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Autore: Hopless_Wander    17/02/2014    2 recensioni
Un Edward umano, che scappa da Phoenix per dimenticare.
Una Bella vampira, che ha troppi mostri nella testa per pensare di poterli chiudere in un cassetto.
Una storia in negativo dell'originale.
Riuscirà questo a cambiare le cose?
"Ci incontreremo nel lato oscuro della luna"
Pink Floyd
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan, Un po' tutti | Coppie: Alice/Jasper, Bella/Edward, Bella/Jacob, Emmett/Rosalie, Jacob/Renesmee
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
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II.

 

 

Le note della suite di Bach sfumarono gradualmente nell'accordo finale e a quelle si sostituì una serie meccanica e continuata di suoni fastidiosi che sul momento mi lasciarono confuso e smarrito.
Perso com'ero in quella specie di limbo tra la musica per pianoforte e il sonno arretrato ci misi qualche secondo di troppo per capire che si trattava della mia sveglia.
Qualcuno spenga questo maledetto trabiccolo.
Sbuffai tra me e allungai una mano, premendo un paio di tasti a caso – con una grazia totalmente differente da quella che avevo usato fino a quel momento, seguendo la melodia classica su una tastiera immaginaria, con le dita che si muovevano agili nel vuoto – finché il lamento non si zittì.
Avevo la testa pesante, chiusa in una bolla che rendeva il resto del mondo un po' più ovattato e distante. Gli occhi erano gonfi, come se avessi pianto, ma ero sicuro di non averlo fatto perché avevo percepito ogni fottutissimo minuto di quella notte passata a fissare lo stesso pezzo di soffitto, illuminato da un piccolo spiraglio della finestra.
Non ero davvero stanco, no. Ero solo... spossato.
Dopotutto, non era la prima volta che mi “dimenticavo” di dormire da quando mamma era morta. Questa era solo da aggiungere alla lista delle tante.
Mi alzai, svogliato, e andai ad aprire le imposte della finestra, salvo rimanere a fissare, desolato, la cappa di nebbia che era calata sulla città.
Ecco, la nebbia era uno dei ricordi che nella mia testa erano etichettati esclusivamente sotto la voce “Forks”. Mai vista, in Arizona. Neppure una volta. Non potevo dire che mi dispiacesse, anzi, l'avevo sempre trovata molto pittoresca, ma aveva un'aria vagamente claustrofobica che in quel momento non mi aiutava per nulla.
Quando scesi per la colazione mi resi conto che Edward era già uscito. Non avevo idea di cosa avesse da fare a quell'ora, dopotutto le sue abitudini mi erano estranee. Magari andava a fare jogging, magari era solito cominciare a lavorare sin dal primo mattino, nel caso qualche criminale avesse avuto la brillante idea di cercarsi un avvocato di buon'ora.
Sue non era ancora arrivata, ovviamente, – almeno lei pareva avere una umana concezione del tempo – così mi ritrovai a fare colazione da solo.
Non sarei stato di grande compagnia comunque.
Mi diedi anche dell'idiota, un paio di volte: dopotutto avevo deciso di venire a stare qui in autonomia, ci dovevo passare almeno un altro paio di anni, dovevo cominciare ad abituarmi a quell'ambiente e un muso chilometrico non era esattamente la credenziale migliore per farmi degli amici.
Alla fine, mi accorsi che era decisamente ora di andare, a meno che non fossi intenzionato a fare tardi anche il primo giorno di scuola.
Sorrisi, immaginando la voce severa di mamma che mi incitava dal bagno, e uscii di casa, infagottato nel mio giubbotto a prova di Artico.
La mia auto si rivelò un ottimo motivo per mantenere il sorriso sulle labbra: silenziosa, veloce e decisamente bella. Come avevo già detto, mi piaceva. Ed era davvero facile da guidare, senza il cambio manuale che avevano sempre avuto le mie precedenti carrette.
Non pioveva nemmeno, il che mi parve anche di buon auspicio, oltre a costituire un altro motivo per prestare blandamente attenzione alla strada e perdermi nei miei pensieri, metà disastrosi e metà traballanti, ma edificanti.
Forse mi ci persi un po' troppo, in fin dei conti, perché quando alzai lo sguardo mi trovai di fronte al casello dell'autostrada e, nella piantina mentale che mi aveva inculcato a forza Edward la sera prima, la scuola era un po' – va bene, parecchio – prima. Svoltai con una manovra che nella mia testa doveva essere molto meno pericolosa di quanto invece risultò – ringraziai il Cosmo che le strade di Forks fossero pressoché deserte, a quell'ora e sempre, visto che a Phoenix mi sarei già preso qualche strombazzata di clacson, se non una bella tamponata – e mi diressi verso quella che speravo essere la direzione giusta.
Fortunatamente lo era.
Mi resi conto immediatamente del perché la scuola non aveva attirato la mia attenzione: ben lontana dal competere per dimensioni con il liceo di Phoenix, la “Forks High School” non aveva nemmeno l'aria di un luogo pubblico. Pareva, anzi, una serie di case di mattoni rosso scuro. Probabilmente, se non avessi notato il cartello, avrei avuto la tentazione di scendere, scampanellare e chiedere a qualcuno se avesse la minima idea di dove si fosse nascosta la scuola superiore, se per caso stessimo giocando a nascondino e quali fossero le regole.
Visto che non avevo la minima idea di cosa dovessi fare, una sorta di intuito inedito mi guidò verso l'edificio contrassegnato dal cartello “Segreteria”. La quantità di auto che già affollava i parcheggi circostanti mi sussurrò all'orecchio che probabilmente ero in ritardo, in pericoloso ritardo.
Mi affrettai verso l'entrata, calciando distrattamente qualche ciottolo che mi intralciava il cammino e superai di corsa, ma con sguardo cauto, la porta.
La luce, paragonata al grigiore esterno, mi investì e mi costrinse a fermarmi un paio di istanti, a sbattere le palpebre per abituare gli occhi.
