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Autore: AnnabethJackson    15/02/2014    12 recensioni
| Percabeth | AU |
---------------------------TRAMA---------------------------
Annabeth ha 18 anni quando viene violentata. Subisce un trauma così profondo che non riesce più a sorridere, a ridere,a vivere. Nessuno è in grado di aiutarla ad uscire da quella bolla di indifferenza in cui è intrappolata.
Due anni dopo Annabeth non è diversa da quella maledetta sera, e il padre, l'unico uomo di cui lei si fidi ancora, non riesce più a vederla riversa in quello stato. Così convince la figlia a partire per il Brasile in veste di insegnante, ed è così che la ragazza fa una promessa a sé stessa: nulla avrebbe dovuto rinvangare il suo passato.
Annabeth però non sa che la scintilla perduta è proprio dietro l'angolo della bella Rio, mascherata da un ragazzo da cui deve stare lontana, dei bambini che amano la vita, e un amore inaspettato, per nulla voluto, ma in grado di innescare il processo di rinascita inevitabile.
------------------------DAL TESTO------------------------
«Non voglio spaventarti, non voglio allarmarti e sopratutto non voglio metterti fretta. Accettalo e basta. È importante che tu ti prenda tutto il tempo necessario, ma ho l'urgenza di dirti che...» mormorò.
E poi accadde, senza alcun preavviso. «Ti amo, Annabeth.»
Genere: Generale, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nico di Angelo, Percy/Annabeth
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Love the way you live - La raccolta'
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Disclaimer:
'Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro'.

 
Capitolo 4


Rio de Janeiro, 20 Giugno 2012

Annabeth


Il silenzio regnava nell'abitacolo in moto. Era spezzato solo da qualche rumore sinistro del motore e dai clacson che suonavano ininterrotti per le strade. Ma, a differenza di New York e del suo traffico, lì la gente guidava con calma, senza fretta, come se il tempo fosse stato un cane al guinzaglio, capace di imparare il proprio controllo. Le persone camminavano molto, troppo, lentamente sui marciapiedi, fermandosi ogni cento metri per scambiare due, ma anche quattro, chiacchiere con conoscenti.
Beh, non ero proprio sicura che tutte quelle persone si conoscessero. Era umanamente impossibile. Okay che da due anni a quella parte la mia vita sociale si era ridotta ai minimi storici, ma nell'arco della mia vita non avevo mai conosciuto così tante persone.
I lampioni, posti a cento metri l'uno dall'altro, erano già stati attivati. Proiettavano una luce abbastanza fioca sulla strada imbrunita dal calar del sole brasiliano, ma abbastanza luminosa da poter guidare senza troppi problemi di vista.
Al mio fianco, Grover, guidava con gli occhi ben piantati sulla strada. Si districava nel poco traffico con ammirabile destrezza, scartando le altre auto come facevano i giocatori di calcio quando erano in possesso di palla.
I semafori, incredibilmente, diventavano verdi appena lui si avvicinava.
Prese per sbaglio una tombino particolarmente ricurvo, che fece sobbalzare il furgoncino e, di conseguenza, anche noi.
Un salto, un tonfo sordo e poi, dai sedili posteriori, un gemito di dolore. Dallo specchietto retrovisore vidi Jackson-il-cafone massaggiarsi la testa con una perfetta smorfia sul volto. Aveva picchiato la testa sul tettuccio del furgone.
Grover sorrise di sfuggita nello specchietto retrovisore.
-Scusa Percy, sto cercando di evitare la maggior parte di buche ma sono così tante che è impossibile non beccarne almeno una.- si scusò.
-Non fa niente.- borbottò Jackson portando il braccio al finestrino e appoggiandoci sopra la testa.
Gli occhi di Grover tornarono attenti alla strada che si era fatta più irregolare. I palazzi cominciavano a farsi via via più radi, mentre gli alberi aumentavano.
All'improvviso lo sterrato si fece ghiaioso, mentre l'asfalto diventava una macchia scura alle nostre spalle.
Guardai l'orologio che portavo al polso, e mi accorsi che era passata già una buona mezzora da quando eravamo partiti dall'aeroporto.
Grover, dopo avermi lanciato un'occhiata fugace, mi rassicurò.
