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Autore: vannagio    17/02/2014    12 recensioni
Quella era davvero una giornata del cazzo. E JD ne aveva le palle gonfie, di quella merda. Dieci farfalline in un giorno erano troppe per fino per il Santo Protettore Dei Tatuatori. Che forse non esisteva affatto, vista e considerata la ragazzina che era appena entrata nel suo negozio di tatuaggi. C’era solo un tipo di ragazza che JD detestava più della solita Barbie Voglio Una Farfalla Sull’Inguine, ovvero la classica Bellezza Dark.
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Una storia di metallo e inchiostro'
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Capitolo 3




«Ehi, puttanella. Non mi stancherò mai di ripetere quanto non sono felice di vederti».
«L’unica puttana, qui, sei tu, Darla. E comunque il sentimento è reciproco».
Honey oltrepassò il bancone senza degnarla di uno sguardo, abbandonò la tracolla coi libri sul pavimento e si diresse a passo di marcia verso il laboratorio, dove sapeva di trovare JD. Meno stava vicino a Darla, meglio era per la sua salute mentale.
Il ronzio della macchinetta salutò il suo ingresso nel laboratorio.
«Non potreste cercare di andare d’accordo voi due?», chiese JD.
«Solo quando l’inferno gelerà».
JD era chino sul suo braccio sinistro. Non aveva legato i capelli con l’elastico come faceva di solito quando tatuava i clienti, perciò le lunghe ciocche nere gli ricadevano a tenda davanti al viso e ostruivano la visuale. Honey gliele sistemò dietro l’orecchio, in modo da poter dare una sbirciatina. Stava lavorando a un tatuaggio che aveva cominciato qualche giorno prima: adesso, un paio di occhi gialli da gatto stavano spiando Honey, tra le spire di un serpente avvinghiato intorno all’avambraccio. L’espressione sul volto di JD era concentrata ma serena. Mentre l’ago ronzava e la pelle si tingeva di giallo, lui sorrideva sovrappensiero. Come se tatuarsi da solo fosse la cosa più facile e normale di questo mondo.
«Come farai ora, ti tatuerai anche la faccia? Non c’è più neanche uno spazietto libero!».
Il ronzio cessò. JD prese la sigaretta dal posacenere e diede un tiro. La punta brillò di un rosso acceso per qualche istante, per poi tornare subito grigia e fumante.
«E tu che ne sai? Hai mai visto come sono fatto sotto i vestiti?».
Honey avvampò. Quando la provocava in quel modo, le veniva voglia di picchiarlo. Soprattutto perché invece di sfruttare la battuta e approfondire l’argomento, cambiava subito discorso. Come qualcuno che ha imboccato per sbaglio un vicolo cieco molto stretto e per uscirne è costretto a fare retromarcia.
«Come è andata a scuola?».
Ecco, appunto.
«Potresti toglierli, i vestiti», disse lei, ignorando la seconda domanda. «Così potrei parlare con cognizione di causa».
Gli tolse la sigaretta dalla bocca e la spense nel posacenere. Poi si sedette sulle sue ginocchia, gli circondò il collo con le braccia e lo baciò. Le piaceva il suo sapore di tabacco e l’odore di inchiostro che impregnava i suoi capelli. La mano di JD strisciò lentamente sotto la gonna e Honey tremò, anche se sapeva già che lui non si sarebbe spinto fino in fondo. Non lo faceva mai.
Certe notti, sola nel suo letto, era difficile addormentarsi, se tutto quello a cui riusciva a pensare erano le mani di JD. Si incantava a guardarlo lavorare: mentre i tatuaggi prendevano letteralmente vita sotto le sue dita, Honey provava a immaginare l’effetto che quelle stesse dita avrebbero avuto sui suoi nervi.
Le mani di JD erano pericolose.
Honey l’aveva capito fin dal loro primo bacio, davanti al diner, in piedi sul marciapiede, tra le occhiate curiose dei passanti. JD si era trattenuto in quell’occasione, lei se n’era accorta. L’aveva baciata lentamente, come un liquore che va assaporato a piccoli sorsi altrimenti dà alla testa, e le sue mani non erano mai scese oltre il collo e le spalle. Nemmeno quando gli si era buttata praticamente addosso, aveva ceduto. Al contrario, JD aveva ammansito e imbrigliato la sua impazienza con carezze leggere tra i capelli e sulla nuca. Eppure, nonostante quella ferrea disciplina, Honey aveva avvertito tutto il potere di quelle mani gocciolare lento sulla sua pelle, come cera liquida e bollente. Quelle mani avrebbero potuto liquefarla solo sfiorandola, ne era certa.
«Honey?».
«Uhm?».
«Mi stai ascoltando?».
Sbatté le palpebre un paio di volte, poi annuì ancora un po’ frastornata.
«Stavo dicendo che mi piacerebbe portarti in un posto, domani sera». Le orecchie di Honey si drizzarono come antenne. Un appuntamento? Dopo due settimane di incontri clandestini nel suo negozio, le stava davvero proponendo un vero appuntamento? «Credi sia fattibile?», le chiese.
«Certo che sì!».
JD aggrottò la fronte.
«Prima, per favore, accendi il cervello. Hai risposto troppo velocemente».
«Il mio cervello è attivissimo, stai tranquillo. Dimmi dove, come e quando».



«Sono a casa!».
«Alla buon ora! La cena è quasi in tavola, dove sei stata tutto il pomeriggio?».
«A provare con la band». Honey diede un bacio a Zachariasz, che stava apparecchiando, e un altro a Isa, che invece stava sorvegliando la pentola dello stufato sul fornello. «Torno subito, salgo solo a mettermi addosso qualcosa di più comodo».
Zachariasz la trattenne per un braccio.
«Non così in fretta, ragazzina. Stamattina non hai accennato a nessuna prova con la band».
Lei si strinse nelle spalle.
«Mi sa che mi è sfuggito, allora. Vado, ammazzo e torno».
Si divincolò dalla sua presa e corse su per le scale. Zachariasz la seguì con lo sguardo, fin quando non scomparve al piano di sopra.
«Non so più cosa pensare. Due settimane fa faceva invidia a uno zombie. E guardala adesso, non sembra nemmeno la stessa ragazza! Qui gatta ci cova».
Isa roteò gli occhi.
«E se è triste, c’è qualcosa che non va. E se è felice, allora ci nasconde qualcosa. Insomma, tesoro, non te ne va mai bene una?».
Zachariasz infossò le spalle, sulla difensiva.
«Non ha ancora finito di compilare le domande di ammissione al college. Ogni volta che tiro fuori l’argomento, cambia discorso o scappa via. E poi è sempre in giro. Sono preoccupato!».
Isa comparve alle sue spalle e lo abbracciò da dietro, baciandolo sulla nuca.
«Sai che novità! Tu sei sempre preoccupato».
Zachariasz si girò tra le sue braccia e la strinse a sé.
«Dici che esagero?».
Lei sorrise e gli tamburellò la punta del naso con l’indice.
«Appena un pochetto».



