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Autore: Beatrix Bonnie    16/02/2014    2 recensioni
-Seguito de L'orologio d'oro-
I tempi spensierati sono finiti: con il ritorno di Colui-che-non-deve-essere-nominato, Mairead, Edmund e Laughlin, insieme ai loro amici del FIE, dovranno affrontare il crescente clima di razzismo dell'Irlanda magica, tra ansie per gli esami finali, nuovi caos a scuola e un Presidente della Magia che conquista sempre più potere. Per Edmund non sarà un'impresa facile, soprattutto visto che il ragazzo sarà anche impegnato nella ricerca di un leggendario manufatto magico di grande potenza, che potrà salvarlo dalla maledizione impostagli da Sigmund McFarren. Ma dove lo porterà la sua ricerca? E questo oggetto esiste davvero o sono solo farneticazioni di un vecchio?
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Trinity College per Giovani Maghi e Streghe'
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CAPITOLO 4
Un salto indietro nel tempo I
Il gioco degli scacchi






L'uomo fissava accigliato i passanti, attraverso la finestra del locale, senza davvero prestare attenzione a quello che guardava. Non gli piaceva la piega che stavano prendendo gli eventi. Si stinse nel mantello, come per un brivido involontario di freddo, poi riprese a sorseggiare il suo calice di vino. I baffi che si era allungato con la magia per camuffarsi meglio gli solleticarono il labbro, ma lui cercò di ignorare il prurito. Si era anche scurito la carnagione e tinto di biondo i capelli, fatti crescere fin ben oltre le spalle, in modo da non essere riconoscibile, almeno a prima vista. Aveva scelto il pub più frequentato di Dubh Cliathan, il Dodach Capaillin*, di modo che la sua presenza potesse passare inosservata.
Un uomo sulla quarantina entrò nel locale: dalla porta aperta entrò un mulinello di neve che volteggiò nell'aria e poi si depositò a terra. Il nuovo arrivato si levò il cappuccio e si scosse via la neve dal mantello, poi si guardò intorno per cercare chi lo stava aspettando. Nonostante si fosse camuffato, riuscì a riconoscere il suo ospite nell'uomo seduto al fianco della finestra. «Una pinta di Burroguinness» ordinò alla cameriera di passaggio, mentre raggiungeva il tavolo.
«Ossequi» lo salutò l'altro, con un cenno del capo.
«Signor Conte» rispose, prendendo posto di fronte a lui. «Servo vostro.»
L'uomo camuffato con la magia fece un rapido gesto con la mano. «Non sono necessari i titoli, qui.» Attese che la cameriera che aveva portato la Buroguinness se ne andasse. «Allora, quali notizie mi porti?»
«Non del tutto buone, temo» rispose l'altro, ripulendosi i baffi dalla schiuma della birra. «Ho seguito la pista del mio informatore, che mi ha portato fino in Italia, ad un certo Oderisi da Gubbio.»
«E chi è costui?»
«Un tizio che dipinge, famoso. Fa quei disegnini sui libri e stemmi da nobili» spiegò, tra un sorso di birra e l'altro.
Un miniatore. L'uomo annuì comprensivo: Mekaster era un bravo informatore, ma non molto colto; anzi, forse non aveva nemmeno finito il Trinity. Sorseggiò il suo calice di vino con aria pensierosa. «E che interesse aveva la nostra... - tentennò - amica nei confronti di questo Italiano?»
Mekaster si frugò nella tasca del mantello e ne estrasse un foglietto di pergamena malconcio. Lo strisciò sul tavolo fino a metterlo sotto il naso dell'altro e poi sollevò la mano. L'uomo tentò di rimanere impassibile, ma non riuscì a evitare di trattenere il fiato quando vide lo sgualcito disegno a carboncino di uno stemma nobiliare: una torre su uno scudo e sotto il motto in latino.
«È quello che si è fatta disegnare» spiegò Mekaster, come se ce ne fosse bisogno.
L'uomo annuì, sempre più serio. Tirò fuori dalla tasca un sacchetto in cuoio contenente un po' di monete e lo depositò sul tavolo. «Paga tu il conto, io devo andare alla latrina» borbottò al compagno, lasciandogli intendere che il resto dei soldi era il suo pagamento. Poi si avviò verso il cortile interno.
