire come allora.
Con le mani appoggiate al davanzale della finestra, fisso l’orizzonte azzurro, lontano, quasi irraggiungibile.

Nell’ultimo mese in cui ho vissuto qui, mi è capitato spesso di restare in questa posizione per ore, immaginando che tu fossi proprio laggiù e che quello dovesse essere il paradiso;  un posto che avrei tanto voluto raggiungere per rincontrarti ancora una volta. E ci ho provato una sola volta, senza successo.
Quando non è destino, succede sempre qualcosa. Sempre. Chiamalo miracolo, se vuoi.
Soltanto oggi comprendo che avrei fatto unicamente una sciocchezza, una stupida sciocchezza.

Vorrei che nessuno entrasse qui dentro tranne me, eppure mi rendo conto che sarebbe inutile.
Beatrice mi starà cercando, anzi, sicuramente starà cercando proprio questo appartamento.
Deve aver fantasticato molto su quello che le ho raccontato. Avrà sicuramente immaginato ogni singola scena, ogni dettaglio, anche quello più insignificante. Ad essere sincero, non le ho riferito che la superficie di questo stagno torbido di ricordi e probabilmente, quando scoprirà che c’è dell’altro, ne rimarrà profondamente delusa. 
Io non sono riuscito a fidarmi di lei.

Non sapevo se avrebbe potuto capire: la vedevo così piccola e fragile, così vulnerabile.
Magari sono stato troppo prevenuto, magari, invece, ho soltanto scelto la cosa più pratica.

Il cellulare vibra nella tasca della giacca, ma non è una telefonata. Sul piccolo schermo azzurrino appare l’icona di un messaggio e ne sono contento: non ho per niente voglia di chiacchierare.

*Posso sapere dove ti sei cacciato? Mi hai lasciata qui in balia di Braccio di Ferro senza dire una parola: bravo! 
O mi vieni a prendere o mi dici la strada per raggiungerti..decidi tu.*

Non so perché, ma ha sempre il potere di farmi sorridere. Si vede che ha il tuo stesso sangue, Sofia.
Rileggo il suo messaggio ancora una volta immaginandomi la sua faccia imbronciata mentre sprezzantemente dice ‘Braccio di Ferro’ e non trattengo un piccolo ghigno divertito. E’ completamente matta. 
Si. Piena di quella sana follia che fa vivere la vita con gioia e vitalità.
Decido di risponderle, sebbene il desiderio di farla stizzire di più sia quasi incontenibile.

*Se proprio vuoi.. vengo a prenderti io..altrimenti dalla piazza prendi la salita sulla sinistra sempre dritto, il terzo palazzetto bianco con il portone ad arco. Non è difficile.. ah, ricorda: tanti cari saluti a Braccio di Ferro!*

Venti minuti dopo sento vibrare nuovamente il cellulare. Comincio a pensare che sia davvero una congiura.
E’ di nuovo lei e la cosa non mi meraviglia nemmeno un po’. Le possibilità sono due: o si è persa andando a finire chissà dove, oppure mi sta ancora aspettando lì impalata in piazza. E non so dire quale tra le due ipotesi sia effettivamente la peggiore. Leggo il messaggio traendo un impercettibile sospiro di sollievo.

*Aprimi!*

Scendo al piano di sotto e finalmente mi accorgo del rumore provocato dai suoi pugni minuti contro il legno.
Da come bussa, non mi è difficile indovinare il verso del suo umore e quasi preferisco non aprirle.
Eppure, non penso che sia affatto una buona idea: quando Beatrice si arrabbia diventa piuttosto manesca.
Nemmeno mi da il tempo di aprire completamente la porta che già è dentro, strepitando inferocita.
Sotto al suo caschetto biondo intravedo i suoi occhi brillare per la collera ed un soffuso rossore sulle guance.
Lì per lì non la sto ascoltando: parla talmente svelta che non riesco a comprendere tutte le parole, tuttavia mano a mano che sbollisce la sua rabbia, si fa più comprensibile. Mi squadra torvamente.

“Sono dieci minuti buoni che suono al tuo citofono, Stefano. Dieci minuti. Perché non mi hai aperto? E poi non mi hai sentita bussare alla porta? Mancava poco e te l’avrei buttata giù a furia di battere!”
“Il citofono è staccato e dal piano di sopra non sentivo nulla. Mi dispiace.”
Le indico con il braccio l’appendiabiti accanto alla bicicletta nel sottoscala, salendo sul primo gradino.
“Staccato? Scusa e perché?”  Appende il giubbino accanto agli altri e mi segue come un’ombra.
“E’ sempre stato staccato ad essere sinceri. Era una tale scocciatura, così abbiamo tagliato il filo.”
Si mostra visibilmente esterrefatta e non posso darle tutti i torti. E’ un po’ stupido.
Certo, all’epoca ci era sembrata la soluzione migliore, un po’ drastica, ma pur sempre la migliore.
“Oh beh… ma come facevate a sapere se qualcuno era fuori dalla…”
Non termina la frase, il suo sguardo perso sul minuscolo ambiente che le si apre davanti agli occhi.

Se devo dirla tutta non penso che questo appartamento giustifichi una reazione del genere, ma evidentemente per Beatrice deve essere molto diverso perché continua a ripetere la stessa frase ad intervalli più o meno regolari. 
Mi appoggio con le spalle al muro e la lascio curiosare un po’ tra le nostre cose.
Sembra una bambinetta in un negozio di giocattoli: tutto le fa esprimere un ché di stupore.

Prende tra le mani una cornicetta di legno dipinta di rosso e la osserva attentamente.