Benedetta aprì la porta del sul ufficio senza esitazione.
«Buonasera, Detective».
«’Sera».
Il Detective Martìnez aveva un’aria sciupata, le profonde occhiaie intorno ai suoi occhi dicevano che non dormiva cinque ore di fila da un bel po’. Indossava lo stesso completo trasandato della volta scorsa. Il nodo alla cravatta era lento e storto, il colletto della camicia sbottonato. Se non fosse stato per la fede che portava al dito, Benedetta avrebbe detto che il Detective era scapolo.
«Mi hanno detto che mi stava cercando, vedo che non ha avuto problemi a trovare il mio ufficio. Cosa posso fare per lei, questa volta?».
Benedetta prese posto dietro la sua scrivania, indicò con un cenno della mano la sedia vuota, ma il Detective Martìnez preferì rimanere in piedi, a fissare i monitor della sorveglianza.
«Dove si trovava la notte scorsa?».
«Qui al Goldfinger, perché?».
«C’è qualcuno che può confermarlo?».
«Praticamente tutto il personale. Posso sapere a cosa devo questo interrogatorio?».
Finalmente Martìnez smise di fissare gli schermi e si voltò verso Benedetta. I suoi occhi castani, seri e profondi, la trafissero come un coltello, ma lei sostenne senza difficoltà il suo sguardo.
«Ieri notte sono stati trovati due cadaveri in una delle fermate della metropolitana di Williamsburg. Due spacciatori».
Benedetta si accigliò. Non ne sapeva niente. E se non lo sapeva lei, allora nemmeno il Cardinale era stato informato della faccenda. Brutto, bruttissimo segno.
«La droga è un settore pieno di rischi», commentò.
«Patryk Nowak e Filip Mazur, li conosceva?».
Scosse la testa. «Mai sentiti nominare».
Martìnez assottigliò lo sguardo, forse cercando di capire se mentiva o meno.
«Appartenevano alla banda dei Polacchi. Ormai la guerra tra bande per Williamsburg Nord e il territorio di spaccio non è più soltanto un’ipotesi».
Benedetta si appoggiò allo schienale della sedia a braccia conserte.
«Storia interessante, solo non capisco perché sia venuto a raccontarla a me».
«Alcuni testimoni sostengono di avere visto Nowak e Mazur gironzolare da queste parti».
Lei fece spallucce.
«Ha idea di quanta gente gironzola qui ogni sera?».
«Sì, è vero. Il Goldfinger è un locale molto frequentato. Però, forse, questi due particolari frequentatori non erano molto graditi. Forse al suo capo non piace la concorrenza».
No, al Cardinale non piaceva affatto la concorrenza, ma se avesse ammazzato qualcuno (al Cardinale non piaceva delegare il lavoro sporco agli altri) che spacciava al Golfinger senza il suo permesso, lei sarebbe stata la prima a saperlo. Che cazzo stava succedendo a Williamsburg?
«Detective, non capisco. Sta dicendo che Nowak e Mazur avevano intenzione di aprire un loro locale, per caso? Perché non riesco a immaginare altro tipo di concorrenza che potrebbe impensierire il mio capo».
Martìnez abbozzò un sorriso. Camminò avanti e indietro, soppesando i passi. Poi si fermò davanti alla scrivania e piantò i palmi sul piano, sporgendosi in avanti e guardando Benedetta dritto negli occhi.
«Ho sentito parlare parecchio di questo posto», disse serissimo.
La cravatta penzolava sotto il suo mento e sfiorava quasi il piano della scrivania. A Benedetta venne in mente uno di quei film porno, con la poliziotta che interroga il sospettato. Per un attimo vide se stessa afferrare la cravatta e…
«Soprattutto alla Buoncostume. Droga, prostituzione… cose da niente, insomma. E siccome non ero abbastanza soddisfatto, ho fatto delle ricerche per conto mio. Immagini la mia sorpresa quando è saltato fuori che il cognato del suo capo è sospettato di diversi crimini. Guarda caso, tutti compiuti per conto della banda dei Polacchi».
Merda! Ci mancava solo questo, che dopo quasi vent’anni la storia di Zachariasz saltasse di nuovo allo scoperto. Ciononostante, Benedetta non si scompose.
«Ha finito con le sue illazioni, Detective?».
Martìnez sospirò pesantemente e finalmente accettò di sedersi.
«Sì, è vero. Non ci sono prove. Immagino che anche il suo capo abbia un alibi di ferro, per la scorsa notte».
Benedetta annuì. «Non si allontana mai dal suo locale».
«Potrei parlare con i vostri alibi? Giusto per raccogliere qualche dichiarazione».
«Certo che sì, vada al bar. Thresh e suo fratello Liam risponderanno a tutte le domande che riterrà opportuno porre».
Benedetta e il Detective si alzarono contemporaneamente. Per un po’ rimasero lì, in piedi, l’uno di fronte all’altra, senza sapere di preciso cosa fare. Poi Martìnez si guardò intorno.
«I fronzoli non sono la sua passione, eh?».
«Mi piacciono le cose essenziali. Quello che mi serve e nient’altro».
«Per un certo periodo mia moglie si è dilettata di arredamento, invece. Le riusciva anche piuttosto bene. Aveva il dono di rendere le case accoglienti».
«Sembra una donna in gamba».
Sul viso del Detective Martìnez comparve un sorriso triste e nostalgico.
«Lo era».
All’improvviso Benedetta si sentì una merda. Avrebbe dovuto immaginarlo. Calò un silenzio doloroso tra loro. Martìnez si schiarì la voce e senza aggiungere altro si avviò verso l’uscita. Aveva già aperto la porta, quando si fermò per dare un’ultima occhiata all’ufficio.
«Sa, forse una pianta potrebbe fare la differenza».
Benedetta gli rivolse un sorriso tirato.
«Non credo. Ho un talento naturale per far morire le cose».