Era un interno piccolo – non che da fuori sembrasse altrimenti, chiaro – caldo e luminoso, con il pavimento rivestito di una moquette che pareva molto rassicurante, piante a decine e una secchiata di volantini colorati e bacheche di avvisi appese ovunque. Pensai frettolosamente che una volta o l'altra quelle pareti sarebbero crollate, a forza di affiggerci fogli su fogli, e poi diressi la mia attenzione al bancone che tagliava in due la sala e, nella fattispecie, alla donna che sedeva a una delle tre scrivanie arroccate dall'altra parte, sommerse di scartoffie. Ancora.
La donna alzò lo sguardo, blandamente interessata, sistemandosi gli occhiali sul naso e controllando che i capelli rossi non fossero usciti dalla coda in cui li aveva raccolti. Era parecchio imponente – la maglia viola che indossava lasciava davvero poco alla mia immaginazione, alla faccia della mia tuta polare – e non sapevo se avrei dovuto fare dietrofront oppure affrontarla a viso aperto.
“Prego.” mi esortò, vagamente impaziente, decidendo per me, in sostanza.
“Sono Edward Masen.” informai, cautamente e il suo sguardo, da blandamente interessato che era, si trasformò in qualcosa che avrei definito come... esageratamente curioso.
“Junior.” aggiunsi, ironicamente.
Lo sguardo che non accennava ad abbassarsi mi fece riflettere per qualche istante sulla portata dei pettegolezzi di cui probabilmente ero stato protagonista. Sicuramente la storia doveva aver fatto il giro della città, ma non mi ero mai reso conto di quanto potesse essere stata... eccitante? Succosa? Non avrei saputo dirlo. Sapevo solo che, pensandoci bene, era una buona storia. Un matrimonio giovanile, lei rimasta incinta troppo presto, una storia d'amore che non va come dovrebbe andare, lei che scappa lontano, lascia il buon avvocato solo a combattere contro i pregiudizi della cittadina e poi muore e il figliol prodigo torna tra le braccia dell'amorevole padre.
Mi venne la nausea.
“Oh, Edward! Ti stavamo aspettando tutti quanti.” mi sorrise improvvisamente la donna, frugando in una precaria pila cartacea e tirandone fuori qualche foglio.
Nausea al quadrato.
“Come ti pare, Forks?” chiese, premurosa e... nauseante. Mi pareva di leggere dietro ai suoi occhi la curiosità.
“C'ero già stato.” le sorrisi a mia volta, scrollando le spalle.
“Intendo... viverci, chiaro.”
“Sono arrivato ieri. Non ho ancora avuto modo di parlare con nessuno.”
E di farmi crescere addosso il muschio.
“Capisco. L'avvocato Masen come se la passa?”
“Sano come un pesce. Mordace come un acido non diluito. Borbottante come una pentola a pressione. Una meraviglia. ” sputai divertito, prima di rendermi conto che l'avevo detto sul serio. Evidentemente, però, la cittadina si era resa conto da sola di ciò che io mi ero appena fatto sfuggire, così mi rilassai, vedendo la segretaria ridacchiare sotto i baffi.
“Come al solito, in pratica. Allora.. qui c'è il tuo orario, assieme a una piantina della scuola. Fai controfirmare questo foglio ai tuoi professori e riportalo qui a fine giornata, ok, caro? E ora corri, che sei in ritardo.”
“Grazie mille.”
“Vedrai, ti troverai bene, qui.”
Le sorrisi, cercando di essere convincente e mi precipitai fuori dall'edificio, con l'intenzione di portare l'auto in un posto in cui non fosse vietato parcheggiare.
C'erano un sacco di carrette malandate, sistemate in file parecchio disordinate. A Phoenix era normalissimo trovare auto nuove e lucide di autoconcessionaria; lì io spiccavo per i miei catorci che i miei amici erano sempre pronti a deridere – zia Marie e mamma avevano deciso di non darmi più fiducia dopo che avevo sfasciato la prima macchina seria in un incidente particolarmente violento – e ora spiccavo anche qui, con la mia auto quasi nuova, assieme ad una jeep di dimensioni mostruose, visibile praticamente da qualunque angolo dello spiazzo cementato. Parcheggiai accanto a un pick-up di un rosso ruggine, poco distante da quel gigante e mi diressi a passo veloce verso l'entrata.
Girai fra le mani la piantina, un paio di volte, cercando di orientarla per il verso giusto, ma, complice la fretta, preferii sbuffare rumorosamente – che avessi ereditato il tratto da mio padre? Nausea di nuovo – e fermare un ragazzo per chiedergli informazioni, nonostante fosse evidentemente di fretta quanto me.
Alla fine, fra frasi smozzicate e terrorizzati “devo andare, cazzo!” riuscii a capire da che parte fosse l'edificio numero 3 – non potei evitare di darmi del cretino, visto che c'era un enorme numero dipinto sulla fiancata – e a raggiungere l'aula di inglese.
Il professore, dall'entrata della porta riuscivo a scorgere la targhetta che recitava Mr Mason, doveva essere in procinto di cominciare a parlare, perché non appena scorse il mio viso in attesa sulla porta mi lanciò un'occhiata vagamente perplessa e un filo seccata.
“In ritardo, signor...?” chiese, inarcando un sopracciglio.
“Masen. È il mio primo giorno.” gli venni in aiuto, entrando nella classe e porgendogli il foglio che doveva firmare. Mi voltai un secondo, giusto in tempo per vedere l'intera classe, seduta ai banchi, che mi fissava insistentemente. Non riusci a trovare una risposta migliore di un “Ehi” borbottato a mezza voce, con un sorriso esitante e un gesto vago della mano.
Il signor Mason fissò il foglio con l'aria di chi casca fra le nuvole – Incoraggiante – ma lo firmò senza dire nulla e mi lasciò sedere – in ultima fila – senza che io dovessi aggiungere altro.