-Tranquilla, siamo quasi arrivati. Come avrai già capito, la casa non è proprio in centro città.- piccola risatina. -Anzi, è tutt'altro che in centro.-
Ci lasciammo alle spalle l'ultimo lampione funzionante per immergerci nell'oscurità. Solo i fanali del furgoncino proiettavano abbastanza luce conica da poter orientarsi in quel buio pesto.
Lo sterrato ghiaioso era diventato di terra arida. Una serie infinita di alberi, prevalentemente querce e pini, incorniciavano il limite della strada, aiutando il guidato nell'arduo compito di guidare.
Avevo preso la patente a 17 anni, sotto suggerimento di mio padre che era un amante delle auto, nella speranza che anch'io mi appassionassi ai motori. Sfortunatamente vedevo questa possibilità solo come un'esigenza di trasporto invece di un eventuale hobby.
Avevo passato l'esame al primo colpo, ma da allora non avevo guidato molte volte, forse perché non avevo un'auto mia. Non che ne desiderassi una.
Piper, invece, subito dopo aver compiuto i 16 anni, si era messa e pregare in ginocchio il padre perché le comprasse un'auto. Voleva essere indipendente dall'autista che tutti i giorni l'accompagnava a scuola con quella specie di limousine bianca da ricchi.
All'improvviso la cintura si tese sul mio petto, schiacciandomi il seno e riportandomi bruscamente con la schiena sul sedile. Accanto a me, Grover girò la chiave e sentii il motore spegnersi, come un bambino che smette gridare per ottenere attenzioni.
Congiunse le mani sotto al mento, producendo un suono sordo, compiaciuto.
-Siamo arrivati.-
Lentamente, come avevo fatto quella mattina prima di entrare in aeroporto, aprii la portiera, scendendo.
Il terreno pendeva leggermente alla mia destra, segno che fossimo su una collina.
Per il resto non vedevo nulla intorno a me. Un leggero venticello riscaldò quella sera calda, facendo muovere le foglie degli alberi che, presumevo, circondassero quella piccola radura in cui avevamo parcheggiato.
Circumnavigai la macchina, mettendomi al fianco di Jackson che era sceso dal furgoncino e aveva lasciato la portiera aperta, permettendo ad una fievole luce di illuminare i nostri bagagli.
In una mano teneva una grande valigia, nell'altra uno zainetto nero. Quello che era rimasto all'interno del furgoncino era mio. E, per la terza volta in una giornata, non sapevo come trasportare il tutto.
Per fortuna, senza che dicessi niente, Grover infilò metà busto nell'abitacolo, uscendone poi con una delle mie valigie per mano.
-Devi solo prendere la terza.- disse sorridendomi.
-Grazie, Grover.- accennai un piccolo sorriso di gratitudine mentre recuperavo l'ultimo, maledetto, bagaglio.
Grover ci fece strada e, dopo aver spostato un paio di cespugli che intralciavano il sentiero, davanti a noi comparvero delle luci provenienti, evidentemente, da una casa.
-Vi presento fattoria Ferreira, la vostra casa.- disse Grover e, malgrado fossimo al buio, lo sentii sorridere. -Beh, in verità non è una fattoria, ma tutti la chiamano così perché... ve lo lascio capire da soli. Su, forza, seguitemi.- cominciò a camminare a passo spedito verso la casa e io e Jackson lo seguimmo adattandoci al suo passo calzante.
Rischiai di finire con la faccia a terra per due stramaledettissimi gradini a due metri della porta di ingresso, ma, grazie a quella stessa valigia che avevo maledetto più volte nell'arco di una giornata, riuscii a bloccare la caduta.
Ovviamente Jackson, che era dietro di me, non perse l'occasione di sbuffare divertito ma, perlomeno, pensò bene di non commentare.
Mi affrettai a raggiungere Grover che, nel mentre, si era fermato sulla soglia di quella che doveva essere la porta di ingresso. Riuscivo solo a distinguere i contorni di una porta di legno e il luccichio della maniglia di ottone.
Allungò una mano per stringere una cordicella che pendeva da un punto imprecisato accanto alla porta e tirò. Subito il suono di una campane si librò in quella serata afosa, facendomi sussultare dalla sorpresa.