Era uno di quei pomeriggi in cui nessuno aveva voglia di fare niente, figurarsi provare la scaletta per la prossima esibizione al Goldfinger. Il garage di Ben era il luogo ideale per trascorrere quei momenti di totale apatia. Jonathan se ne stava mezzo sdraiato sul vecchio divano rosso che i genitori di Ben avevano sostituito e posteggiato là qualche anno prima. Ben invece strimpellava distrattamente la chitarra e Honey sembrava persa nel suo mondo fatto di tatuaggi. Connor si morse la lingua per il disappunto.
«Oh, ragazzi. Mi sono rotto di stare qui a non fare un cazzo. Possiamo almeno occupare queste ore morte per decidere cosa fare stasera?», disse improvvisamente Jonathan. «Che ne so. Vi va di andare a vedere un film?».
Connor spiò Honey di sottecchi, che però stava ancora sognando a occhi aperti. Dopo due settimane non si era ancora resa conto di essersi dimenticata del loro appuntamento al cinema.
«Naah, andiamo al Goldfinger», propose Ben. «Si esibiscono gli Skulls, stasera. Sono tipi tosti, quelli. Dobbiamo tenere d’occhio la concorrenza. E poi con Honey entriamo gratis. Dico bene, Honey?».
Lei sussultò.
«Cosa? Ah, uhm. Veramente io avrei un impegno stasera».
Tre paia di occhi si puntarono su di lei. Il sorrisetto di Ben era tutto un programma.
«Non mi dire… il tatuatore? Che bolle in pentola?».
«Non lo so. Ha detto che vuole portarmi in un posto. Dobbiamo incontrarci al negozio, all’orario di chiusura».
«Oh, lo so io dove vuole portarti quello là!».
Honey gonfiò le guance, come una rana.
«Piantala di sparare minchiate, Jonathan!».
Lui scoppiò a ridere.
«Guardate com’è arrossita, la principessina! Secondo me l’hai capito anche tu, dove vuole portarti».
«O meglio, cosa vuole farti», rincarò Ben.
«Siete dei grandissimi pezzi di merda. Invece di prendermi per il culo, non potreste almeno farmi un favore?».
«Tipo?».
«Tipo coprirmi con mio padre».
Ben e Jonathan si guardarono a vicenda e fecero spallucce quasi contemporaneamente.
«Per me non c’è problema».
«Nemmeno per me. Se ce lo dovessero chiedere, diremo che sei stata con noi».
Honey sorrise riconoscente, poi rivolse lo sguardo speranzoso a Connor. Che per un attimo soppesò l’idea di rispondere “Vaffunculo, Honey” e mandare a puttane la sua seratina romantica col tatuatore trentenne del cazzo. Solo per un attimo, però.
«Non c’è bisogno che mi fai gli occhi dolci. Certo che ti copro».



Sta’ calma, Honey. Non è la prima volta che esci con un ragazzo. Fai un bel respiro ed entra. Sei tosta, sei di roccia, niente può scalfirti. Questa serata sarà perfetta. Non te la stai facendo sotto dalla paura per quello che hanno detto Ben e Jonathan. Andrà tutto bene. Devi solo mantenere la calma.
«Ciao, Darla. Come mai sei ancora qui? Di solito a quest’ora sei già a farti fottere da qualcuno. Non vorrai mandare a puttane la tua fama, vero?».
Per la prima volta da quando aveva cominciato a frequentare il negozio di JD, Darla infranse la loro ormai consolidata tradizione di insulti: invece di rispondere a tono, si limitò a fissarla con un inquietantissimo ghigno che le tagliava la faccia in due.
Non ti fidare, ha qualcosa in mente. Ricorda, niente può scalfirti.
«Che cazzo hai da guardare? E dov’è JD?».
«È corso a casa a cambiarsi. Ha fatto tardi, perché all’ultimo minuto è arrivato un cliente affezionato e non ha potuto dirgli di no. Per questo sono ancora qui, mi sono offerta di tenerti compagnia fino al suo ritorno».
Honey sfoderò il sorriso più falso del suo repertorio.
«Un pensiero carino da parte tua, ma non era necessario che ti prendessi un simile disturbo. Vai pure a farti fottere, posso aspettare da sola».
Darla scosse la testa, sempre con quel ghigno da brividi impresso sul viso. Aggirò il bancone, ancheggiando come una pantera. Come cazzo faceva a muoversi con quegli shorts infra-chiappa, non le davano fastidio? Vedendosela arrivare incontro, Honey indietreggiò istintivamente di un passo, ma Darla la prese sottobraccio e la trascinò fino al divano. Dopo che si furono sedute fianco a fianco, Darla prese a guardarla dritto negli occhi. Adesso il ghigno da Malefica non c’era più, era stato sostituito da un’espressione grave e mortalmente seria.
«Devi essere emozionata per stasera», disse.
«Per niente», mentì Honey. «È un’uscita come un’altra».
«Ti ammiro molto, sai. Sei davvero coraggiosa. Al posto tuo, nonostante la mia decennale esperienza, sarei molto intimidita».
Okay, ha sicuramente in mente qualcosa. Tieni la schiena dritta. E fa’ attenzione, Darla fiuta la paura come un segugio la sua preda.
«Mi spiace, non capisco di che cazzo stai parlando».
Le sopracciglia di Darla guizzarono in alto, in una finta espressione meravigliata.
«Ah, ma allora non è che sei coraggiosa, sei solo ignorante! Avrei dovuto immaginarlo. Per fortuna che hai me, posso darti delle dritte che ti renderanno tutto più semplice».
«Ma di che diavolo…?».
«Perché JD è un tipo molto esigente, sai? Non si accontenta mica della posizione del missionario. Lo sai, vero, qual è la posizione del missionario?».
Sì che lo sai. In teoria, ma lo sai. Quindi perché non stai annuendo? Annuisci, scema. Annuisci!
«Mi ricordo quando usciva con quella tipa nota per essere una bocchinara di prima categoria. Tu come sei messa a pompini? Guarda che JD ci tiene. Il pompino è la prestazione base, praticamente. Indispensabile per il primo appuntamento».
Vuoi chiudere quella cazzo di bocca? E smetti di sgranare gli occhi come un uccello impagliato. Okay, non hai mai fatto un pompino in vita tua, ma non sei mica nata ieri. Riprenditi, cazzo!
«Ah, poi c’era quella che sapeva infilare i preservativi senza mani. Lo sai fare anche tu? Aspetta, ma lo hai mai visto da vicino un preservativo, almeno?».
La scatola esposta in farmacia e quello nel portafoglio di Ben contano?
«Dovresti anche cercare di capire qual è la tua posizione preferita. Ti piace stare sopra, sotto o a pecora. E perché? Ah, sei vaginale o clitoridea? È importante saperlo. Hai idea cosa sia un sessantanove?».
«Ehm…».
Voglio morire.
«Ragazze, non ditemi che state cominciando a comportarvi da persone civili!».
Honey dovette fare violenza su se stessa per non sussultare nel trovarsi davanti JD. Si alzò dal divano, con un sorriso di gomma appiccicato alla faccia, e lo salutò con un bacio sulla guancia.
«Darla mi stava dando qualche dritta». Si rivolse alla diretta interessa. «Apprezzo il pensiero, Darla, ma non mi hai detto nulla di nuovo. Anzi, è tutta roba superata da secoli. Si vede che non sei più tanto giovane».
Lei era ancora seduta sul divano, con le gambe accavallate e un’espressione di sufficienza.
JD le fissò a lungo prima di chiedere: «Dritte riguardo a che cosa?».
«Cose da ragazze», risposero entrambe contemporaneamente.
JD non sembrava molto convinto, ma si strinse nelle spalle e lasciò correre.
«Possiamo andare, allora?».
Honey annuì, raggiante. Se solo fosse riuscita a smettere di tremare!