Ora, non sapevo come fosse umanamente impossibile riuscire a fissare insistentemente qualcuno in ultima fila, senza che il professore si accorgesse di nulla, fatto sta che i miei compagni, compresi quelli praticamente davanti alla cattedra, a quanto pareva erano capacissimi di farlo per l'intera durata dell'ora.
Personalmente cominciavo a sentirmi davvero a disagio. Non ero mai stato una persona a cui piaceva stare al centro dell'attenzione, ancor meno uno a cui piaceva essere fissato così sfacciatamente. Ma, visto che era il mio primo giorno, ritenevo di essermi in un certo senso andato a cercare tutta quella esposizione mediatica e così li lasciai fare, concentrandomi sulla lista di letture che il professore mi aveva allungato distrattamente prima che io mi allontanassi dalla cattedra.
Brontë, Shakespeare, Chaucer, Faulkner... Elementare, tutto sommato. Avevo letto già tutto. Un po' per interesse personale, un po' per insistenza di mamma – appassionata di letteratura come poche – e un po' per i corsi avanzati che avevo seguito per l'accordo che avevo raggiunto con lei: potevo dedicare quanto tempo volevo al pianoforte, anche fino a logorare i timpani di tutto il vicinato, purché la mia media scolastica fosse ineccepibile. Avevo provato a svicolare parecchie volte, e ci ero riuscito spesso, ma mamma si era impuntata a farmi frequentare perlomeno i corsi più difficili, anche se non ero mai stato un'eccellenza.
Gli argomenti poco stimolanti e la voce monotona del professore di certo non aiutavano la mia concentrazione, così come non la aiutava il pensiero di mamma, così finii per perdermi di nuovo in una serie di ricordi e dialoghi con lei, fino a quando non sopraggiunse il rumore della campanella, a riscuotermi. Quello e una voce leggermente stridula e una chioma di capelli che sventolava davanti al mio banco.
“E così tu sei Edward, vero?” chiese la sconosciuta con un sorriso di miele. Aveva quell'aria civettuola e maliziosa che normalmente mi faceva girare alla larga da una ragazza. Ma forse ero solo troppo difficile. Era decisamente meglio cercare di essere amichevole.
“In carne e chioma bronzea.” le sorrisi a mia volta, osservando come il suo, di sorriso, si allargava pericolosamente. Nelle vicinanze, tutti si voltarono a fissarmi.
Oh, Cristo.
“Dove hai la prossima lezione?” chiese, continuando a sorridere. Probabilmente entro poco avrebbero cominciato a dolerle le guance, chissà se a quel punto avrebbe smesso di sembrare così esageratamente allegra o se avrebbe avrebbe sopportato stoicamente, come si sopportano delle scarpe scomode.
Osservai perplesso i fogli che mi avevano dato...
“Educazione civica. Mr Jefferson. Edificio 6.”
Sembrava che tutti e dico tutti mi stessero fissando con sguardo curioso.
Cristo, ma da queste parti c'è qualcuno che si sa fare gli affari propri?
Non so perché mi venne in mente proprio in quel momento, ma ricordai uno spaventoso dato che avevo letto tra gli opuscoli della scuola. Trecentocinquantasette iscritti. In totale.
Più uno.
Era chiaro che lì nessuno era fisicamente in grado di pensare per sé. Riuscivo a capirlo. Magari un paio di anni e avrei assunto anche io la cultura del pettegolezzo.
“Io sto andando al 4. Ma ti posso accompagnare comunque” cinguettò la ragazza, riportando la mia attenzione su di sé. “Sono Laureen, a proposito.”
Sorrisi, di nuovo, e mi dichiarai mentalmente stanco di tutte quelle premure. Ma, di nuovo, decisi di restare amichevolmente presente.
“Grazie. Mi faresti un favore.” abbozzai, alzandomi in piedi e raccattando le mie cose, seguito da un consistente numero di persone che imboccarono in massa la nostra stessa direzione. Pareva che mi stessero seguendo, come in quei pessimi film dove gli allievi popolari hanno puntualmente un crocchio di persone che li sostiene psicologicamente anche al cesso.
Nausea. Nausea. Nausea.
Non essere esagerato, fratello. Stai diventando paranoico.
“Scommetto che Phoenix è completamente diversa da Forks.” attaccò di nuovo la ragazza... Laureen... mentre camminavamo.
“Sì, abbastanza.” concordai, stringato. Non ci voleva un genio, per arrivarci.
“E com'è?”
“Assolata. E secca.”
Pareva quasi offesa dalla risposta asciutta e vagamente derisoria.
“Oh. Niente pioggia, nebbia o neve, quindi.”
“Non molta, no.” annuii.
Che intuito, ragazza. Sei una saetta.
“Deve essere un paradiso.”
“Non se fai parte del club di botanica.” ironizzai, con un sorriso storto.
La ragazza mi guardò, aggrottando le sopracciglia.
“Facevi parte del club di botanica?” chiese esitante.
“No.” scrollai le spalle, indifferente.
Non distolse lo sguardo, come a chiedersi quale fosse allora il problema e quale problema avessi io.
“Chissà che abbronzature.”
Inarcai le sopracciglia, aspettando che la sua capacità di osservazione raggiungesse il pallore del mio viso.
“Ma tu non sembri molto abbronzato.”
“Già.”
“Come mai?”
“Vai a capire, tu. Edward senior dove avermi geneticamente regalato il duo capelli rossi – pelle chiara. Un sogno. Giravo con la protezione cinquanta nello zaino.”
Laureen insistette per accompagnarmi fino all'entrata dell'aula, anche se era chiarissimo che non ne avevo bisogno e mi salutò calorosamente. Ricambiai, molto più tiepidamente ed entrai a lezione.