Di spalle, Grover ci fece un cenno.
-Ragazzi preparatevi perché una volta varcata la soglia della fattoria non potrete più dormire sonni tranquilli.- poi di mise a ridacchiare per qualcosa solo a lui comprensibile.
Non feci in tempo nemmeno a rimuginare sulle sue parole che la porta si aprì, accecandomi per la luce improvvisa che ci prese sotto la sua ala luminosa.
-Mis Niños! Siete arrivati!- una voce dal timbro profondo, vivace e femminile sferzò il silenzio dell'aria, e io mi sentii pervadere da un calore famigliare.
Una donna dalle curve generose si stagliava controluce, occupando buona parte dell'entrata. Viso lineare, fianchi prosperosi, gambe lunghe. I contorni era scuri, per il contrasto con la luce, ma comunque nitidi.
-Stavo cominciando a preoccuparmi. Lasciatevi abbracciare, niños!- non ebbi neanche il tempo di memorizzare tutti i dettagli di quella figura, che mi sentii stringere le spalle da un braccio forte, e il fiato mi si arrestò. Al mio fianco sentii un suono strozzato bloccarsi sul nascere. Jackson, ovvio.
Con la stessa velocità in cui mi ero trovata stretta in quella trappola, mi ritrovai altrettanto libera.
Ero confusa.
Il mio maglione si era impregnato di un odore dolciastro, sembrava quasi... latte?
Perché mi sembrava così famigliare?
-Ma come siete magri! Sicuri di mangiare abbastanza?- con la coda dell'occhio vidi gli angoli della bocca di Grover tremolare a causa delle risa trattenute. -Oddio che scortese che sono. Forza, su, entrate!- mi sentii prendere per un polso per venire, poi, trascinata all'interno della casa.
La prima cosa che vidi fu un gatto dai grandi occhi gialli fissarci, appollaiato su una poltrona bordeaux proprio difronte a me, ad una notevole distanza dall'entrata. Annoiato, ritornò a chiudere quei suoi occhi vispi subito dopo.
-Lasciate pure qua le valigie. Underwood si assicurerà di portarle nelle vostre stanze prima che andiate a dormire.- disse la donna gesticolando freneticamente con le mani grassocce. -Mis niños vi do il benvenuto nella fattoria Ferreira! Io sono Chintia.- allungò entrambe le mani, imprigionando la mia destra e la sinistra di Jackson in una poderosa stretta.
-Tu devi essere Percy. Hai una faccia troppo coccolosa.- squittì, per quanto una donna delle sue dimensioni potesse squittire, rivolgendosi al ragazzo accanto a me. -Sei un ragazzo adorabile.- stritolò le guance del ragazzo che, dal canto suo, diventò paonazzo.
Sogghignai tra me e me ma durò poco, perché Chintia mi si parò davanti subito dopo... potrei giurare che il suo sorriso assomigliava incredibilmente a quello di una pazza.
-E tu sei Annabeth. Fatti abbracciare ancora.- e, di nuovo, soffocai in quell'abbraccio troppo grande per me, in tutti i sensi.
Non riuscivo a credere ai miei occhi; quella donna era incredibile!
-Cielo, Chintia, lasciali respirare! È tutto il giorno che sono in viaggio... non so voi ma io ho una fame caprina!- Grover si massaggiò la pancia con le mani. -Credo che andrò a prepararmi un panino. Intanto voi conoscetevi e... basta.- non ebbi neanche il tempo di metabolizzare la frase che Grover era sparito lungo il corridoio.
-Ehi, Underwood! Non ti azzardare ad intaccare la dispensa!- in pochi istanti anche Chintia se ne era andata, lasciandoci soli lì, davanti alla porta, in una casa sconosciuta.
Calò uno strano silenzio; la mia testa era occupata da un tante di quelle cose, che un mal di testa prese a martellare le mie povere meningi. Ed era un male, perché io non dovevo pensare.
Jackson si mordicchiava un labbro in un modo che mi ricordava un bambino preoccupato, ma poi sospirò e posò i suoi occhi su di me.
-Allora, credo che...- alzai una mano di scatto, fermandolo in principio.