“E’ una delle uniche foto che ho insieme a Sofia. Eravamo in un paese non molto lontano da qui, l’abbiamo scattata in una sosta durante un viaggio in camper. Era per uno dei nostri primi ingaggi come band in un locale, sai tipo concerto live. Non è stato un granché, ma ci siamo divertiti in compenso..”
“Sembrate felici insieme. Io…non ho molti ricordi di mia sorella che sorride, purtroppo.”
“Beh, in quel periodo le cose ci stavano andando piuttosto bene e lei era serena, forse è per quello che...”
“Sai, Stefano, molte volte ho come l’impressione che tu mi stia tenendo all’oscuro di qualcosa, anche se non so dirti di cosa. Mi sembra di sapere così poco di lei che spesso faccio fatica a credere di essere davvero sua sorella. E me ne dispiace da morire.” Ripone la cornice sulla mensola della libreria, ma non si volta.

Mi trovo spiazzato perché vorrei proteggerla, ciononostante, allo stesso tempo, capisco il suo punto di vista.

“Non è facile per me dover convivere con tutto quello che ho passato, se ti ho risparmiato alcune cose è solo perché non voglio che tu debba portare sulle tue spalle  lo stesso peso che ho io.”
“Grazie tante per il pensiero, ma così facendo mi impedisci di conoscere davvero mia sorella…”
“Prendersela non serve a niente, Beatrice…”
“Mi domando se prima o poi mi dirai davvero tutto riguardo a questa storia.”

Resto in silenzio: ancora una pausa per nascondere il fatto che non so davvero se ho la forza e la voglia di darle una risposta, magari, proprio la risposta che pazientemente attende da anni. Non posso fare altro che guardarla. 
E continuare a guardarla, mentre si curva su se stessa, chinando appena la testa sofferente.

“Tu non sai quanto ti invidio, Stefano. In tutto questo tempo non ho fatto altro che pensare a quanto fossi fortunato di passare, giorno dopo giorno, il tuo tempo in compagnia di Sofia. E qualche volta ti ho persino odiato, credendo scioccamente che se tu non fossi mai esistito, probabilmente alla fine lei sarebbe tornata a casa, da me, proprio come mi aveva promesso quella sera. Eppure i giorni, i mesi, gli anni passavano e di lei nemmeno una traccia. Non una telefonata, niente. Mi sono resa conto col tempo che non avrebbe mai scelto di tornare, che tutto quello che aveva subito era stato troppo grande per essere dimenticato. Tuttavia, non è stato facile accettare di crescere senza di lei perché, da quando morì nostro padre, era stata lei tutta la mia famiglia...e ora…ora  mi sento poco più che un’estranea, una persona che ha fatto parte della sua vita per così poco da non sapere nemmeno cosa le piaceva, cosa la faceva ridere, cosa la faceva soffrire…”

Non conclude la frase: le sue spalle scosse da fremiti le fanno tremare la voce. I suoi profondi occhi azzurri sono inondati dalle lacrime che non si preoccupa di nascondere mentre si volta a fronteggiarmi.
Quelle piccole perle traslucide che, colorandosi di nero, colano lungo le sue guance chiare, mi fanno provare il desiderio di avvicinarmi e cancellarle. Non avevo mai visto piangere Beatrice prima di quel momento.

“Non piangere, non ce n’è motivo. Tu non sei un’estranea, non lo sei mai stata. Sofia parlava spesso di te, anzi, sognava di venirti a prendere un giorno e portarti qui per vivere assieme a noi. Lei ti amava…”

Con le dita della mia mano destra, raccolgo le ultime lacrime da quel viso triste e non posso fare a meno di avvicinarla a me con la mano libera e stringerla tra le braccia cullandola come una bambina.
Sussurro dolcemente parole di una vecchia canzone per farla calmare, carezzandole piano i capelli.

“Non piangere più, bambina, perché se lo vorrai ti dirò ogni cosa..”
“…tutto quanto?” La sua voce è ancora rotta dal pianto e mi provoca uno strano moto di tenerezza.
“Si, tutto quanto.” E giurai che l’avrei fatto sul serio, fino in fondo.

La faccio sedere sul letto e mi avvicino al piccolo angolo cottura. Recupero dalla credenza un bicchiere di vetro decorato e lo porto sotto al getto gelido del lavandino. L’acqua inizialmente stenta a scorrere: gli anni passati si fanno sentire anche per le tubature rimaste per troppo tempo a secco, inutilizzate.
Dopo aver accuratamente sciacquato il bicchiere e averlo riempito quasi fino all’orlo, torno affianco a lei.
La vedo allungare una mano bianca verso di me, senza tuttavia accennare a guardarmi.
Mi ritrovo così costretto a prenderle la mano e stringere con forza quelle dita affusolate attorno a vetro.

Sono stranamente sospeso in una sensazione di vago nervosismo e di calma soffusa.
Non so come cominciare il discorso e tentando di schiarirmi le idee, inizio a camminare per la stanza.
Come mi sembra di aver trovato una posizione, e con essa anche le parole, vengo assalito dall’insicurezza e torno nuovamente a camminare. Prendere tempo è forse una delle cose che meglio mi riesce.
Dopo il saper suonare il basso elettrico, ovviamente.
Alla fine decido di non cercare ad ogni costo un modo particolare per raccontare la mia storia; non serve a nulla crearsi un problema per una cosa tanto stupida. Mi rilasso impercettibilmente e, dandole le spalle, punto i miei occhi sul vecchio basso nell’angolo più remoto della stanza.

E le parole, così come musica, escono rapide dalla mia gola, si inseguono l’una con le altre senza esitazione. Senza averne una chiara percezione, ascolto distrattamente la mia voce cominciare a descrivere quello che vedono i miei occhi: una spiaggia, una schiera di gabbiani bianchi, l’alba ed infine… lei.

  
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