La mattinata trascorse più o meno monotona. Il professore di trigonometria, un certo Mr Varner, si era già guadagnato la vetta nella mia lista nera, ma d'altra parte l'aveva raggiunta più per la materia che insegnava che per la sua personalità – che rimaneva comunque parecchio irritante. Fu l'unico che mi costrinse a presentarmi, anche se più che una presentazione, la mia fu un ammasso di frasi sconnesse e incoerenti gesti della mano. Comunque fosse, agli sguardi curiosi della massa, mi sembrava viaggiasse a braccetto anche una leggera dose di simpatia, il che mi rassicurava un po'.
Dopo un paio di lezioni riconoscevo più o meno tutti i volti che avevo incontrato, anche se i nomi non mi erano ancora noti. Avevo sempre avuto memoria, per i tratti somatici. Mi rimanevano impressi nella retina e mi balzavano subito agli occhi, quando li rivedevo.
Credo di non avere mai sparato tante balle come in quelle ore. C'era sempre qualcuno che chiedeva cose come “come va?” “ti trovi bene?”. Chiunque abbia detto che la sincerità è sempre la strada migliore, non è mai stato un liceale arrivato ad anno scolastico già iniziato. Le bugie sono d'obbligo, a prescindere dalla punizione divina che ne seguirà.
Riuscii anche a fare vagamente amicizia con un ragazzo che mi si sedette accanto in tutte le lezioni fino all'ora di pranzo. Beh, parlare di amicizia o anche solo di conoscenza era un po' esagerato, visto che continuava a parlare a raffica, mentre io ascoltavo e perlopiù osservavo.
Aveva dei capelli biondo cenere divisi in punte ordinate e un viso infantile, ma simpatico.
Mike? Poteva essere?
Mi sedetti al suo tavolo, in mensa, assieme ai suoi amici, ai quali venni presentato in pompa magna. Eric, Tyler, Ben, Laureen, che si era seduta salutando calorosamente tutti quanti, Angela e Jessica.
Probabilmente avevo ottima memoria anche con i nomi.
Complimenti, Edward. Stai andando alla grande.
“Arizona, eh?” commentò a quel punto, Mike. Sul tavolo calò un silenzio di una curiosità vagamente imbarazzante.
“Già.”
“Feste con piscine, folle di gente e pestaggi un giorno sì e l'altro no, vero?” chiese, metà invidioso e metà eccitato all'idea. Mi chiesi da dove venissero queste informazioni. Film? Leggende metropolitane? In parte erano preoccupantemente vere.
“Nah. Ero più il tipo da serate tra amici. Sai, ti ubriachi e puntualmente il giorno dopo non ricordi nulla. Tre volte su quattro qualche vestito è misteriosamente sparito e sai che probabilmente hai fatto sesso, non sai con chi, ma, ehi, è fra amici!” commentai, ironicamente. Non era sarcasmo; era più o meno la verità. Era successo davvero, un paio di volte. Forse tre. O boh. Passai un istante in silenzio. “Non che questo ti protegga dalle malattie sessualmente trasmissibili, chiaro.” aggiunsi.
L'intero gruppo scoppiò in una risata – chi più nervosamente, chi palesemente esilarato – che mi divertì, facendomi sorridere a mia volta.
“E così eri un cazzone, dalle tue parti, eh?” rise Mike, tirandomi una gomitata tra le costole. Me le massaggiai, vagamente irritato, cercando di non darlo a vedere.
“No, non proprio. Avevo la testa a posto, la maggior parte del tempo. Suonavo. Pianoforte.”
“Oh, bello.” intervenne quella che mi pareva essere Angela, un po' timidamente. Parve essersi pentita del suo intervento non appena si spense l'ultima vocale, ma il mio sorriso sincero la rassicurò un po'.
“Suoni anche qui?” si azzardò a chiedere, esitante.
Sospirai e scossi la testa.
“Come mai?”
“Ho deciso di smettere.” mentii, vagamente. Il discorso cadde senza che nessuno ci facesse troppo caso e la conversazione proseguì, anche con il mio scarso aiuto. Seguii un po', parecchio disinteressato, captando a tratti qualche pezzo di discorso.
“E così ci hai provato davvero con la Cullen?” sputò in quel momento Eric, sgranando gli occhi in direzioni di Mike.
“Già.” confermò questo, vagamente cupo.
“Scommetto che non è andata, eh?”
“Già.”
“Che ti ha detto?”
“Devo andare, scusa.” borbottò il ragazzo, agitandosi sulla sedia. Eric sbuffò.
“Ma dove vuoi andare, sta' qua! Noi vogliamo sapere.”
“No, lei ha detto così: 'Devo andare, scusa.'” ripeté, con un colorito vagamente rossastro.
“Oh. Beh, Mike, perlomeno ti ha rivolto la parola. A qualcuno non è andata così bene.”
“Non è una consolazione.”
Il disagio di Mike mi parve molto, troppo divertente, così decisi di inserirmi nella discussione.
“Di chi state parlando?” chiesi, sporgendomi sul tavolo.
I ragazzi si girarono verso di me, con un sorriso decisamente maschile sul volto. Se non avessi già intuito l'argomento di conversazione, probabilmente l'avrei indovinato ora.
“Isabella Cullen.” risposero, come fosse ovvio.
“E sarebbe?”
“Una dei fratelli Cullen.”
“E chi sono questi Cullen?” borbottai, cominciando a spazientirmi.
Angela dall'altro lato del tavolo mi sorrise e sotto gli occhi del gruppo, palesemente divertito, mi indicò una direzione con il suo mento sottile.
All'improvviso fu tutto chiaro.
Nonostante la direzione indicata comprendesse parecchi tavoli, non ci fu bisogno di specificare a quale gli altri si stessero riferendo: quattro ragazzi stavano elegantemente seduti, leggermente chini verso il tavolo, come se il mondo circostante non li interessasse, nell'angolo più distante e isolato della mensa. Stavano fermi, quasi immobili, con i loro vassoi di cibo intatti e lo sguardo fisso sul ripiano di metallo lucido.
