Fanfic su artisti musicali > One Direction
Ricorda la storia  |      
Autore: malpensandoti    17/02/2014    25 recensioni
Lei inclina la testa, tentennando un po’, ma poi annuisce e sorride ancora: “Possiamo provarci. Sai, le cose stanno andando bene per entrambi e in più sarebbe…figo?
E la amo così tanto che quasi mi scoppia il cuore. Mi alzo velocemente e la bacio, la bacio forte in cucina, poi tra le pareti del corridoio e infine sul nostro letto.
Chi mai definirebbe figa l’idea di avere un figlio?
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
io non lo so perché sto pubblicando tutto in una volta. il fatto è che questa cosa mi sembra talmente tanta che se la dividessi a metà sono convinta che non la seguirebbe nessuno.
perciò vi beccate 9.880 parole tutte in una volta!
non mi piace in generale lasciare delle note, né prima né dopo il testo, però volevo avvisarvi di un paio di cose:
· il titolo della storia si rifà - ovviamente - alla canzone di Alicia Keys ft Jay Z, ma la trama non ha niente a che vedere con ciò
· i New York Knicks sono una squadra di basket dell’NBA
· la one shot è suddivisa in sette parti, praticamente è una mini long di sette capitoli ahahahah
Per quanto riguarda il perché, sinceramente non lo so neanche io, ho voluto mettere per iscritto quest'idea che mi incasinava la testa e boh, è venuta fuori così.
Sarà sicuramente pesante e a tratti troppo veloce, ma il tutto - o quasi - è stato fatto apposta; ho voluto rispecchiare completamente il ribaltamento di vita che avviene ma vi sto dicendo troppo ahahahah
perciò spero davvero ma davvero che questo malloppo di one-shot vi possa piacere!
mi trovate anche su
ask! fatemi sapere e grazie a chiunque si prenderà la briga di leggere :)


 








buon compleanno Anna



empire state of mind

 

 

Ottobre è il mese che preferisco. 

New York, in autunno, si riempie di foglie gialle e rosse che tappezzano Central Park, ci sono molti più turisti francesi e spagnoli e qualche negoziante già si prepara per le svendite natalizie.

A ottobre evito i taxi, allungo il tragitto per l’ufficio, qualche volta riesco perfino a non imprecare contro i ciclisti. Vivo a New York da più di sette anni e, nonostante l’Inghilterra sia tutta un’altra storia, l’autunno americano mi ricorda un po’ di quando io e mia sorella tornavamo da casa dei nostri nonni con i cappotti pesanti e i viali zuppi di fogliame scolorito.

Non che sia un nostalgico o cose del genere, più che altro un po’ malinconico in certe giornate. Quelle certe giornate in cui non succede assolutamente niente, in cui c’è una routine che si ripete senza sosta, quelle che passerei davanti ad una partita di football con una birra in mano ma in cui, puntualmente, trovo il frigo vuoto e solo le repliche di una stupida gara di golf.

Giornate, quelle giornate, in cui magari Naya si ferma a dormire da sua sorella perché suo marito ha di nuovo chiesto il divorzio e in cui io quindi mi ritrovo con l’appartamento vuoto e una pizza da ordinare e poi scaldare.

Giornate, quelle giornate, che sono esattamente come questa, ma grazie al cielo oggi è giovedì.

 

 

 

Il bar l’ha trovato Zayn almeno cinque anni fa, quando ancora studiavo all’università e non dovevo abbottonare le camicie fino all’ultima asola per coprire i tatuaggi.

È a soli due isolati da casa, ha la scritta Revolution appesa sopra all’entrata, una vetrata che s’affaccia sul marciapiede e i tavoli rotondi e un po’ scheggiati, ma Niall dice che offrono una delle migliori birre della città - Amico, questa è vera Guinness irlandese, non quello schifo che compri da Wal-Mart che costa un occhio della testa! - e in più, Isaac, il proprietario, ci offre sempre il terzo giro.

Deglutisco nervosamente nel momento esatto in cui l’orologio sopra al bancone segna le nove spaccate. Mi sciolgo la cravatta che ho scordato di togliere a casa, sbottono i polsi della camicia bianca che non mi sono cambiato e mi massaggio le tempie.

Naya non ha risposto alle mie chiamate ma mi ha scritto che resterà da sua sorella per la notte, che questa è ancora sconvolta da quando suo marito ha sbattuto la porta di casa e che lei proprio non se la sentiva di lasciarla da sola.