«Caspita, cinque minuti senza aprire bocca. Deve essere una specie di record per te!». Honey provò a ridere, ma le uscì fuori solo un mezzo singulto strozzato. A giudicare dallo sguardo corrucciato, era un’altra la reazione che JD si era aspettato da lei. «Non mi hai chiesto nemmeno dove ti sto portando», tentò una seconda volta. «Non sei curiosa?».
Lo so io dove vuole portati quello là!
O meglio, cosa vuole farti.
Il pompino è la prestazione base, praticamente.

Il nodo alla gola le impedì di deglutire a vuoto.
«No, è solo che non voglio rovinarmi la sorpresa».
Adesso non farne un dramma. Si tratta di un pompino. Che vuoi che sia? Nei film porno li fanno di continuo. A proposito, com’è che facevano nei film porno? Cazzo, adesso si pentiva amaramente di non aver prestato attenzione, quella volta che i ragazzi avevano messo su un carnaccio nel garage di Ben. Avanti, concentrati, qualche sequenza l’hai vista anche tu. Corrugò la fronte, per lo sforzo di concentrazione. Allora, c’era una tizia bionda con la fica tatuata, inginocchiata davanti a un palestrato di colore. E poi? Gli aveva sbottonato i pantaloni, supponeva. Oppure erano già nudi? No, ma quelli erano dettagli insignificanti, ciò che le interessava davvero era la tecnica. Glielo aveva preso tutto in bocca o si era aiutata con la mano?
«…con la mano».
«CHE?».
Nel voltarsi di scatto quasi si ruppe l’osso del collo. JD la fissava come se fosse pazza.
«Ho detto. Vuoi una mano? A sganciare la cintura, intendo».
Ricominciare a respirare fu un sollievo, ma il cuore non voleva saperne di darsi una calmata. Forse era il caso di smettere di pensare ai film porno. Forse, eh?
«No, faccio da sola. Siamo già arrivati?».
«Così pare».
Scese dall’auto e nel vedere quello che aveva di fronte, tutti i suoi problemi di tecnica del pompino si dispersero come sabbia al vento.



«Ehi, Tom, come va?».
«Alla grande», rispose Tom, mentre chiudeva il registratore di cassa. «Non dovresti essere a una festa, stasera?».
«Devo ancora finire il giro. Ci sono stati problemi, oggi?».
Tom scosse la testa. «No, è stata una giornata tranquilla».
«Bene. Ti spiace se prendo un pacchetto di fonzies? Sono le mie preferite».
«Fa’ pure».
Aveva appena chiuso il registratore di cassa, ma Cagnaccio pattugliava la zona, un pacchetto di fonzies gratis era il minimo che Tom poteva dargli per sdebitarsi.
Lo avevano soprannominato Cagnaccio perché era fedele come un cane da guardia, ma se si incazzava diventava selvatico ed era capace di mordere chiunque. A eccezione del suo padrone, ovvio. Halona lo aveva raccattato come un randagio in un centro di recupero per tossicodipendenti a sedici anni, se lo era messo in casa, lo aveva addomesticato e gli aveva dato un lavoro. Da allora Cagnaccio le era rimasto sempre a fianco, scodinzolando felice.
«Quanto ti devo?», chiese Cagnaccio, mettendo mano al portafoglio.
«Lascia stare, a posto così».
«Grazie, Tom. A buon rendere».
Aprì il pacchetto e uscì dal negozio che già aveva la bocca piena.
Tom aspettò che la porta si fosse chiusa, poi prese la scopa e cominciò a spazzare il pavimento. Non erano passati nemmeno sessanta secondi, quando udì lo sparò. Per lo spavento, lasciò cadere la scopa. Il tempo di constatare che era ancora vivo e corse fuori.
Tre uomini stavano caricando il corpo massiccio e macchiato di rosso di Cagnaccio su un SUV nero. Prima ancora che Tom riuscisse a fare alcunché, lo sportello era stato chiuso e la vettura era ripartita sgommando.
Quando un ladro decide di svaligiare una casa, pensò Tom, la prima cosa che fa è liberarsi del cane da guardia.