-Zitto, non dire nulla. Ne ho già avuto abbastanza di te per oggi. Anzi per l'intera settimana! E visto che dobbiamo in qualche modo lavorare assieme, voglio che tu stia zitto almeno fino a domattina.- dissi stancamente.
Era stata una giornata lunghissima.
Lui spalancò gli occhi.
-Ma...-
-Niente ma. Ripeto: sei maleducato e io non sono venuta qui solo per incontrare un'altra stronzo. Ne ho conosciuti fin troppi ed uno più, presumo, non mi aiuterebbe affatto. Anzi...- non volevo assolutamente dirlo. Cazzo, quelle parole mi erano scappate di bocca prima ancora di passare per i controlli del mio cervello.
Se non altro erano servite a zittirlo.
Dovevo andarmene alla svelta prima di crollare definitivamente.
-Ora, scusami, ma sono stanca e ho sonno.- gli diedi le spalle mentre percorrevo il corridoio a passo spedito, in cerca di Chintia. Se solo avessi esitato un momento di più, avrei visto una nota di delusione sul volto di Jackson.
In qualche modo, guidata dalla squillante voce di Chintia che gridava contro Grover, riuscii a trovarla in quella che doveva essere la cucina.
La donna teneva in mano un mestolo di legno puntato sul povero Grover in evidente difficoltà.
-Scusate. Chintia potresti indicarmi la mia stanza? Sono molto stanca.- dissi accennando un sorrisetto di scuse.
Lei abbassò il mestolo all'istante e la sua espressione, dapprima ostile e arrabbiata, si addolcì.
-Ma certo niño, seguimi.- prima di uscire dalla cucina, minacciò Grover con il cucchiaio che, ancora, aveva in mano.
Salimmo due rampe di scale poco ripide che portarono ad un altro lungo corridoio non illuminato.
-Povera cara, dovrai essere molto stanca! Quando viaggiavamo io e Pepito finivamo sempre per addormentarci prima di cena, il che è tutto dire, visto che il suo costante pensiero era rivolto al cibo.- ridacchiò tra sé e sé, ma nella sua voce scorsi una nota di tristezza che non riuscii a identificare. Chi era Pepito?
Non ebbi il tempo di chiederglielo perché Chintia aprì una porta alla nostra destra, accendendo la luce della stanza.
-Eccoci qua. Questa è la stanza che ti ho riservato. Certo, venendo da New York, sarai abituata a dormire in una suite, di quelle che si vedono nei film, e questa decisamente non lo è. Mi dispiace, ma è tutto quello che posso offrirti.- sarebbe andata avanti ancora per chissà quanto tempo, ma avevo davvero un gran mal di testa e il mio corpo pretendeva un materasso all'istante.
-Chintia, va benissimo. Grazie. Non potrei chiedere di meglio.- e, in via del tutto eccezionale, le sorrisi, sincera. Uno di quei sorrisi che non si vedevano da due anni.
Lei sembrò rincuorata, così, sorridendo radiosa, mi baciò su una guancia. Sentii ancora quello strano profumo dolciastro.
-Tra poco Grover ti porterà i bagagli. Ho cambiato le lenzuola stamattina, quindi sono fresche di bucato.- disse prima di uscire dalla porta.
-Aspetta! Non disturbare Grover per nulla. Posso fare benissimo a meno dei bagagli per una notte.-
-Oh, se sei convinta... Buonanotte cara, ci vediamo domani mattina.- un ultimo sorriso e un'ultima raccomandazione. -Ah, e per qualsiasi cosa puoi bussare alla stanza difronte. Grover è sempre pronto ad aiutarti.- e poi uscì dalla stanza, chiudendo la porta dietro di sé.
Ero sola. Finalmente.
Spensi la luce rimanendo al buio, il mio amico e compagno di segreti nelle notti più difficili.
Due passi e mezzo giro dopo, il mio corpo poté adagiarsi su una superficie morbida.
Subito i pensieri richiamarono la mia attenzione. Volevano essere posti al centro del palco, sotto la luce del riflettore, uno per uno.
In una sola giornata avevo conosciuto più persone che nell'intero anno all'Università. Non potevo basarmi solo su qualche ora, o minuto che fosse, per poter giudicare Chintia, Grover e, a malincuore, Jackson.
