Capitolo 3
Appuntamento
Helps somebody
else get through
That's why I do the best I can
Nella penombra di una
delle stanze del terzo piano del dormitorio, c’era Jack,
avvolto nel soffice piumone del suo letto, – su cui era
sdraiato dall’intero pomeriggio – che si stava
dedicando ad una sessione di zapping estremo, fissando con sguardo
assente lo schermo luminoso del televisore.
All'improvviso, qualcuno spalancò la porta della camera con
irruenza; Jack sobbalzò spaventato e di scatto
girò la testa verso l’uscio, dove si trovava il
colpevole del suo infarto e della caduta di Gingernut, il suo
orsacchiotto di pezza. In ogni caso l’identità del
molestatore gli era stata chiara da subito, non appena un effluvio
aromatico lo aveva colpito dritto alle narici.
One Million di Paco Rabanne, il profumo da conquista – come
lo definiva Jack – di William Poulter, capace di mandare in
delirio gli ormoni di ogni individuo di sesso femminile.
Jack
squadrò l’amico da capo a piedi; il viso era
glabro, privo di un qualsiasi accenno di barba, e i capelli che lo
incorniciavano erano puliti e pettinati alla perfezione. Indossava una
giacca grigia dal taglio maschile sopra una camicia bianca, un paio di
jeans scuri che andavano a fasciare le gambe lunghe e muscolose, mentre
ai piedi – per rendere quel look un po’ meno
elegante – portava un paio di sneakers colorate.
«Allora? – domandò, facendo un giro su
sé stesso – Come sto?»
Jack inarcò un sopracciglio, sciogliendosi poi in
un’espressione divertita. Vedere il suo amico così
febbricitante per un appuntamento lo rallegrava; Will era un cazzone,
ma aveva anche un lato tenero e dolce – di cui Jack mancava
totalmente e inesorabilmente – che lo spingeva ad
affezionarsi subito alle persone, e soprattutto alle femmine. Infatti,
quando iniziava a frequentare una ragazza, Will perdeva il senno della
ragione, dichiarandosi innamorato dopo pochi giorni. Quando poi lo
lasciavano, – e questo accadeva spesso – si
crogiolava nell’autocommiserazione più profonda,
barricandosi nella sua stanza per ore e giorni interi, fissando il
soffitto e chiedendosi il perché di tutto ciò.
Ovviamente, Jack nel relazionarsi con il gentil sesso aveva un
comportamento totalmente differente da quello dell’amico.
Già il fatto che tenesse ancora con sé il suo
orsacchiotto di pezza, – il che poteva depistare, facendolo
sembrare docile e mansueto – era simbolo del suo essere
profondamente immaturo. E così era con le donne; non le
sapeva trattare, nonostante avesse avuto più di una
relazione e attualmente fosse “incatenato” in un
rapporto – molto ambiguo, basato su vari tira e molla
– con Ella. Per questo motivo molte volte sembrava che le
usasse e basta, da vero stronzo, ma in realtà il suo
comportamento era dovuto alla sua profonda ignoranza in materia.
«Mi ti farei.» enunciò ammiccando verso
Will, che ancora stava aspettando un giudizio a braccia conserte.
«Amore, lo sai che sei l’unico per me»
disse l’altro, facendogli l’occhiolino e passandosi
la lingua sulle labbra con fare sexy.
«Comunque – cominciò l’altro,
mettendosi a sedere composto – questa Grace sembra un tipetto
apposto, non strafare come al tuo solito»
«Ma io non strafaccio!»
«Sbaglio o al tuo
ultimo appuntamento a quella povera ragazza hai ficcato la lingua in
bocca all’inizio del primo tempo?»
Will arrossì di botto, mentre le sue narici si dilatavano e
le sopracciglia diventavano sempre più arcuate, come faceva
sempre quando era in una situazione di profondo imbarazzo.
«Non è vero! – protestò
– L’ho baciata durante
l’intervallo!»
«Ah beh, allora.» disse Jack, alzando le mani in
segno di resa.
«Grazie per il consiglio Don Giovanni. – disse,
calcando ironicamente sull’ultima parola – Ogni
tanto mi domando perché ti ascolto ancora sulle questioni
amorose. Ma adesso devo proprio scappare!»