«Questo posto è una figata assurda!», esclamò Honey.
JD abbozzò un sorriso, mentre la prendeva per mano e se la trascinava dietro, inoltrandosi nella calca di gente tatuata ammassata tra i tavoli. Ci aveva messo venti minuti per convincerla a entrare nel locale. Perché prima Honey aveva preteso di esaminare, una ad una, le decine di moto parcheggiate davanti al Coyote Club. Sulle forcelle allungate della Harley Davidson di Sam si era quasi commossa e lui era stato costretto ad afferrarla per la collottola del chiodo di pelle per impedirle di inforcarla.
Vuoi farti ammazzare, per caso?
Scusa, JD. Mi sono lasciata trascinare dall’emozione.

Lui aveva sentito addosso il peso degli sguardi sospettosi dei biker radunati di fronte all’ingresso. Nemmeno la mascotte della banda poteva permettersi una simile libertà. Toccare la moto di un Coyote è il modo più rapido per passare a miglior vita, diceva sempre Wile. E JD sapeva per esperienza personale che non era solo un modo di dire.
«Sono contento che ti piaccia», disse, quando finalmente ebbero raggiunto il bancone. «Temevo che saresti rimasta delusa».
L’espressione di Honey era incredula.
«E perché mai avresti pensato una cazzata del genere?».
«Di solito frequenti posti più eleganti e alla moda».
Honey sbuffò. «Figurati! Frequento il Goldfinger perché è il locale di mio zio. Certo, lo adoro, ma solo perché ci sono praticamente cresciuta dentro. Questo posto invece è…». Un tizio con una lunga barba grigia e le zanne di un coyote tatuate sul cranio la spintonò di lato per farsi largo. Honey però non si scompose. Anzi, a giudicare dalla sua espressione sembrava che non aspettasse altro che essere spintonata di nuovo. «Non ci sono parole per descriverlo, JD!», concluse alla fine con sguardo trasognato.
Lui scosse la testa, segretamente compiaciuto.
«Vediamo se riusciamo a rimediare un tavolo libero, allora».
«Difficile con questo casino. È sempre così affollato?».
«No, di solito è più tranquillo, ma stasera si festeggiano i quarant’anni dall’apertura del locale. C’è praticamente tutta la banda dei Coyote».
Honey sgranò gli occhi. «Quindi tu sei uno di loro?».
«No, io no. Però mio nonno Wile ne è stato il capo fin quando è campato».
«Cazzo!».
JD rise. «Lo prendo come un complimento».
Alla fine erano riusciti a ottenere un tavolo solo per gentile concessione di Halona, che dopo aver squadrato Honey dalla testa ai piedi, aveva fulminato JD con un’occhiataccia e se n’era andata borbottando qualcosa come “Uomini, ragionano solo con l’uccello”.
«Quella donna mi mette una gran fifa».
«Meglio, così non la prendi sottogamba. Halona non possiede il senso dell’umorismo, odia le domande, soprattutto quelle stupide, picchia come un pugile professionista e nutre una scarsa simpatia per le belle ragazze, soprattutto quelle che si scopa suo marito».
«Ma chi? Il simpatico vecchietto che mi ha offerto la birra poco fa?».
Ci mancò poco che JD non si strozzasse con il suo Grey Goose.
«Apri bene le orecchie. Stai alla larga da quel “simpatico vecchietto”, perché proverà a rimorchiarti non appena ne avrà l’occasione».
Honey era sbalordita.
«Te l’ho già detto che adoro questo posto?».
Come se avesse ascoltato i loro discorsi, il simpatico vecchietto in questione, che di nome faceva Shiriki, salì sul palco, intimò alla band di cessare la musica e si schiarì la voce nel microfono.
«Scusate l’interruzione, signore e signori, ma mi è giunta voce di un fatto increscioso appena verificatosi qui al Coyote Club. Qualcuno si è imbucato alla nostra festa». Il coro di buuuuuuu fu immediato. «Qualcuno che non fa parte della nostra banda e che non è stato nemmeno invitato. Ora, come sapete, ci sono tradizioni ben precise che vanno assolutamente rispettate, soprattutto in una serata di baldoria». Un boato di approvazione si levò dalla massa informe di persone stipata sotto il palco. «Invito, quindi, l’incantevole accompagnatrice di John Doe a salire immediatamente sul palco. O sarò costretto a buttarla fuori dal locale a calci in culo, come direbbe la mia adorata consorte».
Halona, da dietro il bancone, gli mostrò il dito medio. Nel frattempo Honey era di colpo sbiancata ed aveva infossato la testa nelle spalle come una testuggine, sperando probabilmente di passare inosservata.
«Sta mica parlando di me?».
JD mandò giù un sorso di Grey Goose, prima di rispondere.
«Conosci un altro John Doe, forse?».
«Cazzo, cazzo, cazzo. Che diavolo vuole da me? Perché non mi lascia in pace?».
«Ho dimenticato di dirti che Shiriki ha una fissa per il karaoke. Chi non fa parte della banda, per guadagnarsi un posto a sedere nel Club, deve cantare una canzone sul palco».
Honey si coprì la faccia con entrambe le mani e scosse ripetutamente la testa.
«Cristo santo, questo è un incubo!».
«Andiamo, che sarà mai! Ti esibisci al Goldfinger quasi ogni sera, dovresti essere abituata a questo genere di cose, no?».
I capelli le frustavano il viso, mentre continuava imperterrita a scuotere la testa.
«Non è la stessa cosa. Al Goldfinger gioco in casa, e ci sono i miei amici».
«Ho capito, te la stai facendo sotto dalla paura. Comprensibile. Lo stile di vita del biker non è per tutti».
Le mani di Honey ricaddero sul tavolo, serrandosi automaticamente. Nei suoi occhi qualcosa guizzò, come lo champagne che viene agitato prima di venire stappato. La furia le trasformò i capelli in una nuvola di elettricità statica che crepitava intorno al suo viso. A JD venne in mente un gattino che arruffa il pelo e soffia.
«Giuro che questa me la paghi, stronzo!».
Mentre lei marciava come un soldato verso il palco, JD non poté fare a meno di sorridere.