Io ho lasciato il telefono tra i cuscini del divano per evitare di tirarlo fuori e scriverle ancora, e adesso un po’ me ne pento.

Il nostro appartamento è privo di qualsiasi cosa senza Naya. Posso alzare il volume della televisione o quello dello stereo, posso fumare tutto il pacchetto di sigarette che compro solo nel weekend e posso anche rimpinzarmi di cinese d’asporto, ma niente compensa la sua assenza. E questo un po’ mi spaventa, anche se faccio finta di niente la maggior parte delle volte in cui ci penso.

Passano almeno cinque minuti abbondanti, prima che Louis varchi la soglia del locale. Ha addosso un orribile impermeabile giallo che mi fa sorridere, un paio di jeans chiari e delle scarpe da ginnastica. Lancia un sorriso di saluto a Isaac dietro al bancone, poi guarda verso la mia direzione e mi raggiunge.

Credevo che questa giornata non finisse più - rimane con un maglione blu scuro mente si toglie l’impermeabile e scivola sul divanetto del tavolo, con un sospiro - Sai? Dovresti ritenerti fortunato a vedermi ancora vivo”

Ridacchio divertito per la sua esuberanza, Louis ha ventinove anni ed è comunque un ragazzino. Ha già qualche rughetta intorno agli occhi chiari ma i capelli ancora folti, di un castano noce. Non si è fatto la barba ma dimostra comunque meno anni di quanti ne abbia effettivamente, ha il volto stanco ma allo stesso tempo sereno.

Allargo i gomiti sulla tavola e “Non ti preoccupare, Lou – dico – ringrazio Iddio ogni giorno per questo”

Lui non risponde ma punta il suo sguardo divertito al mio fianco mentre io con la coda dell’occhio individuo i capelli biondi di Niall mentre si siede accanto a me goffamente, puntando i palmi delle proprie mani screpolate sulla superficie del tavolo.

“Ringraziare per cosa?” domanda con un sorriso, osservandoci entrambi.

Niall di anni adesso ne ha ventotto e davvero, se solo mi facessi crescere la barba probabilmente potrebbe risultare benissimo mio figlio. I suoi lineamenti sono più marcati rispetto a quando entrambi seguivamo il corso di letteratura francese insieme, ma ha comunque ancora i capelli biondi e gli occhi vispi e blu, il sorriso bianco e dritto e i modi di fare sempre un po’ impacciati nonostante la laura in infermieristica e una figlia in giro per l’appartamento.

“Per avere Louis Tomlinson con noi anche questo giovedì” gli spiego, riprendendo l’argomento iniziale. Scivolo a capotavola per avere una visione più completa del locale e Niall ride a bocca aperta, mostrando la dentatura perfetta che dieci anni abbondanti di apparecchio gli hanno regalato.

Louis invece alza gli occhi al cielo e trattiene un sorriso, “Come va?” domanda poi, cambiando argomento.

Io alzo le spalle con fare indifferente e penso che se non avessi lasciato le sigarette a casa probabilmente chiederei ad Isaac di lasciarmi fumare qui dentro. Invece giocherello distrattamente con le mie dita lunghe e lascio che Niall inizi a raccontare la sua giornata sicuramente più interessante della mia.

“Tutto bene - risponde, leccandosi le labbra - sono solo molto stanco. C’è stato un incidente sulla Fifth Avenue e il pronto soccorso era un casino allucinante, ho finito neanche un’ora fa. Tu come stai?”

Louis annuisce brevemente e stringe le labbra in una linea dura: “Stanco anch’io - mormora con un sospiro - Questa settimana ho passato praticamente tutte le notti in bianco, Grace ha avuto la febbre alta fino a stamattina e beh, lo sapete come sono i bambini con l’influenza”

Le mani iniziano a prudermi fastidiosamente mentre osservo Zayn e Liam prendere posto tranquillamente uno vicino a Niall e l’altro accanto a Louis.

Stanno già sorridendo, Liam ha tagliato di nuovo i capelli e sembra ancora più elegante del solito mentre Zayn indossa uno snapback dei Lackers con la visiera al contrario e una felpa con la scritta New York University, probabilmente risalente al primo anno.

Di Zayn Malik, se non lo conoscessi come le mie tasche, direi che sia un bambinone, uno di quelli che non c’hanno proprio voglia di crescere. E siccome lo conosco e lo conosco bene, penso solo che certe volte le apparenze c’azzeccano fin troppo.