«Ehi!» gli gridò dietro l'oste, quando lo vide passare. «Vedi di non vomitarci dentro, che l'ho già pulito abbastanza questa settimana, il cesso.»
L'uomo fece un cenno con la mano e si avviò verso la latrina, riflettendo su quanto Mekaster gli aveva riferito. E così le donna che aveva fatto seguire si stava facendo preparare uno stemma nobiliare. Evidentemente aveva in programma di convincere il Uasal Comhairle Uachtarach della purezza della sua schiatta per farla rientrare in quelle considerate nobili. E, a giudicare dal motto, era anche chiaro chi avesse intenzione di spodestare. Ma come avrebbe potuto riuscirci? Le famiglie della schiatta di Tir Eoghain erano due, per cui eliminarne una non avrebbe portato a nulla. Doveva andare fino in fondo a quella storia per capire cosa stesse succedendo.
Devo avvertire Hugh.
Quando raggiunse la latrina, c'era un tale puzzo che sembrava ci fosse morto dentro qualcuno. Dubitava fortemente che l'oste pulisse quel posto da almeno un anno. Cercando di trattenere i moti di disgusto, si svuotò la vescica. Dopodiché decise che il suo camuffamento non aveva più ragione d'essere, quindi estrasse la bacchetta e usò la Trasfigurazione umana per riappropriarsi dei suoi tratti fisici: i baffi tornarono di una lunghezza ragionevole, i capelli si accorciarono fino alle spalle e si tinsero di nero, la carnagione tornò chiara.
Eseguita l'operazione, l'uomo infilò nuovamente la bacchetta in tasca e approfittò della porticina di servizio che dal cortile interno dava su un vicolo laterale, in modo da non dover riattraversare la taverna.
Dubh Cliathan erano piuttosto affollato, per essere una fredda mattina di inizio marzo, tanto più che era in corso una nevicata fuori stagione. I fiocchi di neve danzavano nel cielo, leggeri e delicati, in contrasto con l'umore cupo dell'uomo che attraversava a passo svelto le strade di quello che i Babbani chiamavano il “getto dei maghi”. Ovviamente nessun Babbano aveva mai messo piede a Dubh Cliathan, ma nelle bettole del vecchio porto di Dublino si mormoravano strane cose a proposito di un quartiere nascosto dove adoratori del diavolo organizzavano orridi sabba al chiaro di luna. Qualche nobilotto Babbano aveva anche alzato la tesa, proponendo di chiamare la Santa Inquisizione, ma il papa Paolo V era intervenuto a bloccare sul nascere la cosa. Molto probabilmente c'era lo zampino del Patriarca Magico Benedictus III, irlandese di nascita, che doveva aver fatto pressione sul pontefice perché impedisse di chiamare l'Inquisizione.
Mi hanno parlato bene di Benedictus III, si ritrovò a pensare l'uomo. Forse potremmo ricorrere al suo aiuto, se le cose dovessero mettersi male per me e Hugh.
Ma prima doveva capire cosa stesse succedendo.
«Conte Rory O'Donnell.» Una voce femminile lo strappò dai suoi pensieri.
Una voce che conosceva benissimo.
«Serva vostra.» La donna accennò un breve inchino con il capo.
Il Conte O'Donnell rimpianse di non aver mantenuto il travestimento almeno fino alla casa di Hugh, ma ormai era troppo tardi. Chinò di poco la testa. «Servo vostro, signorina O'Brian.»
La giovane donna ridacchiò deliziata, ma sotto quell'apparente frivolezza si nascondeva un freddo animo calcolatore. «Non resterò signorina ancora per molto» gli confidò con un sorriso tanto affascinante quanto terribile.
Rory O'Donnell si costrinse a sorridere. Aveva sempre trovato particolarmente difficile mostrarsi gentile con le persone che lo disgustavano, ma il suo ruolo di Conte della schiatta di Tir Chonail glielo imponeva. La sua famiglia tramandava quel titolo di generazione in generazione da ben tre secoli, da quando cioè i Deamundi di Con Cetchthach avevano riportato in vita l'antico sistema tribale; lui non poteva certo disonorarlo solo per il gusto di insultare quella serpe di Elizabeth O'Brian.