«Eccoti, finalmente!», esultò Shiriki. «Sei una di quelle che si fanno desiderare, non è vero? Com’è che ti chiami?».
Lei diede un’occhiata all’oceano tempestoso di braccia tatuate, corpi massicci, barbe scure e boccali di birra che si abbatteva contro il limitare del palco, e sbiancò ancora di più.
«Honey», farfugliò nel microfono.
«Bene, fate un bell’applauso di incoraggiamento a Honey!».
Shiriki le cedette il microfono, rivolgendole il migliore dei suoi sorrisi a mezzaluna, e il viso di Honey prese subito colore. Nel vederla in piedi sul palco, stringere spasmodicamente il microfono con una mano e massaggiarsi il polso destro con l’altra, mentre con occhi spiritati fissava il pubblico, JD provò un moto di sconfinata tenerezza nei suoi confronti. Per essere un gattino dal pelo arruffato aveva fegato da vendere, doveva dargliene atto. Si sentì leggermente in colpa per averla data in pasto ai Coyote senza pietà. Ma durò poco. Perché Shiriki le palpò il culo e i sensi di colpa evaporarono in una sonora risata. La faccia di Honey, invece, era quella di qualcuno che avrebbe voluto sprofondare al centro della terra.
«Complimenti, JD!», urlò il vecchio dal palco, scatenando un’ondata di risate sguaiate e fischi di apprezzamento da parte del pubblico.
Poi, però, la base della canzone partì. Honey chiuse gli occhi e cominciò a cantare.
Improvvisamente fu come guardare un film muto. JD vedeva la gente intorno a lui e al palco che parlava, rideva, si spintonava, bisticciava, applaudiva, sbatteva i boccali vuoti sui tavoli, fischiava, JD vedeva tutto, ma non sentiva niente, era come se qualcuno avesse abbassato il volume dello stereo.
C’era soltanto Honey, come la prima volta.
Chiodo di pelle nera, minigonna, anfibi. E una voce che neanche un angelo.
La prima cosa che JD notava in una persona erano i tatuaggi, se una persona non era tatuata, difficilmente riusciva ad attirare la sua attenzione. Quando Honey era entrata nel negozio non aveva addosso alcun tatuaggio, eppure l’attenzione di JD era riuscita ad attirarla comunque, con quella pelle vergine e immacolata, talmente perfetta che gli veniva voglia di fare due cose, poggiarci sopra l’ago e le labbra. Non sapeva bene in quale ordine.
Adesso stava succedendo esattamente la stessa cosa.
In una donna, per JD, la voce era importante. Doveva essere calda e avvolgente come una coperta, roca come le fusa di un gatto, forte come un pugno nello stomaco. La voce di Honey non poteva essere più diversa di così. Nelle note basse era esile e misurata, procedeva in punta di piedi, quasi avesse paura di disturbare. Ma poi subentravano le note alte, e allora la voce cresceva, squillava, diventava furiosa, pestava i piedi a terra e sbatteva i pugni sul tavolo, ti fulminava con un’occhiataccia, tirava fuori tutto il suo carattere, diventava tosta e intrattabile. Quella voce sembrava una cosa, ma in realtà era tutt’altro. Esattamente come Honey.
Forse per questo era stato intrigato da entrambe.
Improvvisamente l’audio tornò a funzionare normalmente.
«Be’, che ne dite?», chiese Shiriki alla folla. «Se lo è guadagnato un posto a sedere al Club, questo pulcino che strilla come un’aquila?».
Il pubblico fischiò e applaudì.
Shiriki si rivolse a Honey, sorridendo.
«Benvenuta al Coyote Club, Voce D’Aquila!».
L’aiutò a scendere dal palco, non prima di averle assestato un’altra pacca sul sedere.
«Quel vecchio porco!», esclamò Honey, crollando stremata sulla sedia.
JD rise. «Come? Non è più un “simpatico vecchietto”?».
«Mi ha palpato il culo! Due volte!».
«È la tassa, mia cara. E va pagata. Prendilo come un complimento. Se Shiriki non ti palpa il culo, vuol dire che o sei cessa o ti disprezza talmente che non ti darebbe nemmeno una bottarella».
Honey storse la bocca. «Sono lusingata».
«Sei stata bravissima, in ogni caso».
Lei raddrizzò la schiena, rossa in faccia.
«Sul serio?».
JD annuì, senza smettere di fissarla. Intercettò la sua mano, che automaticamente era partita per la tangente del solito tick nervoso, quello di massaggiarsi il polso destro. Lo champagne negli occhi di Honey stava frizzando di nuovo, come la prima volta. Che voglia matta di baciarla.
Ma un urlo mandò a puttane l’atmosfera.
Shiriki saltò giù dal palco e si tuffò a pesce nell’oceano di corpi a ridosso del palco. Halona scavalcò il bancone come una gazzella, dimostrando ancora una volta di sbattersene altamente della sua età. Prima di sparire anche lei nella folla, si fermò al tavolo di JD e Honey.
«Sloggiate, subito. Queste sono faccende della banda».
«Sicura? Potrei dare una mano».
«Cazzo, JD, non metterti a discutere con me. La festa è finita».
Non aveva mai visto Halona ridere, ma non l’aveva nemmeno mai vista piangere. Adesso, invece, aveva gli occhi lucidi. L’eccezionalità dell’evento gli fece capire che non doveva insistere ulteriormente. JD prese Honey per mano e cercò di farsi largo a forza di spintoni.
«Che cosa sta succedendo?», chiese lei.
Honey ebbe la sua risposta, quando raggiunsero l’ingresso del locale. C’era un uomo a terra, JD lo riconobbe come Cagnaccio, con un foro di proiettile all’addome che perdeva parecchio sangue. Shiriki stava cercando di tamponare l’emorragia, mentre una Halona con le guance rigate abbaiava ordini a destra e manca. Tutt’intorno a loro era un coro di Sono stati i Polacchi, Maledetti bastardi, Lo hanno fatto cadere da un’auto in corsa proprio qua davanti, È un gesto di sfida e Non possiamo fargliela passare liscia.
Honey era di nuovo bianca come un lenzuolo.
«Cristo santo, dobbiamo chiamare un’ambulanza!».
«Non hai sentito Halona? L’unica cosa che dobbiamo fare è levare le tende».