“Veramente, Niall - s’inserisce nella conversazione tranquillamente, con le sue vocali dell’Ohio e lo sguardo divertito - Harry non lo sa come sono i bambini con l’influenza”

A questo punto rimpiango di aver lasciato davvero il pacchetto di sigarette a casa e forse di non esserci restato io stesso. Mi sento rigido, una vampata di calore fastidioso mi fa vibrare un attimo e mentre quelli che dovrebbero essere i miei migliori amici ridono, io combatto con l’istinto di passarmi una mano tra i capelli per la frustrazione.

“Molto divertenti” sibilo però, deglutendo.

“Scusaci, amico - Liam maschera la sua ilarità con un colpo di tosse, mentre mi guarda - ma Zayn ha ragione. Tu e Naya siete gli unici a non aver ancora avuto figli - poi alza le sopracciglia folte e aggiunge subito - Non che questo sia un male!”

Nascondo le mie mani sotto al tavolo e stringo forte i pugni, chiudendo un attimo gli occhi perché questa è una conversazione che affronto almeno quattro volte al giorno con la sorella di Naya, con la mia, con mia madre per telefono, con i miei colleghi, la mia segretaria, l’anziana dell’interno 24 e perfino in quelle rare telefonate con mio padre e non c’è davvero bisogno di parlarne anche adesso.

“Mah sì, pal! - esclama Niall, stringendomi forte una palla - Tu e Naya avete tutto il tempo del mondo per sfornare pargoli e rimpiangere i giorni senza pannolini e coliche come facciamo noi”

Poi fa un cenno esperto verso Isaac, che annuisce soltanto, facendo troncare la conversazione.

Faccio finta di non sentire il nodo all’altezza dello stomaco e bevo quasi mezzo boccale di birra con appena me lo piazzano davanti al volto.

Ed è vero che io e Naya non abbiamo ancora avuto figli, che la compagna di Liam, Hannah, aspetta una bambina dopo aver avuto Michael, che Grace ed Edward, i gemelli di Louis e Dana, tra un paio di mesi compiono tre anni e che in fin dei conti sono tutti dei padri di famiglia belli e buoni, ma siamo ancora giovani, giusto?

Naya ha solo venticinque anni e io ventisette, siamo reduci da un imbarazzante matrimonio in municipio nel quale lei ha riso per la maggior parte della cerimonia solo perché sua madre non accetta la convivenza senza fedi e io ho appena ottenuto una promozione in ufficio, dove lo mettiamo un bambino?

Non ne abbiamo mai parlato, comunque. Ne parlano tutti, non c’è persona che non ce lo ricordi almeno una volta al giorno, ma poi quando ci mettiamo a tavola alla sera o sul divano, stretti e vicini, nessuno dei due accenna all’argomento.

Ma io ci provo, ci provo davvero a fare finta di niente, a non sentire le voci fastidiose che mi ronzano in testa quando non riesco a dormire. Ci metto d’impegno a non guardare gli occhi fieri di Louis quando a Central Park osserva Edward provare a colpire la palla con la mazza da baseball mentre Grace m’infila le margherite tra i capelli, però non ci riesco.

Cerco di non pensarci, e va tutto bene finché Naya non c’è e ritornano quelle giornate.

Non credo che lei voglia un figlio, ad ogni modo, il lavoro la sta prendendo tanto, è coinvolta e sempre attiva, probabilmente neanche ci pensa, ad un figlio.

Il pensiero di Naya con un bambino mi fa sorridere perché, nonostante tutto, credo che sarebbe una madre fantastica. Apprensiva, forse un po’ troppo protettiva, con la sua voce che s’inclina quando cerca di non ridere e con lo smalto tutte le settimane diverso.

Emetto un gemito di frustrazione e mi appoggio stancamente allo schienale del divanetto, cercando di cogliere i tratti della conversazione che si sta avendo al tavolo.

“Sasha ieri è tornata dall’asilo in lacrime - sta dicendo Zayn, le dita a intrappolare il boccale di birra freddo  - Un suo compagno di classe le ha tirato le trecce per tutto il giorno”

Liam corruga le sopracciglia in un’espressione apprensiva e io sorrido appena mentre lui “Spero che tu abbia fatto qualcosa” dice, risoluto.

“Oh, andiamo Liam! - esclama subito l’altro, appoggiandosi allo schienale del divanetto - Hanno tre anni! Non potevo di certo presentarmi a casa del marmocchio e minacciarlo - poi alza un angolo della bocca e ghigna - ma ho detto a Sasha dove colpirlo, sapete, per precauzione”

A quel punto rido davvero, leggermente più rilassato di prima. Niall mi segue a ruota con la sua risata aperta, mentre Louis ghigna quasi compiaciuto e Liam scuote la testa, contrariato.