«E chi è il fortunato?» domandò con un interesse tanto finto quanto caloroso.
La O'Brian si sistemò il cappuccio bordato di pelo del mantello, senza togliersi dalle labbra quel suo sorriso furbesco. «Oh, avanti, il signor Conte non sarà mica interessato ai pettegolezzi?» lo provocò divertita.
L'uomo decise di giocare al suo stesso gioco. «Girano già pettegolezzi sul vostro conto, signorina O'Brian» replicò, con la stessa finta affabilità.
Elizabeth sgranò gli occhi, simulando autentica sorpresa. «Di che genere, di grazia?»
Rory era un uomo tutto d'un pezzo e si stancava subito di quelle sciocche allusioni e dei giochetti di potere che invece sembravano tanto divertire l'altra. «Il conte Deamundi è fuori dalla vostra portata» decretò. Meccorin Demundi era rimasto vedovo da poco, ma era anche il conte della più importante schiatta della nobiltà irlandese: non si sarebbe certamente sporcato le mani con una plebea come la O'Brian; per quanto potesse essersi arricchita la sua famiglia, lei era e restava una donna del popolo.
Elizabeth non si fece minimamente impressionare. «La mia schiatta è pura tanto quanto la vostra, conte O'Donnell.» Abbandonò la maschera da raffinata ingannatrice, per mostrare con una risposta tanto schietta quanto sfrontata che non aveva alcuna paura ad affrontare il conte. «Il Comhairle dovrà prenderne atto.»
«Peccato che le schiatte nobili possano essere solo otto» la stroncò Rory, tentando di porre fine a quell'assurda conversazione.
La donna fece un passo avanti verso di lui e gli piantò i faccia i suoi perforanti occhi verdi. «Lasciate che vi riveli una cosa, Rory O'Donnell.» L'omissione del titolo non fu una svista casuale ma un chiaro avvertimento. «Il gioco degli scacchi è imprevedibile: a volte, può capitare che una torre faccia scacco matto al re.»
Rory sentì come se il terreno si aprisse in una voragine sotto i suoi piedi. Lo stemma della famiglia O'Donnell era una corona dorata in campo nero, mentre lo schizzo che Mekaster gli aveva mostrato poco fa rappresentava una torre. E poi c'era il motto...
Mioddio, voleva eliminarli entrambi. Stava macchinando qualcosa per fare fuori lui e Hugh.
Che sapesse qualcosa? No, era impossibile: il segreto era ben custodito. Ma non potevano rischiare di metterlo a repentaglio.
Rory indietreggiò di un passo, sbiancato.
Elizabeth sorrise nel vedere il disorientamento dell'altro: aveva colpito nel segno. Sfoderò di nuovo il suo sorriso furbo e affabile e accennò ad un inchino. «Salutatemi vostra moglie e fatele i migliori auguri. Ho saputo che è in stato interessante» si congedò civettuola. «Speriamo sia femmina.»
Anche quello che poteva essere un banale saluto, era in realtà una dimostrazione di potere. Come faceva a sapere che sua moglie aspettava un bambino, se la donna era da poco entrata nel terzo mese e nessuno aveva ancora sparso la notizia? Chi erano i suoi informatori e perché era sempre un passo avanti agli altri?
«Marcirete all'inferno» le sputò addosso Rory, disgustato e anche spaventato da quella strega.
Elizabeth sorrise, ma questa volta non c'era nulla di aggraziato nel suo viso deformato da una smorfia di malizia. «Sarò in buona compagnia.» E con quelle parole si voltò e se ne andò, lasciando il conte a rimuginare nel dubbio e nella preoccupazione.
Il conte O'Donnell rimase pietrificato per qualche minuto: la situazione era ben peggiore di quanto avesse immaginato. Doveva assolutamente svelare i piani della O'Brian per fermarla prima che potesse metterli in atto. Forse lei non se ne rendeva conto, ma c'era in gioco molto più che una manciata di titoli nobiliari: c'era in gioco la sopravvivenza stessa dei maghi.