Non sembravano studenti. A guardarli li avrei scambiati per laureandi o simili. C'era un ragazzo, bruno, imponente, con dei bicipiti davvero mostruosi e un viso espressivo. Accanto a lui stava seduto un biondo dal viso vagamente sofferente e in parte annoiato, non imponente quanto il primo, ma sicuramente più muscoloso di quanto ci si aspetterebbe da un liceale. Le ragazze sedute di fronte a loro erano altrettanto appariscenti: una era bionda, con dei lineamenti da Madonna scolpita nel marmo o da catalogo di bellezza; l'altra era decisamente minuta, l'ossatura sottile e i capelli corti e scompigliati. Mi dava l'idea di uno spirito dei boschi, di quelli che ridono nascosti dietro ai tronchi degli alberi e poi ti prendono per mano, ti trascinano in fondo al bosco, dove non puoi più ritrovare la strada, e ti costringono a morire nel tentativo di seguirli nella loro danza.
Fratelli Cullen.
Non parevano fratelli. Ma si assomigliavano, in un certo senso. Sì.
Erano tutti di una bellezza che aveva dell'inquietante, immutabile e scolpita nella pietra dei millenni. Pallidi, più di chiunque altro, in questa cittadina raramente baciata dal sole. Avevano tutti occhiaie profonde, marcate, quasi avessero passato l'intera nottata in piedi, senza chiudere occhio. E anche quella prima, e quella prima ancora.
Mi aspettavo che da un momento all'altro si aprisse una crepa lungo la linea delle loro guance e che loro si polverizzassero lì davanti, rivelando la finzione.
Non riuscivo a staccare gli occhi da quel quartetto. Non ci riuscivo e allo stesso tempo avrei voluto guardare lontano, come se continuare a fissarli cominciasse a dolermi, in un punto indefinito del petto, più o meno in direzione dello sterno.
“Oh.” scandii solo, sorpreso.
“Già.” fu lo scarno commento generale, corredato da risatine divertite.
“I due mori sono Emmett e Alice Cullen. I due biondi sono Jasper e Rosalie Hale. Vivono tutti e quattro con il dottor Cullen, il medico dell'ospedale di Forks, e sua moglie.” mi spiegarono, velocemente.
Nomi strani. Antichi, in un certo senso. Da nonni. Non che Edward non lo fosse, per carità. Ma la mia era una tradizione. Lo era anche la loro?
“Sono tutti fratelli?” chiesi, vagamente interessato. Distolsi lo sguardo, cercando di non farmi beccare con le mani in pasta a fissarli.
“Oh, no. I due gemelli Hale, quelli biondi, sì. Sono in affido. Gli altri sono adottati.”
“Così grandi, in affidamento?”
“Sì, stanno con il dottore da molto tempo. Immagino che ormai quella sia la loro famiglia.”
“Un bel gesto, da parte dei signor Cullen, occuparsi di tutti quei ragazzi.” commentai, piacevolmente colpito.
“Sarebbe un bel gesto anche se smettessero di farsela esclusivamente tra loro.” borbottò Mike, vagamente risentito.
Il tavolo intero ridacchiò.
“Cioè, stanno assieme tra di loro?” chiesi, aggrottando le sopracciglia.
“Sì.” annuì Laureen, felice di poter fare un po' di sano gossip. “Emmett con Rosalie e Jasper con Alice.”
“Non so nemmeno se sia legale.” rincarò Jessica.
“Beh, ma non sono davvero parenti, no?” provò a conciliare Angela. Ogni secondo che passava riuscivo a trovarla più simpatica.
“Senti, Angie. È illegale, punto. Moralmente, se vuoi metterla così. Sono la fauna migliore di questa scuola, hanno il dovere professionale di mettersi a disposizione della comunità.” commentò di nuovo l'altra. Il commento mi fece ridere, per qualche strano motivo, con un moto di simpatia nei suoi confronti.
Al di là del divertimento era evidente che la cittadina condannava queste relazioni così... inconsuete. Forks non era mai stata di mentalità troppo aperta e questo pettegolezzo sarebbe stato molto chiacchierato anche in una scuola come Phoenix. Figuriamoci qui.
Un'altra occhiata distratta e discreta al loro tavolo mi offrì la vista di un Emmett e una Alice decisamente ilari che chiacchieravano con una Rosalie decisamente sdegnata. Jasper non muoveva un muscolo del viso, girando però lo sguardo fino a incontrare di striscio il mio, che si spostò immediatamente di nuovo sul mio piatto.
Riuscii a chiedermi, cercando di non sentirmi troppo imbarazzato, di cosa stessero discutendo per essere così divertiti.
“E sono sempre stati qui? Credo che dei tipi del genere me li ricorderei.” riflettei improvvisamente ad alta voce, cercando di ripercorrere le mie estati passate, alla ricerca di una traccia di quella bellezza che mi aveva impietrito oggi.
“Certo che no.” commentò Eric, come se fosse normale anche per uno straniero come me. “Si sono trasferiti qui l'anno scorso, da un posto sperduto in Alaska o qualcosa del genere.”
Se non altro non ero l'unico nuovo. E nemmeno il più appariscente.
Era come se la gente li evitasse, però. Io ero arrivato da nemmeno un giorno ed ero già in mezzo ai ragazzi. Loro avevano un vuoto, attorno, come un fossato che li separava dal resto della scuola.
Mi sembrarono soli.
Aggrottai le sopracciglia, pensoso.
“Aspetta, Mike. E la tua... Isabella?” chiesi improvvisamente, rendendomi conto che il suo nome non compariva tra quelli che mi erano stati citati.
“Oh... già. Lei non c'è. Probabilmente aveva altro da fare.” commentò l'interessato, scrollando le spalle. Sembrava gli fosse passata, ma ero portato a credere che fosse colpa dell'orgoglio ferito. Sorrisi, cercando di nasconderlo il più possibile.