«Vai leoncino, conquista la tua preda.»
Una volta
che Will uscì dalla stanza, quasi saltellando
dall’euforia, Jack tornò alla sua posizione da
bradipo, adagiato sul morbido materasso del letto, mentre nella sua
mente continuavano a vorticare in testa le ultime parole
dell’amico. Fondamentalmente, il sunto era che lui, con le
donne, non ci sapeva proprio fare.
Preso dallo sconforto e dalla malinconia, afferrò il
cellulare che aveva abbandonato sulla scrivania ed ignorato per ore.
Selezionò quel nome dalla rubrica e lasciò che la
chiamata partisse.
Presto una voce squillante gli rispose; dal tono della voce si
percepiva chiaramente che la ragazza fosse felice di sentirlo.
«Ehi Ella... – iniziò lui, con leggero
imbarazzo – mi sei mancata.»
Al numero uno di Chandos Road si trovava Wilks, uno dei ristoranti
più rinominati di Bristol.
Grazie alla visuale data
dall’ampia vetrata che si estendeva lungo il perimetro della
facciata – scandita solo da colonnine e dal portone
d’ingresso in ferro battuto – , già
dall’esterno si riusciva a cogliere l’atmosfera
rilassata del posto.
L’interno era caratterizzato da uno
stile sobrio ma allo stesso tempo originale; quadri in perfetto stile
dadaista ricoprivano le pareti, mentre un gran numero di tavoli
arredavano la sala, circondati da normali sedie o da soffici divanetti
in pelle marrone.
Grace si sentiva a suo agio seduta al tavolo con
Will. Nonostante una leggera atmosfera d’imbarazzo avesse
cominciato ad aleggiare tra di loro nel momento in cui Grace era salita
nella macchina del biondo, i due si erano presto ritrovati a conversare
con naturalezza, come se le parole si riversassero automaticamente
dalle loro bocche, in un flusso continuo, facendo così
svanire l’impaccio iniziale.
Durante il tragitto verso Wilks,
Grace si era scoperta spesso a studiare i movimenti del biondo,
soprattutto quando questo controllava la strada con attenzione, stretto
al volante; oltre al tono di voce, basso e sensuale, che lei trovava
estremamente piacevole all’udito, era rimasta ammaliata dal
lampo di luce che illuminava i suoi occhi verdi ogni volta che
sorrideva.
A sua volta, anche Will, da quando avevano incominciato a
chiacchierare, l’uno di fronte all’altra, si era
perso più volte a guardarla, incantato dalla sua bellezza.
Quella sera, i capelli biondi le cadevano dolcemente lungo le spalle,
incorniciando gli occhioni verdi messi in risalto dal trucco leggero;
ogni volta che i suoi, di occhi, incrociavano quelli di lei,
sussultava; lo affascinava la spontaneità del suo sguardo,
che curioso si soffermava ad osservare ciò che la
circondava.
«Allora Grace – cominciò,
poggiando i gomiti sul tavolo e congiungendo le mani con fare curioso
– raccontami qualcosa di te.»
«Tipo?
» chiese lei, abbassando lo sguardo; le domande
così vaghe la mettevano in soggezione.
«Tipo come fai di cognome, quali sono i tuoi hobby, se hai
fratelli o sorelle eccetera eccetera»
«Il mio
cognome è Earnshaw, e »
«Earnshaw?
– la interruppe lui, sgranando gli occhi – Come la
Earnshaw&Co di Londra?»
Grace sospirò
sconsolata. Odiava il suo cognome con tutta sé stessa, dal
momento che questo aveva influenzato ogni aspetto della sua vita, dal
momento della sua nascita.