Ma c'era qualcosa, qualcosa che mi portava a non fidarmi di quel ragazzo.
E, ovviamente, io che avevo fatto?
Mi ero lasciata sfuggire quella cosa. Mi ero esposta fin troppo con uno sconosciuto che, per di più, si era comportato da stronzo ancora prima di conoscere il suo nome.
Nessuno deve venire a conoscenza del mio passato. Per nessun motivo.”
Era la promessa che mi ero fatta quella mattina.
Basta, dovevo smetterla di pensarci. Molto probabilmente Jackson avrebbe preso quelle parole come una provocazione e la mattina dopo mi avrebbe risposto per le rime.
Sospirai profondamente, poi mi alzai e mi spogliai al chiaro della luna che risplendeva dalla finestra, rimanendo solo con canottiera e mutande addosso. Faceva molto caldo e, sicuramente, non avrei avuto bisogno di altri indumenti. A passo lento raggiunsi il bordo del letto, scostai coperta e lenzuolo rosa pallido per coricarmi al loro interno.
La mia testa affondò nel batuffolo di piume morbide che era il cuscino. In un certo senso mi ricordava tanto quello che avevo a casa.
Ma quella non era casa mia, quello non era il mio letto, quella non era la mia vita. Mi sarei dovuta adattare anche a quella nuova situazione.
Come sempre.
Le palpebre sbattevano sempre più lentamente e, ad ogni salita e discesa, si fermavano sempre più vicine all'argine che tratteneva le lacrime quando, queste, minacciavano di cadere.
Mi stavo addormentando.
I can fly but I want his wings. I can shine even in the darkness but I crave the light that he brings. Revel in the songs that he sings my angel Gabriel.”
La voce delicata di Lamb mi destò mentre le prime parole di I can fly richiamavano l'attenzione al grumo di panni assiepati sulla sedia adiacente alla porta.
Mi ero scordata di disattivare la suoneria.
Maledicendo chiunque avesse avuto l'idea malsana di chiamarmi proprio mentre accoglievo a braccia aperte il mondo dei sogni, recuperai quell'aggeggio maledetto dalla tasca posteriore dei miei jeans.
Senza neanche guardare il mittente, premetti il tasto verde.
-Annie! Sei arrivata? Come è andato il viaggio? Su, forza, voglio sapere tutto dettagliatamente.- la voce squillante e fin troppo allegra di Piper scacciò definitivamente la mia speranza di tornare presto tra quelle coperte così accoglienti.
-Piper, ma lo sai che ore sono?- chiesi malgrado non lo sapessi nemmeno io.
-Beh... il mio orologio fa le 19 meno dieci, ma probabilmente è indietro. Perché? Non dirmi che sei già a letto come una vecchia bacucca! Caspita sei in Brasile.- guardai l'orologio posto sul comodino.
22,05.
Io l'avrei strozzata presto.
-Piper, santo cielo, non hai pensato al fuso orario?- chiesi sospirando.
Un silenzio colpevole dall'altro capo del telefono.
-Ooops. Oh mamma santa, me ne sono completamente dimentica! Scusami, Annie, davvero.- riuscii a figurarmi la sua faccia dispiaciuta così bene che non potei rimanere arrabbiata con lei oltre.
-Non fa niente.-
-Comunque, raccontami tutto!- come non detto. -Il viaggio è stato bello? Ti hanno servito champagne come nei film? Hai conosciuto qualche raga...- si interruppe all'improvviso e io sapevo perché.
Dopo che io... dopo quella sera, Piper si era sentita responsabile di quello che era accaduto, e si accusava di non avermi riaccompagnato a casa perché si era ubriacata. Io avevo cercato in tutti i modi di farle capire che non era affatto colpa sua, né di nessun altro, ma lei sotto sotto continuava a crederlo. Era stata l'unica a rimanermi vicino in quel delicato momento. Non avevo la forza di uscire con gli amici così, a lungo andare, loro avevano rotto i legami con me. Ma lei no.
Entrava in camera mia, un giorno si e l'altro no, senza bussare, e mi coinvolgeva nei suoi progetti per la giornata, che volessi o no farli di mio volontà. Al momento mi aveva dato fastidio e non poche volte Piper aveva dovuto usare le cattive maniere per destarmi dal mio letargo, se necessario anche urlando brutte cose.