 “Sono bambini, Zayn - gli ricorda, saccente - Avresti dovuto chiamare i genitori e risolvere la questione, non insegnare a tua figlia come castrare i propri compagni”

“Chissenefrega dei genitori, Liam” borbotta Zayn, allargando le braccia in un gesto puramente infantile. Non credo che riuscirà mai a cambiare.

A quel punto, vedo Louis stringere le spalle di Liam con un braccio magro, passandogli una mano tra la nuca rasata e sorridendo sghembo: “Non te la prendere, Zayn - dice all’uomo davanti a lui - Liam non ha idea di cosa vuol dire avere una figlia femmina. I discorsi educativi con loro non funzionano”

Niall sospira teatralmente un “Concordo”, prima di alzare il proprio boccale di birra ormai mezzo vuoto e bere.

E quando tutti e quattro intavolano la conversazione “sindrome post-parto” non è che mi senta un pesce fuor d’acqua.

Più che altro un gatto in mezzo all’oceano, un elefante tra delle zebre, un coniglio tra i lupi o, più semplicemente, senza Naya.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ci siamo conosciuti a una di quelle feste che gli universitari americani fanno all’inizio e alla fine dell’estate, nella sede della confraternita di Niall.

Ci ha presentati l’allora fidanzata di Louis, Keith, quella col piercing in mezzo alle sopracciglia e l’accento del Texas. Anche se, ufficialmente, io e Naya abbiamo avuto la nostra prima vera conversazione solo la settimana successiva, al caffè del college.

La prima cosa che mi è piaciuta di lei è stata la sua salopette in jeans arrotolata alle caviglie, poi le sue gambe lunghe e infine la sua risata rumorosa e a tratti imbarazzante, coi denti in bella vista e le vocali nasali tipiche di chi è di New York.

A quell’epoca non aveva neanche diciannove anni e portava i capelli biondo cenere sempre stretti in delle trecce lunghissime. Aveva due orecchini pendenti di un verde fosforescente e i polsi stretti e spigolosi.

Ha messo da parte parecchi vestiti pacchiani adesso, ma i polsi, beh, quelli fortunatamente sono intatti.

Quando parliamo del nostro primo incontro con altra gente, lei si appoggia sempre alla mia spalla, ridacchiando, mentre io la stringo e dico: “Era la ragazza più stravagante che avessi mai visto” e aggiungo: “I tuoi orecchini facevano schifo”.

Lei poi accenna ai miei capelli ricci, al graffio sulla guancia che mi ero fatto sbattendo contro l’armadio e al mio accento inglese che “Nonostante ti ami da sette anni, è sempre più brutto”.

Ci siamo conosciuti come il 75% delle coppie americane, tra le cattedre dell’università e i bicchieroni di caffè acquoso, la nostra prima fotografia ce l’ha scattata una sua amica a tradimento e il primo bacio me l’ha dato lei davanti alla mia stanza del college, qualche settimana più tardi.

Le ho visto cambiare così tante pettinature da far girare la testa, i suoi capelli sono diventati neri nel pieno di agosto, poi c’è stata la frangia coi riflessi rossi in un ottobre un po’ troppo afoso e anche il caschetto platino quando si è laureata in giornalismo. E poi ci sono stati gli anfibi bassi e quelli alti, le scarpe con le zeppe di un bianco quasi volgare e i vestiti che ordinava su internet direttamente dall’India, le gonne lunghe fino alle caviglie e le giacche di pelle sintetica comprate fa Forever21.

Non so chi di noi abbia detto Io ti amo per primo, probabilmente è successo in uno di quei giovedì sera nella sua stanza, tra uno streaming al computer e l’altro. L’avrà mormorato qualcuno di noi, sovrappensiero perché sono solo tre parole un po’ commerciali come le canzoni su MTV, banalizzate da tutti e usate come difesa e soprattutto come attacco.

A queste cose, Naya non ci ha mai pensato, non è una ragazza che si commuove facilmente, il “ti amo”, noi, lo abbiamo inserito nei nostri messaggi del buongiorno e tra i baci della buonanotte, piano piano, senza spaventare nessuno.

Non siamo stati prevedibili, una di quelle coppie decise a tavolino, siamo più che altro dei sopravvissuti, quelli che non hanno mollato, quelli che sono restati un po’ dappertutto e quelli che, se li vedi, dici “ma dai? Ancora insieme?”

