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Autore: TheRebelInk    16/02/2014    2 recensioni
-Fermati! – urlai correndogli incontro – No! Fermo! Non lo fare! Aspetta!
Tremava come una foglia. – Lasciami in pace!
-No! Scendi per favore! Non sai quello che stai facendo!
- TU non sai quello che stai facendo! – e si alzò in piedi. Ero nel panico, disperata. Non sapevo come fermarlo e lui sembrava sempre più deciso.
- Come ti chiami? – gli chiesi.
Lui esitò poi, tra le lacrime, rispose:- Ettore.
Due vite.
Le stesse scelte.
La storia di come ognuno di noi può rialzarsi anche nei momenti più difficili.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Capitolo 1
 
BET
 
Non ero stata costretta a sopportare la scena in cui mi tradiva con una di quelle sgualdrine che potevi comprarti per l’intervallo ogni giorno al liceo. Christian mi chiamò subito dopo pranzo e mi chiese di incontrarci al bar sotto casa sua. Non era strano, lo facevamo quasi tutti i giorni.
-Ciao amore! – Gli saltai letteralmente addosso e lo baciai con delicatezza.
-Ciao Bet.
Christian ricambiò il bacio con riluttanza e me ne accorsi.
-Qualcosa non va?
Si staccò da me, mi prese per mano e andammo verso il parco.
-Chris, che succede? – chiesi perplessa e ingenua.
Prese un respiro profondo e i suoi occhi si posarono oltre la mia spalla, sulla città.
-Quel qualcosa che non va, Bet… sei tu. No! Sono io, cioè… siamo noi! – Le sue mani si aprivano e si chiudevano, si agitavano come ogni muscolo del suo corpo e del viso, guizzavano intimorite e nervose come gli occhi della sfumatura più pura dell’acqua, e ora velati da un’ombra che non riuscivo a decifrare. Mi confondeva, ma soprattutto mi spaventava.
-Non riesco a capire Chris… - mormorai. Neanche la calura estiva riusciva a sciogliere il gelo che mi stava attanagliando.
-Bet, io… ascoltami ti prego – disse serio e mi prese le spalle – Sei una delle persone più importanti della mia vita e in questi due anni sono stato davvero felice con te. – Fece una pausa e respirò di nuovo, ancora più forte. – Sarai per sempre come una sorella per me e…
Mi riscossi e aggrottai le sopracciglia, smarrita in un turbinio di pensieri.
-Mi stai lasciando! – bisbigliai in preda al panico.
Chris strinse la presa sulle mie spalle e io mi scrollai le sue mani di dosso. Lo spintonai bruscamente e mi avviai furiosa verso l’uscita del parco.
-Bet, aspetta! Fermati!
Iniziai a correre e l’aria satura di calore mi punse gli occhi. Lasciai scorrere le lacrime mentre il vuoto si impadroniva del mio petto. Corsi senza vedere realmente la strada fino a che non mi trovai davanti proprio Chris, che mi abbracciò. O almeno tentò di farlo, perché io iniziai a gridare e ansimare.
-Calmati, Bet! Sono sempre io!
Mi divincolai con tutte le forze e afferrai la borsa di pelle marrone che avevo a tracolla. Lo colpii ad un fianco e lui, sorpreso, si allontanò.
-Lasciami in pace! Vattene! – urlai stravolta e senza fiato. Avevo gli occhi spalancati per lo stupore e il dolore e lanciai degli sguardi della serie “riprovaci-e-ti-faccio-a-pezzi” a tutti quei bambini che fissavano la scena pietrificati.
Ero allibita. Non potevo crederci. Solo tre ore prima eravamo in classe, seduti al nostro banco come sempre. Ora Chris mi fissava intensamente con timore, ma nei suoi occhi non c’era la minima traccia di senso di colpa. Aveva lo stesso odore, gli stessi abiti, lo stesso taglio di capelli, lo stesso cuore di quando mi aveva dato la buonanotte la sera precedente. Probabilmente aveva meno soldi in tasca e una storiella nel bagno della scuola in più da raccontare ai suoi amici.
Non ci vidi più. Gli lanciai la borsa contro e lo presi per la camicia, strattonandolo verso di me con violenza.
-Siete tutti uguali! Non siete capaci di resistere, voi uomini!
-Bet, non è come credi!
Tirai fuori il suo cellulare dalla tasca dei jeans che indossava e, digitando il PIN, scorsi i messaggi più recenti. Chris fissava il telefono e quando vide i miei occhi farsi ancora più scuri, tentò di liberarsi dalla mia presa ferrea.
-Bet, mi dispiace tanto. Sono stato uno stupido, credimi!
-Sei uno sporco bastardo, figlio di puttana! Ecco cosa sei!
Continuai a inveirgli contro, sputai sulle sue Nike nuove di zecca e per ultimo scagliai il cellulare nella fontana che gorgogliava tranquilla, cancellando così la prova del tradimento di Chris e di quanto avesse approfittato bene della mia influenza il mese prima per farsi più di una delle buone a nulla che gli ronzavano intorno da tempo. Poi scappai verso casa piangendo e il sudore mi fece rabbrividire mano a mano che mi rendevo conto di quanto era appena successo.
-Bet! Che hai? – chiese mia madre vedendomi entrare in corridoio come una furia.
- Niente! – urlai.
-Qualcuno ti ha fatto del male? – I suoi occhi opachi mi fissavano sconvolti mentre sbattevo violentemente la porta della mia camera.
-Nessuno. Ma se come male intendi qui – e strinsi la mano sul petto – allora sì!
Scaraventai le foto in cui compariva Chris contro il muro e aprii gli armadi gettando ogni capo sul pavimento e massacrando tutti i soprammobili. Resi la mia camera una specie di inferno. Dappertutto erano sparsi i ricordi della mia vita: cornici frantumate, magliette e jeans a brandelli, fogli pieni di parole inutili e cuori accartocciati come una vecchia che raggrinzisce. E soprattutto polvere.
Sospesa tra i raggi solari che filtravano dalle persiane, ammantava la stanza, la rendeva ancora più vuota e opaca del mio cuore. Era come se me lo avessero estirpato dal petto. Riuscivo a percepire solo un dolore sordo che si propagava in tutto il corpo, facendo rimbombare la testa; e le gambe, le braccia, perfino gli occhi erano appesantiti dalla consapevolezza che Chris era uscito per sempre dalla mia vita.
Ricordo solo di aver sbattuto le ginocchia sulle piastrelle e mia madre che mi metteva a letto come una bambina che è troppo stanca per reagire dopo aver giocato per molto tempo.
Sognai per la prima volta dopo due anni. Come se finalmente mi fossi svegliata dopo esser stata drogata con un sonnifero. La sua etichetta, mi resi conto, portava il nome di Chris.
Poi mi ritrovai con le lenzuola attorcigliate intorno alle caviglie e la pelle madida di sudore che scorreva salato su ogni centimetro di me, facendolo ardere del dolore che non sarebbe sparito neanche in cento anni. La mia ferita non si sarebbe mai rimarginata, avrebbe continuato a sanguinare, ma non mi avrebbe uccisa.
Ero un po’ come Prometeo: l’avvoltoio mi strappava il cuore e i sentimenti ne costruivano un altro ancora più grande e pesante che il rapace tornava a divorare. E potevo uscire da quel circolo insopportabile solo se, una volta per tutte, avessi trovato il coraggio di far cessare per sempre tutto quel dolore.
 