Tanto a me non importava.
Ma dopo un po' mi ero accorta di provare non poca riconoscenza nei suoi confronti. La mia Piper mi aveva aiutato, come io avevo fatto con lei prima di diventare amiche.
Era il mio personale uragano, fatto di smalti e sorrisi.
Evitava come la peste quell'argomento, ma quando, sovrappensiero, si metteva a parlare di ragazzi, ad un certo punto del discorso si bloccava come se avesse commesso chissà quale reato.
Le volevo molto bene, davvero, e il fatto che fosse così attenta a non urtare la mia sensibilità mi faceva provare stima nei suoi confronti, ma alcune volte volevo solo che lei continuasse a parlare, per riuscire a sentirmi, almeno una volta, una ragazza con una vita normale.
Sorrisi.
Paese nuovo, vita nuova, eh? Tanto valeva provarci.
-Ragazzi carini non ne ho visti. Ma ho conosciuto un ragazzo che è venuto in Brasile per partecipare al mio stesso progetto e...- neanche il tempo di concludere la frase che Piper partì in quarta.
-Annie che bello! Allora, com'è? Bello?-
-Piper, fermati. Non è come pensi tu.-
-Oh...- era evidentemente confusa.
-È un maleducato di prima categoria. Mi ha spintonato senza chiedermi scusa e poi ha avuto il coraggio di svegliarmi sull'aereo. E io gli ho...- la voce mi si ruppe sulle ultime parole. Era come se tutta l'energia accumulata in quei pochi minuti di conversazione se ne fosse andata. All'improvviso avevo solo voglia di sdraiarmi e dormire. Per non pensare.
Grazie al cielo Piper sembrò capire che l'argomento era delicato. Era molto brava a capire gli stati d'animo delle persone.
-Sarai stanchissima. Ora ti saluto così puoi dormire e riposarti.- disse premurosa.
-Piper?-
-Si?-
-Grazie.- ero sincera.
-Buonanotte tesoro, ti voglio bene.-
-Anch'io, Piper. Molto.-
Appena poggiai la testa su quel cuscino morbido e chiusi gli occhi, nella mia testa presero forma tante nubi bianche, soffici e morbide come quel guanciale.
Oltre mia ogni previsione, quella sera fu facile addormentarmi senza pensieri.


-Vamos, princesa, es hora de despertar! ¹ - Sbattei le palpebre ma la luce era troppo intesa per tenerli aperti, così li dovetti richiudere.
Gemetti. Sentivo già la mancanza di quel letto così morbido, malgrado non mi fossi ancora alzata.
Come iniziare bene una giornata.
Una figura si chinò su di me. Lentamente riaprii gli occhi, mettendo a fuoco il viso paffuto di Chintia. Un sorriso radioso le illuminava quel volto abbronzato, mentre le rughe di espressione si ramificavano dai suoi occhi dolci.
-Lo sai che quando dormi sei dolcissima? Mi ricordi tanto la mia Rita.- sorrise appena mentre raddrizzava il busto e raggiungeva la porta.
-La colazione è pronta. I tuoi bagagli sono appena qui fuori, Grover te li ha portati su questa mattina. Spero che il bacon e le salsicce ti piacciano perché hai bisogno di mangiare. Sei troppo sciupata.-
Mi serviva qualche secondo per raccogliere le forze -e il coraggio- per sostenere quella giornata. In qualche modo temevo il momento in cui mi fossi trovata faccia a faccia con Jackson.
Scossi la testa, scacciando quei pensieri. Sicuramente lui non ricordava neanche quello che gli avevo detto.
Un brontolio mi riscosse e, con sorpresa, mi accorsi che avevo fame. La sera prima non avevo mangiato praticamente nulla a causa del jet leg e di altro.
Sbirciai nel corridoio ma non c'era anima viva. Tutte le porte erano chiuse e solo le mie valigie stonavano con il vuoto del corridoio.
Le recuperai, presi un paio di pantaloni e una maglietta viola e poi, andando a tentoni, trovai il bagno appena dopo la stanza di Grover.
Scesi le scale ed entrai in cucina che, rispetto alle altre stanze, era grande il doppio.