Siamo stati sempre qui, anche con il matrimonio più imbarazzante della storia, le puntate di CSI Miami registrate e mai viste e la lavastoviglie che si rompe ogni mercoledì.

Siamo questi qui, alla faccia di chi non ci credeva.

 

 

 

 

 

 

Naya è seduta sul tappeto del salotto, qualche giorno più tardi. Ha in una mano il pennellino dello smalto bordeaux e l’altra aperta sulla superficie del tavolo. Sul via cavo, Oprah sta intervistando l’ultimo attore uscito dall’ultimo film per adolescenti di cui mi sfugge il nome. Ero rimasto a Twilight, sono davvero così vecchio?

Abbiamo cenato presto, ordinando due margherite in quella pizzeria in fondo alla strada, quella in cui si spacciano tutti per italiani e dove il cameriere ci prova sempre un po’ troppo con Naya.

“Ti piace questo colore?” mi dice improvvisamente, senza voltarsi nella mia direzione. È di spalle rispetto a me, che sono seduto stancamente sul divano, e indossa un paio di pantaloni della tuta e un vecchio maglione di cotone.

“Mhmh – borbotto a labbra serrate – è come l’altro, no?”

La sento rimettere a posto il pennellino e subito dopo è girata verso di me, coi suoi occhi azzurri che mi guardano con scetticismo.

Sorrido.

“L’altro quale?” indaga.

“Quello che ti ha regalato Claire per Natale…”

“Cosa?! - esclama, fingendosi scandalizzata - Stai scherzando, spero. Quello è uno Chanel e non puoi proprio paragonare Chanel ai saldi di H&M. Il tuo periodo da barbone è finito ai ventidue. Torna tra noi, hipster”

Scoppio a ridere così forte che sento le costole tirare. Lei sbuffa una risatina compiaciuta e con una mano si sistema le ciocche biondo platino dietro le orecchie, per poi voltarsi e darmi le  spalle di nuovo.

Batto un palmo sulla superficie del divano: “Vieni qui”

“Ho lo smalto fresco”

E non è un no.

“E chissenefrega. Vieni qui”

Qualche ora più tardi, in bagno, osservo le tracce bordeaux sul mio collo. Le tocco più e più volte, strofinando con le dita bagnate affinché vadano via.

Sorridendo.

 

 

 

 

 

 

Wilma è la mia segretaria personale, ha ventun anni e studia lingue alla Columbia. Il lavoro gliel’ha procurato il suo patrigno, che da quanto ho capito è un pezzo grosso dei piani alti e con il quale non va propriamente d’accordo. Ha i capelli scuri e il volto ancora da bambina, mi porta sempre il caffè più decente possibile e ogni tanto mi dà ancora del lei nonostante la mia esplicita richiesta durante le prime settimane.

Non è invadente, forse un po’ troppo intimorita quando è una mia giornata no, però è intelligente e affidabile, la prima a entrare a lavoro e una delle ultime ad andare via.

È lunedì mattina e sono pieno di pratiche da sbrigare e appuntamenti nella sala riunioni, ho già risposto a sei mail e non sono neanche le dieci.

La vetrata del mio ufficio, come ogni cliché newyorkese che si rispetti, si affaccia sulla città, tra Central Park, la Statue of Liberty coperta dai grattacieli e i taxi in strada che dal ventisettesimo piano sembrano tanti piccoli puntini gialli.

Wilma entra dalla porta socchiusa quasi in punta di piedi, formale ed elegante come sempre: “Signor Sty- ehm, Harry - mi chiama, abbozzando un sorriso - C’è qui il signor Peters”

“Fallo entrare Wilma, grazie” le sorrido appena, poi firmo l’ultimo foglio che mi capita a tiro e cerco di sistemare il disordine sulla mia scrivania.

George Peters è uno dei nostri più grandi finanzieri. Quando entra nell’ufficio, con i suoi pantaloni sportivi e la camicia bianca coi primi bottoni slacciati, la sua aura da miliardario fa quasi vibrare le pareti. È senza dubbio un bell’uomo, sulla cinquantina, coi capelli di un biondo spento e la pelle quasi arancione per tutte le lampade che si deve essere fatto nell’ultimo mese.

Mi alzo in piedi, sorridendo, mentre lui si avvicina velocemente alla scrivania e mi afferra la mano con veemenza: “Harry! - mi saluta come un vecchio amico e non come chi, praticamente, mi paga lo stipendio - Come te la passi?”