Rimasi a letto tutto il giorno seguente, immobile e vuota, a fissare il soffitto della mia camera. Cercavo di cogliere un barlume di volontà in me, ma non riuscivo neanche a muovere le dita delle mani, strette intorno al cuscino. E quando la settimana successiva tornai a scuola, non si faceva che parlare di Christian. Di come si fosse preso a botte con uno del quinto per difendere la sua ragazza. O meglio, quella nuova, mentre io ero l’ingenua di turno che si era fatta abbindolare dal suo fascino. Ma due anni… Possibile che in due anni fossi stata così cieca?
Il terzo giorno dal mio ritorno a quella che avrei voluto definire la normalità, fu quello in cui decisi di mettere fine a tutta quella storia orribile. Il mio banco era letteralmente coperto di post-it colorati e su ognuno di essi c’era scritta una semplice parola: puttana. Uno diceva perfino “500 euro tutto compreso” e un altro “Christian è passato (velocemente) qui”. Rimasi di fronte a quei biglietti di condanna come se la colpa fosse stata mia, per essermi innamorata di un coglione, mentre tutti gli altri studenti sghignazzavano e si fermavano sulla porta, ridendo della mia faccia sconvolta e rigata da lacrime di vergogna. Mollai lo zaino e corsi verso l’uscita, lasciandomi la scuola alle spalle. Continuavo a correre in mezzo alle vie come se scappare fosse la soluzione. Credevo che non ci fosse una soluzione, non vedevo la via di scampo, ma solo perché non c’era.
 