Era arrivata l'ora di correre ad avvertire Hugh.
Rory si affrettò verso il grande atrio di ingresso di Dubh Cliathan, dove era stata riservata un'area apposta per la materializzazione. Con i Babbani che si ingegnavano per accusare di stregoneria chicchessia, il governo britannico aveva imposto delle leggi più severe riguardo al trasporto magico e, in generale, sull'uso della magia. Si parlava addirittura di una legge che regolamentasse gli incantesimi a livello internazionale.
A Rory non interessavano tutte quelle questioni, francamente. Il suo obiettivo principale, al momento, era quello di raggiungere Hugh al più presto. Roteò su se stesso e si materializzò davanti ad castellotto incorniciato dalle colline irlandesi imbiancate dalla neve. Quando bussò al portone, venne ad aprire un anziano elfo domestico, che si sprofondò in mille inchini per ricevere un ospite tanto illustre; lo fece accomodare nell'ampia sala circolare della torre centrale, cuore dell'abitazione, e ravvivò il fuoco per permettere all'uomo di riscaldarsi. «Jolly va subito a chiamare la Padrona, signor Conte.» Il vecchio elfo borbottò qualche scusa sul suo ritardo, mentre barcollava verso le stanze interne del castello. Rory, nel frattempo, si levò il mantello intriso di goccioline di neve e lo pose ad asciugare davanti al camino.
«Rory caro, che piacere vedervi.» La moglie di Hugh era una piacevole signora in carne, con i fianchi larghi e i capelli ormai ingrigiti. Aveva dato alla luce due belli e sani figlioli maschi, di cui andava tanto orgogliosa, ma non era mai riuscita a superare la morte in culla dell'ultimogenita: per quanto le sue guance fossero sempre rosee e i modi gentili, gli occhi restavano spesso spenti.
«Servo vostro, signora Rosmary.» Rory chinò leggermente il capo. «Hugh è in casa?»
«È a caccia con Matthew, ma dovrebbero rientrare presto» rispose la donna. «Intanto posso offrirvi qualcosa di caldo?»
«No, grazie» declinò gentilmente Rory, visto che aveva lo stomaco chiuso per l'apprensione. Per fortuna non dovette attendere più di qualche minuto, prima che il portone del castello si aprisse e un abbaiare di cani da caccia riempisse le sale.
«Madre, madre!» chiamò la voce di un giovane uomo. «Abbiamo catturato un Graphorn!» Un bel ragazzo si catapultò nella sala circolare. Aveva il fondo del mantello e il volto sporco di fango, i capelli arruffati e con fiocchi di neve incastrati tra i ricci, come piccole gemme luminose. «Ma poi l'abbiamo lasciato andare perché...» si interruppe, quando notò la presenza di Rory. «Conte O'Donnell, al suo servizio» recitò un po' impacciato, cercando di mascherare con un inchino il suo aspetto poco presentabile.
«I miei ossequi, Matthew.» Rory gli sorrise benevolo. «Complimenti per la preda.»
Proprio in quel momento il conte Hugh O'Neill fece la sua comparsa in salotto. Era un uomo di una certa età, ma pareva un giovanotto nello sguardo e nell'energia dei suoi gesti. La sua florida barba grigia era perfetta come sempre, nonostante la battuta di caccia. «Rory» lo salutò bonario.
«Devo parlarti di cose serie, Hugh.» Il tono dell'uomo fece capire quanto fosse urgente la questione.
«Siate gentili, lasciateci soli» ordinò Hugh ai suoi familiari.
Solo quando Matthew si fu chiuso la porta alle spalle, Rory osò mettere la mano in tasca ed estrarre lo sgualcito foglietto di pergamena. Lo mostrò all'amico. «Mekaster mi ha riferito che è lo stemma che la O'Brian si è fatta disegnare da un miniatore italiano» spiegò.
Hugh lo fissò allibito. «Perché la O'Brian dovrebbe farsi fare uno stemma nobiliare?»