“Così è l'unica senza ragazzo. Ed è bella come i fratelli?” chiesi. Mi interessavano, quei fratelli. Non sapevo perché, ma mi interessavano. Forse era per quella disumanità che si celava a stento nei loro tratti così perfetti, forse era per quelle espressioni così distanti e a tratti sofferenti che li avevo visti assumere in questi minuti. Erano un mistero.
“Forse anche di più.” sorrisero i ragazzi, annuendo. “Ma è strana.”
“Strana?”
“Sì, ogni tanto non capisci se c'è o se si è persa in un altro mondo. Non risponde quando le parli, a volte parla da sola o si alza nel mezzo della lezione ed esce senza una parola. Parla molto poco, anche meno dei fratelli. I professori la trattano come se fosse una bomba pronta ad esplodere.” spiegò Eric, aggrottando le sopracciglia.
“Credo abbia dei problemi.” la giustificò Angela, timidamente.
“Sì, seri.” replicò invece con acidità Jessica. Ecco, la simpatia di qualche secondo prima svanì. Non mi era mai piaciuto chi derideva quel genere di persone, nemmeno in Arizona. Era un comportamento che proprio non sopportavo.
Altra occhiata discreta.
Jasper stringeva la mascella, guardando vagamente il soffitto, anche in quell'unico istante riuscivo a distinguere la linea dell'osso in tensione. Alice gli aveva poggiato una mano sull'avambraccio, sporgendosi sul tavolo e sussurrando qualcosa a mezza voce, mentre Emmett teneva quel suo braccio enorme sulla sua spalla. Fu il turno di Rosalie: gettò un'occhiata irritata nella nostra direzione e per un istante pensai che dovessero aver sentito le nostre parole, ma era impossibile, così riportai l'attenzione sulle persone che mi circondavano.
“E come mai vi ostinate a provarci con lei, se la considerate strana?” chiesi, rivolto ai ragazzi.
“Perché quando una è così bella le si perdona tutto.” rispose Mike, come fosse ovvio. Era stupido, invece, ma evitai di farglielo notare.
“Sai,” cominciò Eric “A volte sorride, però. Dal nulla. O ride per qualche frase dei fratelli. O corre verso di loro. A volte sembra serena. È allora che ti dimentichi di tutto il resto. Ma ha uno sguardo strano, a volte, come se stesse soffrendo davvero troppo, per un corpo così piccolo. Ti viene voglia di stringerla e sussurrarle in un orecchio che passerà, che lo farai passare...”
Rimasi qualche secondo in silenzio. Fissandolo, perplesso. E non solo io: l'intero gruppo si bloccò.
“Ehi, Mike.” accennai, aggrottando le sopracciglia. “Ma non eri tu quello partito per la tangente dell'amore? A me pare che qui ce ne sia un altro.”
Eric assunse un colorito preoccupante, mentre tutti, attorno, ridevano.
“No, non credo. È solo un inguaribile romanticone.” rispose per lui Angela, sorridendo divertita.
“Già, mi accontento di qualcuno più accessibile.” sbuffò l'altro. “Mica punto in alto come Newton.”
“Oh, Arizona, guarda: parli del diavolo e spuntano le corna. Eccola là.” esclamò a quel punto Mike, che era evidentemente molto sensibile alla presenza della ragazza.
Io voltai la testa, incuriosito, incontrando il profilo di una figura che varcava la soglia della mensa. Fu allora che capii che ero nella merda almeno fino al naso.
Cazzo.

 

Isabella Cullen aveva lasciato la fila per il cibo in quel momento, allontanandosene con una mela e una bottiglietta di soda.
Ma non era quello che avevo notato.
Isabella Cullen aveva qualcosa di diverso dai fratelli, ora che ci facevo caso: tutti gli altri erano vestiti con classe, indumenti discreti, ma senza dubbio firmati. Lei camminava con la sua andatura quasi danzante vestita semplicemente di un paio di jeans sbiaditi, una camicia a quadri di flanella pesante e un paio di anfibi.
Ma non era nemmeno quello che avevo notato veramente.
“Edward?”
Capelli lunghi, di un mogano scuro, un cascata che si distendeva pigramente quasi fino ai fianchi. Pelle diafana, come i fratelli. Occhi ambrati e occhiaie scure, come i fratelli. Bella.
Il punto era che quella ragazza era... era... disumana.
Di una bellezza disumana.
Se ne stava lì, in mezzo a quella mensa, come fosse parte di tutto quello – la scuola, gli amici, i fratelli, i compiti a casa, i ripassi frenetici prima dei test... – ma io avrei giurato a me stesso che non era così, che quello non era il suo posto, che il suo corpo era qui, ma che la sua mente no.
Rabbrividii, istantaneamente.
Non era il suo posto. Non era il mio. La sua mente era altrove. Lo era anche la mia.
Rabbrividii di nuovo. Non sapevo perché, ma guardarla mi stava diventando insopportabile. Non riuscivo a sopportare la sua vista nemmeno un secondo di più.
“Arizona? Ehi, Arizona?”
Disumana. Di una tristezza disumana.
La postura perfetta, il volto distante, le labbra dischiuse così naturalmente... nulla riusciva a nasconderlo. Io lo vedevo, così come spesso avevo intuito i pensieri degli altri.
Isabella Cullen si portava addosso un giubbotto di tristezza che allungava i suoi tentacoli anche verso di me e io non riuscivo a sopportarlo. Era davvero opprimente.
Deglutii, deciso a chiudere gli occhi per sottrarmi a quello spettacolo. Pietrificato, però, in quella posizione.
“Ehi, Bella!” udii, dalla voce trillante di Alice.
Isabella non ascoltò. O forse non sentì, il suo corpo non aveva minimamente reagito alla voce della sorella. Continuò semplicemente a camminare, senza guardarsi attorno, per poi prendere posto ad un tavolo vuoto in un angolo, far comparire chissà dove un taccuino e una penna e cominciare a scrivere, febbrilmente e allo stesso tempo fluidamente.