Suo nonno era stato il fondatore della
Earnshaw&Co di Londra, la società di architetti e
designer d’interni più importante della
città, e dopo la sua morte era stato il padre a incaricarsi
della gestione dell’impresa; ovviamente,
l’eredità di famiglia e gli svariati successi del
padre avevano fatto sì che Grace e la sua famiglia vivessero
nella bambagia e con privilegi che altri ragazzi della sua
età potevano solo sognare. Ma tutto ciò
– per quanto fosse grata alla sua buona stella - non era
ciò che voleva. Desiderava essere indipendente, viaggiare,
scoprire il mondo; non essere favorita dal suo cognome. Molte persone
poi, nel corso della sua vita, l’avevano delusa,
avvicinandosi a lei non perché rimaste affascinate dalla sua
persona, ma perché miravano alla ricchezza ed alla fama del
padre.
«Già» rispose secca, facendo
spallucce.
«Perché non me l’hai detto prima?
»
«Perché non la ritengo una cosa
importante. Molte persone si sono approfittate di me solo per il mio
cognome, non è proprio una cosa carina»
«Certo, capisco benissimo » affermò
Will, sorseggiando dal suo bicchiere il Falanghina che la cameriera si
era curata di portare al tavolo.
La capiva sul serio.
Fondamentalmente, era lo stesso. Però, al contrario di
Grace, lui la fama se l’era cercata; fare l’attore
comportava soddisfazioni impareggiabili, anche se bisognava imparare a
mettere in conto la fama, l’attenzione rivolta su di
sé e la propria vita privata sbattuta su uno squallido
giornale da quattro soldi. Il problema più grande
però, era capire di chi fidarsi o meno.
«Non credo…» sospirò lei,
sorridendo.
Will inarcò le sopracciglia, chiedendosi tra
sé e sé se Grace ci fosse o ci facesse. Non aveva
ancora compreso se la ragazza facesse finta di non aver realizzato la
professione di lui o se facesse sul serio.
«Fidati, ti
capisco benissimo. »
«Beh ora tocca a te!
– esclamò lei, sviando il discorso –
Raccontami qualcosa. »
« Poulter, William Poulter
– enunciò lui, ammiccando e tendendole una mano
come se si stessero conoscendo per la prima volta – ho due
sorelle, un fratello e sono nato e cresciuto ad Hammersmith,
Londra.»
Mentre Grace cercava di far collegare le sinapsi del
suo cervello, in maniera tale da riportarle alla mente dove avesse
già sentito il cognome Poulter, –
perché era sicura di averlo già sentito
– una ragazza si avvicinò a loro. Inizialmente
Grace pensò che la cameriera fosse venuta ad accertarsi che
tutto andasse per il verso giusto, ma in seguito la biondina si accorse
che la tipa in questione era vestita da tutto fuorché da
cameriera. Aveva le gambe lunghe ed affusolate strette in un paio di
leggins di pelle, e il “petto” prosperoso era messo
bene in evidenza da una magliettina succinta.
«Tu sei Will
Poulter, vero? » squittì lei, con una voce
fastidiosa paragonabile ad un trapano in azione alle otto di domenica
mattina.
«Sì. » rispose Will
gentilmente, con un sorriso che – agli occhi di Grace
– sembrava grato per qualcosa.
Detto ciò, la
ragazza si protese verso di lui, poggiando i gomiti sul tavolo e
inarcando la schiena, in maniera tale da evidenziare la sua
prosperità sotto gli occhi dell’attore, che si
grattò la nuca imbarazzato cercando di guardare ovunque
tranne che davanti a sé.
«Posso farmi una foto con te? Ti trovo un attore fantastico!
»
Ti trovo un attore fantastico.
Ti trovo un attore fantastico.
Grace aggrottò la fronte, incredula. Vaneggiò per
qualche secondo su quella frase, arrovellandosi sui possibili
significati della parola attore – che non ne aveva poi
così tanti – , e all’improvviso
realizzò.
Si batté una mano sulla fronte,
mormorando un “deficiente” tra sé e
sé; come avesse fatto a non pensarci prima o a non
accorgersi di niente, proprio non lo sapeva. Per lei, quello era un
semplice appuntamento con un semplice ragazzo, e non con un attore di
fama mondiale candidato ai BAFTA di quell’anno.
Aveva fatto la figura della deficiente, ma anche lui aveva omesso
questo piccolo dettaglio.
«Perché non me l’hai detto prima?!
» ruggì Grace, interrompendo il chiacchiericcio
tra Will e l’ammiratrice voluttuosa.