«Dove ha detto che andava?».
«Per la centesima volta. A una festa, con i ragazzi della band».
Seduta di fronte alla specchio della toletta, Isa si stava dedicando alla pulizia del viso. Zachariasz non capiva come cazzo facesse sua moglie a starsene ferma, così calma e tranquilla, come se nulla fosse, come se la loro unica e adorata bambina non fosse chissà dove, in balia di chissà chi, a fare Dio solo sapeva cosa. A differenza di Isa, Zachariasz non riusciva a stare fermo, così prima si era attardato in palestra a smaltire l’ansia sul sacco da boxe, poi aveva fatto una corsa intorno all’isolato e adesso, lontano anni luce dall’essersi rasserenato, stava camminando avanti e indietro, misurando a grandi passi la camera da letto per tutta la sua lunghezza.
«Tesoro, credo che tu abbia bisogno di una camomilla».
«Non ne ho voglia».
«Guarda che non era un consiglio. Scendi in cucina e preparati una camomilla. Subito».
Zachariasz sbuffò e obbedì di malavoglia. Scese le scale, attraversò il soggiorno e arrivò in cucina, ignorando il telefono appeso alla parete. Aprì lo sportello dello stipetto che si trovava sopra il lavandino, prese la teiera, la riempì con dell’acqua, la mise sul fornello e accese la fiamma.
Non lo guardare, si disse. Non farti tentare.
Intanto, però, i suoi occhi andavano sempre lì, al telefono.
Che sarà mai, in fondo.
Si era fatto dare il numero di Connor per le emergenze. E un padre in pensiero per la figlia non era un’emergenza? Solo una chiamata, per essere sicuro che stesse bene.
E che non mi abbia mentito.



Approfittando dell’assenza di Honey, si erano fatti consegnare tre pizze al garage di Ben e avevano deciso di dedicare la serata all’esplorazione di youporn. Connor però non era in vena. Mentre Ben e Jonathan sbavavano e sghignazzavano su Pirates, lui se ne stava seduto in disparte, sul divano rosso e polveroso, azzannando di tanto in tanto un pezzo della sua pizza ai peperoni.
«Guarda come glielo prende tutto, che porca!».
Jonathan si voltò per l’ennesima volta verso di lui.
«Connor, non fare il guastafeste, vieni a vedere anche tu! Non ti risolleverà il morale, ma il cazzo di sicuro».
«Fatti i cazzi tuoi, Jonathan. Letteralmente».
«Tu invece va’ un po’ a fanculo».
«Lascialo perdere», intervenne Ben. «Se non è aria, non è aria».
Proprio in quel momento, il cellulare di Connor cominciò a squillare. Per un brevissimo istante pensò che si trattasse di Honey, ma si afflosciò come un palloncino sgonfio, quando si rese conto che era solo Zachariasz.
«Il padre di Honey mi sta chiamando, abbassate il volume».
Nessuno dei due gli diede retta. Ovvio.
Uscì dal garage e prima di rispondere ripassò mentalmente quello che doveva dire.
Sì, Honey è qui con noi. No, non può rispondere adesso, ma le assicuro che è tutto a posto, si sta solo facendo trombare da un tizio che è dieci anni più grande di lei.
Il display continuava a lampeggiare.
No, non era questa la storia sulla quale si erano accordati con Honey, non poteva dire quelle cose… Oppure sì?
A te quel tizio non piace. E Honey non ti dà retta perché è troppo presa.
Ma se faccio la spia, si incazzerà come un puma e non mi rivolgerà più la parola.
Meglio incazzata, che con quel pervertito del cazzo.

Il cellulare smise di squillare, ma solo per pochi secondi, ricominciò quasi subito.
Finirà in grossi guai col padre.
Devi solo dirgli che è uscita con un ragazzo. Non è mica necessario specificare l’età.

Facendosi cullare dalla stronzata del gesto altruistico e disinteressato, Connor prese un respiro profondo e premette il tasto rispondi.
«Pronto?».