Non sapevo perché, ma da quella posizione che impediva la vista delle pagine, avevo l'impressione che da quella punta sgorgassero centinaia di parole al minuto, decise al secondo, una ogni istante.
Non capivo.
Non capiva nessuno, probabilmente, di quelli che avevano seguito la scena. E ce n'erano.
Alice e i Cullen, invece, sembravano capire.
Riuscii a spostare lo sguardo su di loro giusto in tempo per vederli alzare e raggiungere la sorella al tavolo. Quello che si chiamava Jasper allungò una mano e la poggiò sulla sua spalla, facendole alzare lo sguardo di scatto.
E poi un sorriso. Il suo sorriso. Qualcosa di disumano all'ennesima potenza. Talmente insopportabile, alla mia vista, che dovetti guardare altrove.
Quando misi a fuoco il viso di Laureen, davanti a me, provai di nuovo una sorta di principio di nausea.
“Ehi, Masen, ma che fai? La vedi da due minuti e già ti innamori di lei?”
“Uhm?” chiesi, cadendo totalmente dalle nuvole, voltandomi verso la voce che aveva parlato. Mike, presupposi.
“Isabella.”
“E...”
“Innamorato.”
“Chi?”
“Tu.”
“Oh...”
L'intero gruppo scoppiò a ridere, ma il fatto che improvvisamente ridesse di me non mi fece più divertire tanto quanto prima. Arrossii, invece, cosa che li divertì ancora di più.
“Non sono innamorato.” borbottai, offeso “è solo che...”
“Cazzo.” convenne Eric.
“Appunto.” annuii io.
E tanti saluti al romanticismo.
“Ma guardalo, arrossisce. È così carino!” belò Laureen in un modo che mi fece saltare completamente i nervi. Sbuffai.
“Sì, grazie. E scommetto che il colore fa a pugni con quello dei miei capelli.”
Ricevetti una pacca sulla schiena in segno di conforto.
“Amico, questo era proprio un commento gay.”
Mio malgrado dovetti ridere assieme agli altri.
“Oh, insomma. Decidetevi: sono innamorato di quella Isabella o sono gay?”
“Credo che siano possibili entrambi gli scenari.”
“Stronzi.”
Era... strano come fossi riuscito a socializzare già dal primo giorno. A Phoenix il fatto che non fossi un inguaribile chiacchierone e che adorassi starmene per conto mio aveva fatto sì che avessi un gruppetto di amici piuttosto ristretto. Qui sembrava tutto più facile. Forse qualche cosa mi aveva cambiato, forse non era cambiato nulla dentro, ma solo fuori, forse...
Forse boh.

 

Ora di Biologia, poi due ore di educazione fisica. E poi a casa dalla merenda di Sue. Dio, sì.
Cercavo di pensarla il più positivamente possibile, anche ciò stava a significare, più o meno, che mi mancavano ancora tre ore di lezione e quindi ero a metà dell'opera.
Ma si sa, bicchiere mezzo pieno, o mezzo vuoto, dipende tutto da noi.
Avevo raggiunto l'aula con Mike e Jessica, accompagnato dalle loro chiacchiere e dai miei silenzi pensierosi e, quando ero entrato in aula, mi ero diretto direttamente verso la scrivania del professor Banner e gli avevo fatto firmare il modulo.
Fu quando mi indicò il mio posto a sedere, che la vidi. Seduta al mio stesso tavolo. Accanto al posto vuoto. Il mio.
Cazzo.
Isabella guardava fuori dalla finestra senza badare a tutto il resto del mondo. Lo trovai positivo, in un certo senso. In quel modo non avrebbe dato troppe attenzioni a me. Non le avrei sopportate. Probabilmente le avrei rimesso sui pantaloni. Non sapevo come avrei retto la vicinanza di quella ragazza per un intero anno, ma dopotutto non era mia, la scelta.
Mi avvicinai al tavolo e presi posto, con il busto rivolto alla lavagna e la testa leggermente voltata verso di lei.
“Ehm... Ehi. Io sono Edward.” tentai, in sua direzione.
La vidi girarsi verso di me e rimanere ferma immobile a fissarmi. Una eternità, da parte mia. Probabilmente furono solo un paio di secondi. Poi il suo sguardo divenne qualcosa che nessuno, nessuno, io ancor meno di tutti, sarebbe riuscito a sopportare: un misto di odio, rabbia, dolore, qualcosa che assomigliava a desiderio, ma soprattutto uno sconfinato terrore.
Mi impietrii anche io, lo sguardo fisso su di lei e sulle sue mani che parevano tremare, sul suo braccio destro che si era sollevato all'altezza delle spalle, come volesse... toccarmi? Schiaffeggiarmi? Accarezzarmi la guancia? Poi strinse i pugni e si voltò, rompendo quell'immobilità che aveva contagiato anche me, facendomi voltare di scatto a mia volta, paonazzo, deciso ad ascoltare la lezione, senza riuscirci veramente.
Non capivo.
Che cosa diamine significava, quello sguardo? Ero più che certo di non averla mai vista, potevo già averla offesa in qualche modo?
Capii all'improvviso cosa intendevano i ragazzi, quando la definivano strana. Lo era davvero. E la cosa mi spaventava, in un assurdo e ridicolo modo. Era solo una ragazza. Una ragazza con qualche problema. Avrei potuto tentare di essere più gentile, no?
Forse, ma non in quel momento. Non quando lei continuava a stringere convulsamente i pugni, il più lontana possibile da me, ma con qualche movimento accennato, di tanto in tanto, che mi pareva volesse avvicinarla.
A metà della lezione, giusto un'eternità dopo, quella tortura si interruppe. La interruppe proprio lei, per esser precisi. Si alzò di scatto dal banco e si avviò verso l'uscita.
“Ehm... signorina Cullen?” azzardò il professore, in sua direzione.