Un grande tavolo lungo era posizionato al centro, con una decina di posti a sedere. La cucina e i vari scompartimenti erano posizionati al lato destro, e correvano lungo tutto la parete.
Fin troppo modesto per me che non ero una cima nella cucina.
Chintia era di spalle, indaffarata tra un paio di padelloni, coltelli e affettatrici. Raggiunsi il tavolo, sedendomi di fronte ad una tovaglietta e una scodella a fiori.
-Principessa preferisci salsiccia oppure bacon?- sorridendo dolcemente mi raggiunse, munita di padella e forchetta. -Uhm... direi che vanno bene entrambe. Hai bisogno di mangiare, e non ti azzardare a dire che sei grassa. Io non ci casco.-
Non ebbi neanche il tempo di ribattere perché una palla di pelo calda prese posto sulle mie gambe, mettendosi comoda.
Abbassai lo sguardo e, sorpresa, vidi che un gatto dal pelo folto e dai riflessi candidi stava sbadigliando già con gli occhi chiusi.
-Frappola scendi subito dalle gambe di Annabeth!- il cipiglio comparso sul volto di Chintia mi fece capre che si stava rivolgendo al gatto.
-Frappola?- chiesi divertita. Era la prima volta che sentivo quello strano nome.
-Si, è una lunga storia.- disse Chintia riponendo il grande pentolone sul fornello e venendo a sedersi alla mia destra.
-Comunque gli piaci. Ed è strano perché di solito odia tutti quelli che vengono qui. Solo i bambini riescono ad interagire con lui.-
Presi ad accarezzare il capo di Frappola che era morbido al tatto. Sembrò gradire molto quelle carezze perché fece le fusa.
Chintia sorrise.
-È un dormiglione come pochi. Passa praticamente i tre quarti della giornata a dormire fuori al sole. Rientra solo alla sera, quando gli ultimi raggi illuminano l'orizzonte.-
Quando ero piccola desideravo molto un gatto. Avevo pregato molto la mamma perché me ne comprasse uno, ma lei tergiversava sempre dicendo che non aveva il tempo di badarci e che sarebbe costato molti soldi. Mi sentivo sola.
Ad un certo punto, vedendo che ricevevo solo risposte negative, avevo smesso di chiedere, richiudendomi in stanza, ancora una volta, sola.
Poi mamma se n'era andata ed eravamo rimasti solo io e papà. Ma non provai mai a fargli quella richiesta. Mi sembrava già fin troppo triste.
Io ero troppo triste e avevo perso l'interesse.
Sentii dei passi e delle risate fuori dalla porta della cucina, poi questa si aprì e un leggero venticello afoso mi solleticò le braccia scoperte.
-Credo che potremmo iniziare a lavorarci nel pomeriggio. Che ne dici?-
Grover entrò a grandi passi, tenendo aperta la porta a Jackson e sorridendogli.
-Si credo si possa fare. Avremo bisogno di nuovi pezzi.- commentò quello sedendosi su una sedia del grande tavolo. Con mia grande sorpresa si girò a guardarmi e... sorrise?
-Buongiorno, Chase.-
Stop, stop, stop.
Mi aveva... salutata?
Ero doppiamente confusa. Feci l'unica cosa che mi veniva in mente in quel momento.
Abbassai il capo sul mio piatto e lo ignorai.
-Non preoccuparti, a quelli ci penso io.- disse Grover annuendo. -Buongiorno Annabeth! Dormito bene?- non dovevo mostrargli di essere sorpresa.
-Si, grazie.- accennai un sorriso a Grover.
-Ma dove eravate finiti?- chiese Chintia. -Lo sapete che tra poco dovete partire?-
-Si certo, è una settimana che me lo ripeti.- disse Grover evidentemente esasperato.
Dalla faccia consapevole di Jackson capii che tra tutti ero l'unica a non sapere di cosa stessero parlando.
-Ehi, fermi un attimo. Partire per andare dove esattamente?- la mia domanda era rivolta a Chintia ma fu Jackson a rispondere.
-A trovare i bambini, ovvio. Siamo qui per questo, giusto?- okay, qualcosa non andava. Davvero Jackson mi aveva risposto ben due volte in modo gentile?