Will si voltò verso di lei, confuso; in un istante
capì, e sul suo viso si aprì un sorriso furbo.
Finalmente Grace aveva afferrato chi fosse lui veramente, e il fatto
che non l’avesse concretizzato prima gli dava la certezza che
lei, in quel momento, fosse seduta di fronte a lui perché
interessata a William come persona, non come attore.
«Perché non la ritengo una cosa importante.
» la scimmiottò lui divertito.
Grace sbuffò, incrociando le braccia in segno di disappunto.
«Stronzo.»
«Scusa! –
strepitò stizzita la fantomatica fan, che ancora non aveva
schiodato. – Stavo finendo di parlare con Will,
posso?»
«Fai pure. »
acconsentì Grace con un’alzata di spalle, anche se
la sua espressione dimostrava il contrario.
La situazione divenne comica quando la tipa tirò fuori dalla
tasca dei leggins attillati – e Grace si chiese se il sangue
circolasse tra i vasi sanguigni delle gambe, per quanto erano stretti
quei cosi – un bigliettino, ci scrisse sopra il numero di
telefono e lo porse a Will, facendogli segno di chiamarla mentre si
allontanava da loro sculettando.
Grace tossicchiò, come per ricordare a Will la sua presenza,
dato che questo non toglieva gli occhi da quel maledetto pezzettino di
carta.
«Lo vuoi?» chiese lui porgendoglielo con un
ghigno beffardo stampato in volto.
«Dì un’altra parola e te lo faccio
ingoiare. »
La chioma rossiccia di Eve ondeggiava
nell’aria, mossa dal vento serale. Nascosta
nell’oscurità, i suoi occhi cristallini scrutavano
attenti le figure dei due ragazzi all’interno del ristorante.
A quanto le sembrava, Grace e Will erano in perfetta sintonia e
l’appuntamento stava procedendo senza difficoltà.
Un ghigno comparve sul suo volto; il fatto che la sua migliore amica
stesse passando del tempo con una persona che la attirava, fisicamente
e caratterialmente, era la dimostrazione che i consigli di Eve erano
serviti a qualcosa, volti a spronarla ad andare oltre le sue paure e le
sue insicurezze.
L’ appostamento della rossa stava procedendo da una ventina
di minuti ormai, e lì immobile, esposta alle intemperie
della notte, stava morendo di freddo.
Nel buio si riusciva a scorgere
un’altra ragazza, acquattata nell’angolo opposto a
quello di Eve; aveva i capelli biondi raccolti in una coda alta ed il
viso immerso in un’enorme sciarpa colorata, per proteggersi
dal gelo oppure – più probabilmente –
per nascondersi dall’individuo che stava spiando.
Il religioso silenzio venne spezzato da una serie di starnuti della
bionda, che sussurrando qualche imprecazione, tirò fuori i
fazzoletti dalla borsa.
Eve, nel frattempo si era girata con stizza verso la fonte di tutto
quel casino, e riconoscendo la ragazza sgranò gli occhi,
incredula.
«Liv!» esclamò, agitando un
braccio per farsi individuare.
Liv trasalì,
poiché assorta nello spionaggio non si era accorta della
presenza della rossa. Spostò dunque lo sguardo dal suo
centro di interesse – che sembrava essere lo stesso di Eve
– e lo portò su questa, che ancora la fissava
sconcertata.
«Eve? - domandò, sorpresa quanto l’altra
– Sei tu? »
«Non ci posso credere.»
Olivia Thompson era stata una delle amiche più care ad Eve
durante l’infanzia passata nella capitale inglese; si erano
conosciute ad un maneggio nei pressi di South Kensington, condividendo
così, ogni pomeriggio, la passione per
l’equitazione. Da lì avevano stretto una forte
amicizia, che aveva cominciato ad affievolirsi solo con
l’arrivo dell’adolescenza e conseguentemente con lo
sviluppo di interessi diversi.
Liv la raggiunse velocemente, abbassando lo sguardo mentre passava
davanti la vetrata del ristorante, – come per evitare di
farsi vedere dalle persone al suo interno – e la cinse in un
forte abbraccio.