 
 
ETTORE
 
Avevo un nome sfigato.
Andavo vestito da sfigato.
A scuola ero uno sfigato.
In effetti ero tutto sfigato, da quei grandi occhiali scuri che mi facevano la testa grossa alle scarpe consumate di mio fratello maggiore a quel nome assurdo che mi avevano dato: Ettore.
Tornai a casa, in quel palazzo un po’cadente come tutti gli altri giorni, ma quella volta avevo in mano la cosa più importante di tutta la mia vita: era la borsa di studio che avevo giurato di prendere a tutti i costi. Facoltà di medicina per una specializzazione in oncologia. Credevo che aiutando gli altri avrei potuto portare per sempre con me anche una parte di mia madre. – Chiudi quella porta! – urlò mio padre dal salotto. Gli andai incontro gongolando e convinto che per una volta sarebbe stato contento di me. – Che hai in mano? – continuò, mentre il puzzo d’alcol del suo alito mi investiva in pieno. Lo raggiunsi nel soggiorno. Era sdraiato scompostamente sul divano con una gamba penzoloni e una bottiglia di birra nella mano, anch’essa abbandonata sul pavimento. Mi sforzai di superare il disgusto che provavo nei suoi confronti e gli porsi il foglio:- Ho ottenuto la borsa di studio per medicina, - dissi esitante – niente più tasse o libri da pagare.
Ci fissammo per un po’. A quel punto mio padre si mise a sedere, esaminò il foglio… e lo accartocciò e lo strappò. Poi lanciò i frammenti fuori dalla finestra e iniziò a urlarmi contro, a dirmi che ero una nullità, che una laurea in medicina era per sfigati e che non sarei riuscito a passare neanche il primo esame. – TU sei una nullit! – gridai esausto – TU non supererai mai niente nella vita! Sei l’uomo peggiore sulla faccia della Terra! La mamma non ti avrebbe mai amato, né tantomeno sposato se avesse saputo ciò che stai facendo!
Mi lanciò contro la bottiglia di birra che mi ricoprì il braccio di tagli e iniziò a riempirmi la faccia e lo stomaco di quei pugni che ormai riconoscevo come parte di me. Quando finì mi accasciai ai piedi del divano, incapace di muovermi fino a quando anche mio fratello rientrò e, appena mi vide, mi sputò addosso e mi sferrò lì ennesimo calcio nelle costole. Poi mi addormentai lì, sul pavimento appiccicoso d’alcol.
Il mattino dopo mi resi conto che la casa era vuota. Entrambi gli uomini di casa erano andati a puttane, ne ero certo. Riuscii a mettermi in piedi solo verso sera e allora decisi di andarmene. Non volevo rimanere un secondo di più in quell’inferno. Riempii lo zaino con i libri e le foto di mia madre, presi tutti i soldi che trovai e lanciai le chiavi le chiavi dell’appartamento dalla finestra. Poi sbarrai la porta dall’esterno e finalmente scesi zoppicante dalle scale. Non sentivo più il dolore dei calci e dei pugni, solo quello legato alla nuova consapevolezza di aver perso veramente tutto.
La mia vita non valeva niente. Aveva ragione mio padre, ero una nullità. Non mi sarei laureato, ero orfano di madre, mio padre e mio fratello bevevano come dannati ed ora non avevo più una casa. Non avevo più ricordi felici. Erano stati portati via a forza di calci e pugni non solo da mio padre, ma anche dai ragazzi che puntualmente mi picchiavano fuori dalla scuola.
 
 
  
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