L’appartamento di JD distava più o meno cento metri dal vicolo in cui si trovava il suo negozio. Dalla finestra della cucina, Honey riusciva a vedere la sua moto, che aveva posteggiato in prossimità dell’imboccatura del suddetto vicolo. Abbandonò la postazione davanti alla finestra per dare un’occhiata in giro. Non c’era molto da vedere, in realtà: un tavolo con due sedie, un piccolo piano cottura e due stipetti appesi alla parete; sul frigo era stato raccolto uno sparuto gruppo di fotografie incorniciate. Era evidente, JD passava più tempo al negozio che nel suo appartamento, nel quale probabilmente tornava a mala pena per dormire. E a proposito di dormire, che cazzo ci faceva un materasso sul pavimento della cucina?
Sussultò, quando qualcosa di caldo e morbido le venne posato sulle spalle. Nel voltarsi si ritrovò con un giacchetto di lana e l’espressione corrucciata di JD addosso.
«Non c’è il riscaldamento qui e il chiodo di pelle nera non riscalda a sufficienza».
«Grazie».
«Stai bene?».
«Starò bene quando mi spiegherai cosa cazzo è successo».
JD sospirò e prese posto su una delle due sedie.
«È in corso una guerra per il dominio su Williamsburg Nord. La banda dei Polacchi è sempre rimasta entro i confini di Greenpoint, non per niente la chiamano Little Poland. Adesso però vorrebbe espandersi nel territorio dei Coyote».
«Cioè Williamsburg Nord».
«Esatto. Quella di stasera è solo una delle tante puntate della miniserie “Ammazziamoci a vicenda appassionatamente”. Le cose peggiorano di giorno in giorno. Ho dovuto perfino trasferirmi, un mese fa. Prima abitavo a Greenpoint». JD si passò una mano tra i capelli, portandoseli indietro. «Mi spiace che tu abbia dovuto assistere a una scena del genere. Portarti a quella festa non è stata una grande idea».
«Non è colpa tua, non potevi sapere che sarebbe finita a quel modo. Ti assicuro che mi sono divertita tantissimo finché è durata».
L’angolo della bocca di JD si arricciò all’insù.
«Anche sul palco?».
Lei roteò gli occhi, ma sorrise. «Sì, anche sul palco». Poi gli occhi tornarono al pavimento, come attratti da una calamita. Curiosità il tuo nome è donna, si dice. «JD, scusa se mi faccio i cazzi tuoi, ma mi spieghi perché c’è un materasso nella tua cucina?».
«Ho sfondato il letto, l’ultima volta che ho scopato».
Honey sgranò gli occhi e lui scoppiò a ridere.
«Dovresti vedere la tua faccia!». Lei fece per massaggiarsi il polso, ma JD intercettò la mano, stringendola nella sua. «Stavo scherzando. Mi sono trasferito da poco, sto ritinteggiando la camera da letto».
«Tanto l’avevo capito», disse lei deglutendo a vuoto.
Lo sguardo di JD era diventato troppo pesante da sostenere, così Honey si vide costretta a guardarsi nuovamente intorno per mascherare l’imbarazzo. In mancanza di meglio tornò alle fotografie incorniciate poste sul frigo. La prima ritraeva Wile Coyote e Gina (non la mazza, la nonna di JD) sulla Harley Davidson: si trattava della stessa istantanea appesa sopra al bancone del negozio. Nella seconda fotografia JD teneva in braccio una Patti vestita di rosa di qualche anno più piccola; alla sua sinistra c’era un omone gigantesco, che lei riconobbe come Big D; alla sua destra una donna bionda e procace, che supponeva essere Tiffany. Nella terza e ultima fotografia, invece, JD abbracciava da dietro una ragazza bellissima, dai lunghi capelli neri e un sorriso abbacinante, che le ricordava qualcuno.
«Come si chiama?».
«Juno».
No, il nome non le diceva niente. Dove l’aveva già vista?
«E che tatuaggio ha?». Quando la risposta non arrivò, Honey si voltò verso JD, che la guardava con aria stupefatta. «Che ho detto di male?».
Lui impiegò mezzo minuto ad articolare la frase, come se trovare le parole giuste gli stesse costando parecchio sforzo.
«Primo, come fai a essere sicura che ha un tatuaggio? Secondo, con tutte le domande che potevi farmi… tipo, non so… “Stavate insieme?”, “L’amavi molto?” o “Perché vi siete lasciati?”, tu hai chiesto “Che tatuaggio ha?”. Non ha molto senso».
«Che stavate insieme e che l’amavi molto è lampante, si capisce subito da come la tieni stretta nella foto. Perché vi siete lasciati non sono cazzi miei. E deve avere almeno un tatuaggio, era la tua ragazza!». Honey si strinse nella spalle. «Visto? L’unica domanda possibile, che non mi faccia fare la figura dell’idiota tra l’altro, è “Che tatuaggio ha?”».
Lo sguardo di JD era ancora più sconvolto di prima.
«Aveva un pavone che partiva dalla schiena e arrivava al ginocchio».
Honey fischiò, ammirata. «Che figata! Siete ancora in buoni rapporti? Mi piacerebbe vederlo». Aspetta… aveva? Un campanello fece din din din nella sua testa. Con mezzo secondo di ritardo, purtroppo. E all’improvviso capì cosa Juno le ricordava. Gli occhi che fissavano l’obbiettivo nella foto erano uguali a quelli della… «Oh, cazzo».
«È morta in un incidente d’auto».
Honey si coprì la bocca con una mano, per nascondere lo sgomento.
«Merda, mi dispiace. Sono proprio una cretina. Non volevo riaprire vecchie ferite».
JD scosse la testa, si alzò dalla sedia e le accarezzò una guancia.
«Non ti preoccupare, è successo tanti anni fa. Le ferite si sono rimarginate da un pezzo».
Titubante, Honey poggiò la mano sul suo braccio, all’altezza del bicipite. Anche se era coperta dalla manica della felpa, sapeva che lì c’era il tatuaggio della sagoma incappucciata. Quello che lui le aveva mostrato al bar, settimane prima. Quello che gli aveva garantito un soprannome a vita.
«Perché l’hai fatto modificare?», gli chiese.
«Come…».
«…l’ho capito? Dagli occhi».
Lui continuava a fissarla.
«Perché non smetteva di parlarmi di lei, non riuscivo a sopportarlo».
Honey annuì, sospirando.
«I tatuaggi sono dei gran chiacchieroni».
JD aprì la bocca, come per dire qualcosa, ma poi ci ripensò. La baciò di slancio, invece, spingendola contro il frigo. Il giacchetto di lana cadde per terra. Colta alla sprovvista, troppo sorpresa per reagire, Honey si lasciò baciare. Fin quando una nuovissima consapevolezza non la travolse all’improvviso come uno tsunami.
Quello era l’appartamento di JD.
Lei si trovava nell’appartamento di JD.
Con JD.
Da sola.
Da sola, con JD.
Che le stava accarezzando la coscia in un modo troppo… troppo.
Lo so io dove vuole portati quello là!
O meglio, cosa vuole farti.
Il pompino è la prestazione base, praticamente.

Si separò da lui per riprendere fiato.
«Aspetta un attimo».
«Cosa?».
E poi lo guardò.
E capì dai suoi occhi che erano arrivati al punto di non ritorno.
E si ricordò del materasso sul pavimento.
E le venne in mente che non aveva mai fatto un pompino.
Gli diede un spintone e corse via dall’appartamento a gambe levate.







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Note autore:
Il ritardo nella pubblicazione non è dipeso da me. Stamattina, proprio mentre stavo rispondendo alle recensioni, la connessione ha deciso di prendersi una giornata di ferie e ha smesso di funzionare. Risponderò alle ultime recensioni tra pochissimo.
Per quanto riguarda il capitolo, nulla da aggiungere, se non le dotte citazioni: alcuni scambi di battute nella scena in cui il Detective Martìnez parla con Benedetta provengono dal libro Lover Avenged di J. R. Ward, della saga La Confraternita del Pugnale Nero; il passaggio “[…] che gli veniva voglia di fare due cose, poggiarci sopra l’ago e le labbra. Non sapeva bene in quale ordine.” me l’ha suggerito jakefan in un momento di crisi scrittoria.
Come sempre ringrazio le mie beta e tutte le persone che leggono, seguono, ricordano, preferiscono e recensiscono questa storia. Grazie, grazie, grazie!
A lunedì (connessione permettendo).
   
 
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