«Che ci fai qui? Pensavo vivessi a
Londra!» affermò, allargando le braccia.
«Potrei dire lo stesso – ribatté la
rossa, guardandola sottecchi – comunque studio giurisprudenza
all’università. Tu?»
«Idem. Ho deciso di venire qui a Bristol con il mio migliore
amico Will, non so se lo hai mai conosciuto. – Eve
impallidì, collegando per un attimo la figura del migliore
amico di Liv con quella di Will, lo spasimante della sua Grace. Poi
scosse la testa, pensando tra sé e sé che
l’Inghilterra era piena di ragazzi soprannominati in quel
modo, e dunque doveva essere soltanto una simpatica coincidenza.
– Alto, biondo, capelli corti… sopracciglia buffe
tipo le mie. »
Al sentire quell’ultima frase, Eve si rese conto che era
arrivato il punto in cui doveva ammettere a sé stessa che
quella era tutt’altro che una simpatica coincidenza, e che
Liv si era appostata al freddo e al gelo per controllare
l’andamento dell’appuntamento del suo migliore
amico, esattamente come aveva fatto la rossa.
« Ah certo, il ragazzo seduto a quel tavolo con quella
ragazza… – disse identificandolo, sporgendosi un
pochino per indicare il tavolo in cui Grace e Will stavano ridendo e
scherzando – che si da il caso sia la mia migliore amica.
»
Liv boccheggiò, puntando l’indice con
fare incredulo prima su Eve e dopo su Grace, più di una
volta, mentre la rossa annuiva silenziosamente.
«Quindi anche tu… - cominciò la bionda,
bofonchiando – eri qui per…»
«Per…»
«Riportare qualcosa
alla tua migliore amica!» esclamò cercando di
trovare un alibi, ma nemmeno lei era convinta di ciò che
aveva appena affermato.
«Senti Liv, – incominciò
l’altra, cingendole le spalle con un braccio – che
ne dici se entriamo dentro a spiarli invece di stare qui fuori a morire
dal freddo?»
«Andata.»
La serata proseguì tranquillamente, tra una chiacchera e
molti bicchieri di vino; grazie a questi e all’effetto
inibitorio dell’alcool, inoltre, i due erano riusciti ad
aprirsi totalmente, toccando i più svariati – ed
anche privati – argomenti.
Grace era stata bene come non le succedeva da tanto. Condividere una
serata con un individuo di sesso maschile era stato facile, nonostante
le delusioni passate che l’avevano portata a provare una
forte diffidenza verso chiunque.
Quando lui la riaccompagnò
al dormitorio, una volta finita la cena, gli lasciò un
delicato bacio sulla guancia un po’ arrossata;
ripensò varie volte a quel gesto quando si sdraiò
a letto, ma non se ne pentì minimamente.
Will, dal canto suo, avrebbe voluto mordere quelle labbra carnose che
si erano poggiate per un breve istante sulla sua pelle; ma sapeva bene
che ancora non era il momento e che bisognava dare tempo al tempo.
Quella serata non era stata che l’incipit di un qualcosa,
ancora indefinibile, ma che sicuramente si sarebbe protratto nel tempo.
- - -
Perdonatemi amici!
Sono stata e – sono tutt’ora –
occupatissima con la sessione invernale, ho ancora da dare un solo
esame e poi mi potrò dedicare anima e corpo a questa
fanfiction.
Beh? Cosa ve ne pare? Sinceramente pensavo di poter fare di meglio, ma
purtroppo questo è quello che è uscito e non ho
tempo per riscriverlo. hahaha
Sono carini Grace e Will eh? E Liv&Eve versione totally spies?
Okay, sto delirando e dovrei studiare.
Tra l’altro mi sono appena resa conto che sto per pubblicare
questo capitolo, intitolato l’Appuntamento, il giorno di San
Valentino. Ebbene, non è una cosa voluta.
Io odio San Valentino. Con tutta me stessa.
Grazie per il sostegno, a chi ha messo questa fanfiction tra le seguite
e che ogni volta perde del tempo a leggere e recensire i miei deliri.
Grazie ad Irene, Gabri, Angelica, Sofia ed Elvira.
Un bacione, Fra.