«Vuole convincere il Comhairle che la sua schiatta può rientrare nella nobiltà.» Rory si passò una mano sulla faccia, cercando di calmarsi. Hugh scosse la testa, cercando di essere ragionevole. «Ma le schiatte sono già otto» protestò, anche se immaginava benissimo dove andasse a parare quel discorso.
«Leggi il motto» fu l'unica cosa che ebbe la forza di dire l'altro.
«Etiam pereunt ruinae.»
Anche le rovine crollano.
Il conte O'Neill rabbrividì. Il motto della sua famiglia - che in irlandese suonava così: amhain fothrach mairfidh siad - significava: resteranno soltanto rovine. Il messaggio era più che esplicito.
«Non... non può farlo...» balbettò, lasciandosi cadere su una poltrona.
Rory si sedette di fronte a lui, mortalmente serio. Scosse la testa e entrambi restarono in silenzio per una manciata di secondi. «Sta cercando di farsi posto, Hugh» commentò infine il conte O'Donnell. «Vuole eliminare una schiatta.»
«Non può. Non può farlo» si intestardì l'uomo, poggiando i gomiti sui braccioli della poltrona e incominciando ad accarezzarsi la barba, cosa che faceva sempre quand'era nervoso.
«In teoria no, ma è evidente che ha trovato il modo.» Rory accennò con la testa al foglietto di pergamena. «Il motto parla chiaro.»
«È assurdo!» sbottò Hugh. «Voglio dire, anche se dovesse far fuori la me, io ho due eredi maschi, Matthew e Conn. E se anche riuscisse a sbarazzarsi di tutta la famiglia O'Neill, il titolo di Conte di Tir Eoghain passerebbe agli Howt. Lo sai, è così che funziona.»
Nella schiatta di Tir Eoghain, di cui Hugh era il Conte, erano sopravvissute due famiglie: quella degli O'Neill e quella degli Howt. Nel caso in cui la prima si fosse estinta nella linea maschile, il titolo sarebbe passato alla seconda, il cui capostipite aveva attualmente tre eredi. Se la O'Brian avesse voluto che la sua schiatta sostituisse quella di Hugh, avrebbe dovuto eliminare almeno sette maghi. Assurdo.
«Infatti» concordò Rory, scuotendo la tesa. «Sarebbe più logico tentare di eliminare me. Mia moglie è incinta, ma al momento io non ho eredi. E la mia è l'unica famiglia della schiatta di Tir Chonail, quindi fuori me, fuori la schiatta» ragionò ad alta voce. Sospirò, poi aggiunse: «E temo che abbia in programma anche questo.»
«Come fai a dirlo?»
«Oggi l'ho incontrata a Dubh Cliathan e mi ha detto che anche una torre può fare scacco matto al re» spiegò Rory, fissando l'altro dritto negli occhi.
«Una torre?» gli fece eco Hugh, senza capire.
Rory accennò nuovamente alla pergamena. «Guarda il suo stemma.»
Il conte O'Neill osservò lo scudo che rappresentava una torre e immediatamente capì il riferimento. «Il tuo stemma è una corona d'oro in campo nero» ricordò ad alta voce, per quanto non ce ne fosse bisogno.
«Già.» Rory distolse lo sguardo e prese a fissare le fiamme nel caminetto, meditabondo.
Hugh rimase a sua volta in silenzio per qualche minuto, ma alla fine non poté astenersi dal chiedere: «Pensi... pensi che sospetti qualcosa?»
«Non lo so.» Rory scosse la testa. «Il segreto è ben custodito: non saprei come avrebbe potuto venirne a conoscenza. Ma è persino venuta a sapere che mia moglie è incinta, quindi non escludo più nulla.»
«Quella donna è una vipera!» esclamò di getto Hugh. Era sempre stato un uomo onesto con se stesso e sincero con gli altri: vedeva nella lealtà la più grande virtù che si potesse perseguire e per questo, al Trinity, era stato un Llapac; era orgoglioso di essere appartenuto alla casa più prestigiosa della scuola. Proprio non riusciva a sopportare i piccoli, sudici arrivisti che finivano nei Nagard, come quella serpe della O'Brian.
«Per quanto la O'Brian sia scaltra, non può fare tutto da sola.» Rory espresse la sua idea ad alta voce con tono fermo e sicuro.