Pensando alla sua risposta, però, mi diedi della scema. In qualche modo non avevo più pensato al motivo per cui ero in Brasile.
-Esatto. Il direttore della casa della comunità vi vuole incontrare per spiegarvi come è organizzato il tutto. Poi Grover vi accompagnerà a far visita ai bambini. Oh, esos pobres angelitos! ² Che Dios li benedica.- Chintia aveva gli occhi lucidi dalla commozione, ma non ne capivo il motivo.
-Preparatevi perché quest'esperienza vi rimarrà nel cuore per molto tempo. Ho visto molte persone venire qui e cambiare dopo aver visto quei bambini. E sono sicura che questo capiterà anche a voi, ninos.- con la mano rugosa mi accarezzò una guancia, temporeggiando con il pollice sul mento.
Il suo tocco era caldo e confortevole.
I suoi occhi nocciola catturarono i miei e in essi vi lessi una sofferenza velata da qualcosa. La stessa sofferenza che vedevo quando guardavo il mio riflesso allo specchio del bagno dopo una notte difficile.
Distolsi lo sguardo quando quello divenne troppo pesante da sostenere.
Avevo impiegato anni a recuperare un po' di sicurezza e controllo per sopportare quel fardello nei momenti più duri.
Ma in quel momento, conoscere un briciolo di quello che vedevo negli occhi di Chintia, mi avrebbe fatta crollare irreparabilmente.


















¹ Vamos, princesa, es hora de despertar!: Forza, principessa, è ora di alzarsi!
² Oh, esos pobres angelitos!: Oh, quei poveri angioletti!
(³) Ninos: bambini








Link 1
Cliccando sul primo link potete vedere un disegno della fattoria Ferreira (la casa) come la immagino io (sull'orizzonte c'è il mare e la città)
Link 2
Cliccando, invece, sul secondo link potete guardare la piantina della casa, con tutte le stanze indicate e la loro funzione.
N.B. Entrambi i disegni solo e soltanto da me.
Non rispondo di eventuali sbocchi per gli obbrobri disegnati XD.








Note fine capitolo:
Giorno eroi! Eccomi qui, puntuale come un orologio svizzero (in verità è il contrario ma va beh). Il quarto capitolo (voglio sentiro un'holà di “ooooooohhhhh”).
L'ho finito di scrivere ieri mattina invece di andare a scuola XD dettagli ;)
L'importante è che voi siate felici, che io sia felice, che tutti siamo felici, no?
La canzone fissa della settimana è “Let Her Go” di Passenger... ennesima canzone che non riesco a smettere di ascoltare.
Allora passiamo al comento del capitolo che lè mei (detto nel mio dialetto locale).
Annabeth e Percy sono arrivati in Brasile e hanno conosciuto Chintia, la donna che si occupa della casa che li ospita.
Annabeth dice a Percy quello che pensa e si lascia scappere dei piccoli indizi sul suo passato... beh un leggero cambiamento in Percy lo potete leggere verso la fine.
Non chiedetemi dove sono andata a prendere il nome Frappola per il gatto perché non lo so nenanche io XD Vi piace?
Allora che ne pensate del capitolo?
Passiamo ai ringraziamenti;
Grazie alle 8 (SERIAMENTE?!) persone che hanno recensito lo scorso capitolo, a tutte quelle che hanno aggiunto la storia alle preferite, ricordate, seguite. Non mi stancherò mai di dirlo: GRAZIE DI CUORE!
Ringrazio anche la mia beta Sara (la mia mogliettina <3).
I disegni che trovate sopra nei link non sostituiscono le descrizioni del testo. Ve li mostro solo e soltanto per far rendere meglio quello che immagino io.
Al prossimo Sabato.
Bacioni
Annie


Indovinello: Per il personaggio di Chintia mi sono ispirata ad un personaggio di un'altro libro che praticamente tutti conoscono (e che è uno dei miei preferiti). Vediamo chi indovina! (suggerimento: basatevi tanto su quello che dice).






Per chi interesasse ho pubblicato una OS Percabeth (che non ha alcun legame con questa storia) in occasione di San Valentino. Auguri, anche se in ritardo. --> Ripetizioni... bollenti  
  
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