“Mi... mi dispiace, signore. Devo uscire. Devo.” mormorò.
Il professore annuì precipitosamente.
“Certo, vada pure.”
Qualche mormorio nella classe. Le mie guance di fuoco. Il professore ricominciò a parlare.

 

“Neanche un'ora e tu e Isabella Cullen vi siete già quasi azzannati?” chiese Jessica, ridacchiando compiaciuta, mentre ci dirigevamo verso la palestra.
Le sorrisi vagamente, cercando di ignorare l'imbarazzo.
“Mi sono solo presentato, in realtà.”
“Non so cosa le sia preso. Dio, quella è davvero strana.” sospirò la ragazza. “Se io ti avessi avuto vicino di certo non ne avrei approfittato per tentare di darti fuoco con la retina.”
Risi, divertito.
“Ehi, Edward, non mi prendere in giro!”
“No, penso solo a cosa avresti preferito fare, Jessica.”
“Idiota. Vai negli spogliatoi, che è meglio. Ci vediamo dopo.”
Annuii, entrando negli spogliatoi, per poi cominciare a scuotere la testa.
Avevo una mezza idea di cosa stava succedendo.
Mamma era morta. E questo ormai si era radicato dentro di me con sufficiente chiarezza.
E mi aveva segnato a fondo, più di qualsiasi altra cosa fosse successa nella mia vita da scansafatiche.
Ora che questo era successo, che qualcosa dentro di me cominciava a scricchiolare, avevo bisogno di una facciata con i controfiocchi. E la stavo regalando al mondo intero.
“Ehi, Masen, vedi di non accaparrarti tutte le ragazze di questa scuola. Lasciacene qualcuna, mi raccomando.” mi urlò Mike, dall'altra parte della palestra, ridendo. Risi con lui e decisi di non pensare più. Educazione fisica faceva al caso mio.
Il professore era riuscito a procurarmi una divisa, ma mi aveva accordato il permesso di rimanere a guardare, per quella prima lezione, così avevo sostanzialmente passato il tempo a chiacchierare con Jessica e Mike che, nei tempi morti, si eclissavano per venire a scambiare quattro parole con me.
Alla fine quelle due ore passarono in un lampo e mi diressi con sollievo, ma con un certo compiacimento per la giornata complessivamente positiva, verso la segreteria, per consegnare tutti i maledetti fogli che dovevo consegnare e poi darmela a gambe.
Avrei dovuto immaginare che non sarebbe stato così facile.
Entrato dalla porta mi bloccai, notando che qualcuno mi aveva preceduto e che si era accaparrato le attenzioni della segretaria. A dirla tutta sembrava stessero litigando.
Ci misi qualche secondo a riconoscerlo, di spalle.
Jasper Hale-Cullen stava chino sul bancone, sibilando in direzione della segretaria, che pareva dispiaciuta e terrorizzata, ma irremovibile.
“Mia sorella non può più frequentare quel corso.” ruggì, forse per l'ennesima volta.
“Me l'hai già detto,” confermò in fatti la donna “ma, davvero, non posso farci nulla. Isabella si dovrà rassegnare a frequentare Biologia.”
Biologia?
Il fratello di Isabella si stava dando tutto quel daffare per toglierla dalla classe di Biologia? Dalla mia classe?
No, non era possibile.
“Senta, lei lo sa com'è mia sorella, lei sa che...”
“Sì, lo so. Ma purtroppo non posso fare assolutamente nulla. Arrivederci.” legiferò la segretaria, chiudendo il discorso.
Qualcuno entrò, alle mie spalle, facendo entrare una corrente d'aria che mi lanciò un brivido gelato lungo la schiena e mi fece avanzare di qualche passo.
La testa di Jasper si voltò di scatto verso di me. Rimasi fulminato: se lo sguardo che la sorella mi aveva lanciato era stato terribile, il suo, se possibile, era quasi peggio. Odio allo stato puro. Odio, rabbia e disprezzo, anche.
“Non importa.” ringhiò verso la segretaria e mi passò accanto, stringendo i pugni, per poter uscire.
Mi avvicinai al bancone, continuando a guardarmi le spalle, paonazzo di vergogna e rabbia.
Che diritto avevano, quei due, di trattarmi in quel modo? Cosa avevo fatto? Avevo rubato loro aria, venendo a stare qui?
“Edward, caro. Tutto bene?” mi chiese la donna, che a sua volta tentava di riprendere fiato dalla precedente discussione.
“Sì. Sì.” assicurai, vagamente.
“Sicuro, caro? Sei tutto rosso.”
“Sì, mi capita spesso. Non si preoccupi. Ecco qui le carte. Arrivederci.” tagliai corto, riconsegnandole i fogli che nel corso della giornata avevo irrimediabilmente spiegazzato.
“Aspetta. È tutto ok? È stato un buon primo giorno?”
“Certo. È andato tutto a meraviglia.” assicurai. Ma non ci credette nemmeno lei.







Hopeless notes:
e così ecco qui anche il nuovo capitolo! :) Questo non mi piace più di tanto, è un po' noioso... ma vabbeh, lo dovevo fare per forza no?
Come avete visto Bella è un po' diversa da come l'abbiamo conosciuta e così anche Edward mi pare, ma è giusto così. La reazione di Bella è stata comunque abbastanza esagerata.
Ecco, non so più cosa dire. Solo che probabilmente le cose cominceranno a farsi diverse. Forse, non lo so. Non ho ancora capito bene :D
Ah, sì, a proposito: per voi la lunghezza del capitolo è giusta? O è troppo lunga? Vi annoiate? Devo tagliare di più?
Ringrazio tutti quelli che hanno messo la storia fra le preferite-seguite-ricordate e anche le due adorabili ragazze che hanno recensito lo scorso capitolo! Vi adoro :)
Al prossimo capito e mi raccomando, ditemi cosa ne pensate!!

 
  
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