O'Neill gli riservò uno sguardo preoccupato. «Chi dovrebbe appoggiarla?»
«Il conte Deamundi» rispose O'Donnell senza mezzi termini.
«Meccorin Demundi?» gli fece eco l'altro. «Perché dovrebbe volerci eliminare?»
Rory si alzò dalla poltrona e prese a passeggiare davanti al caminetto, pensieroso. «Le nostre schiatte sono antiche e prestigiose tanto quanto la sua e questo limita la sua influenza» spiegò infine. «Inoltre Mekaster mi ha riferito che la O'Brian sta puntando a sposare Deamundi, quindi è probabile che i due collaborino.»
Hugh si prese la testa tra le mani. «Se la O'Brian è appoggiata dal conte Deamundi, non abbiamo scampo. Qualsiasi piano abbiano ordito quei due, siamo finiti.»
Rory si portò di fronte all'amico più anziano e lo fissò dritto in quei suoi occhi grigi che gli avevano sempre ispirato tanto rispetto. «Hugh, dobbiamo proteggere il segreto prima di ogni altra cosa» mormorò, con una serietà disarmante. «Hai idea di cosa succederebbe se lo venissero a sapere?»
«Non voglio pensarci.» Hugh scosse la testa, come per scacciare quell'orribile ipotesi dalla mente. «Elizabeth O'Brian e il conte Deamundi che hanno tra le mani... no, dobbiamo assolutamente impedirlo» decretò con sicurezza.
«Lo so.» Rory annuì, voltandosi verso la finestra per osservare la neve che vorticava nel cielo. «Ora sguinzaglierò Mekaster per cercare di andare in fondo a questa storia, ma nel frattempo noi dobbiamo tenerci pronti ad ogni evenienza.»
Hugh si girò a sua volta, come se nei fiocchi di neve che imbiancavano le colline fosse scritto il loro destino. «Lo scenario peggiore che ci si può prospettare?» chiese infine.
Rory sospirò. «La fuga.»




* In omaggio a Tolkien, il nome irlandese del pub significa Puledro Impennato. =)





Buongiorno a tutti!
No, non avete sbagliato storia e io non ho pubblicato per errore il capitolo di un altro racconto...
Semplicemente, ho deciso che ci saranno alcuni capitoli in flashback dedicati ai conti Rory O'Donnell e Hugh O'Neill (come potete immaginare sono i conti in fuga del titolo!). In origine volevo inserire questi flashback tramite un diaro scoperto da Edmund o qualcosa di simile, ma mi sono resa conto che la storia che volevo raccontare era troppo dettagliata e lunga per essere proposta in questo modo, per cui ho deciso di dedicarle 3/4 capitoli che prenderanno il nome di "Un salto indietro nel tempo". Spero che l'idea possa piacervi!
Dopo questa nota indroduttiva, che dire...? Vi piacciono Rory e Hugh? Vi ha spiazzato venire a scoprire che la capostipite della tanto rispettabile famiglia O'Brian è in realtà una serpe, arrivista e approfittatrice? ahahahah! Dovreste vedere come la esalta Faonteroy! Che volete farci, la storia cambia in base alla fazione per la quale si tiene.
Comunque, chi indovina il secolo in cui è ambientata la vicenda? Dai, ho lasciato un sacco di indizi da cui si può ricavare una datazione precisa al ventennio. ;) Vi dirò anche che Rory e Hugh sono personaggi storici realmente esistiti, protagonisti, appunto dell'episodio denominato "La fuga dei Conti". Vi consiglio vivamente di NON cercare informazioni su di loro, altrimenti vi rovinate tutta la sorpresa del racconto! =)
Dai, basta ciarlare! Vi lascio con un paio di immagini:
QUI un ritratto di Hugh O'Neill, personaggio storico realmente esistito.
QUI, invece, l'immagine della storia, ovvero la mia personalissima visione di Rory O'Donnell (anch'egli personaggio storico) e Elizabeth O'Brian (inventata da me, come si può capire).

Carissimi, ci si rivede domenica 9 marzo!
A presto,
Beatrix

   
 
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