Ci sediamo entrambi, “Non c’è male, grazie - gli sorrido, mettendomi a mio agio - E lei?”

Fa un gesto incurante con la mano, allargando le gambe sulla sedia, “Un affare lì, un affare là…le solite cose, insomma”

Passiamo la maggior parte del tempo a parlare delle sue vincite in banca e quelle sul campo da golf, del suo ultimo acquisto - Hai presente i New York Knicks? Beh, guardavo il basket con mio figlio e mi son detto “perché no?” - e del divorzio con la sua terza moglie.

Gli ultimi cinque minuti incentro la conversazione sull’affare per il grattacielo di Brooklyn, lui accetta alla seconda frase e poi guarda il suo Rolex laccato, emettendo un sospiro di rammarico.

“Devo ancora raccontarti di Dubai, Harry, ma purtroppo ho una Lamborghini che mi aspetta qui sotto” si alza in piedi e io faccio lo stesso, divertito.

“Non si preoccupi - dico, accompagnandolo alla porta - Sarà per la prossima volta”

Non credo che mi stia ascoltando, comunque. Si sta guardando intorno con una strana espressione, le sopracciglia aggrottate  e le labbra serrate.

“Vuoi sapere cosa manca qui dentro, Harry?” mi domanda poi, quando io apro la porta.

“Cosa, signore?”

“Una bella foto di un marmocchio”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il giorno dopo sono seduto sul prato di Central Park, Grace Tomlinson tra le mie gambe, e lo sguardo puntato verso Louis ed Edward che, davanti a noi, stanno giocando a calcio cercando di non colpire le altre persone.

Grace ha gli occhi di suo padre e la timidezza di Dana. Le sue mani sono sulle mie ginocchia allargate per farla stare comoda, io giocherello coi suoi capelli biondo miele mentre lei sorride spensierata osservando suo fratello gemello ridere come un matto.

Edward ha i capelli un po’ più scuri di Grace ma per il resto è la copia sputata di Louis: stesso carattere, stesso sorriso già allusivo e stesso temperamento. Si aggrappa alla gamba del padre ogni volta che questo calcia la palla, poi scoppia a ridere e inizia a correre, finendo irrimediabilmente per terra.

“Zio Harry” Grace batte una piccola manina contro la mia gamba, con le sue ‘r’ ancora non pronunciate e la voce da angelo.

M’intenerisco subito perché sono follemente innamorato di questa bambina e dei bambini in generale. Le lascio un bacio tra i capelli pizzicandole un fianco.

“Dimmi, pulce” le rispondo e lei ridacchia.

“Quand’è che tu e zia Nana fate un figlio?” mi chiede curiosa, senza guardarmi.

Mi irrigidisco, poi emetto un verso frustrato e mi passo le mani tra i capelli: “Non ne ho la più pallida idea, tesoro”

 

 

 

 

 

 

 

Naya ha il portatile sulle ginocchia incrociate e i capelli dietro le orecchie, un paio di occhiali spessi da lettura e lo sguardo corrucciato mentre fa scorrere le sue iridi sullo schermo. Il salotto è illuminato dalla lampada all’angolo, la televisione è silenziata e io sono appena uscito dalla doccia.

Mi trascino sul divano accanto a lei, voltandomi su un fianco per osservarla e studiarle il profilo serio.

È assolutamente la donna più bella del pianeta.

Accarezzo il suo collo magro scostandole dolcemente i capelli, le bacio una clavicola scoperta dalla maglietta e faccio scorrere le mie dita sulla sua coscia, senza alcun accenno allusivo.

Non si tratta di sesso, tra me e Naya non si è mai trattato solo di questo. È più un bisogno fisico, un riempirsi a vicenda, toccare i punti deboli e quelli giusti, completarsi. Il sesso con Naya è qualcosa che va oltre la semplice compattezza dei corpi, è un “guarda che non ti lascio neanche se me lo chiedi”.

Lei inclina la testa facendomi ridere, “Harry” si lamenta, e io so di averla distratta quanto basta per catturare la sua attenzione.

“Sono due ore che sei seduta qui - dico, stringendole un fianco - Cosa c’è di così importante su questo computer che ti impedisce di darmi un bacio?”

Mi guarda con un cipiglio fintamente indispettito, cercando di nascondere un sorriso: “Ci sono un sacco di cose su questo computer che m’impediscono di darti un bacio - borbotta saccente - a cominciare dal mio incredibile sfondo di Leonardo DiCaprio e da questo maledetto articolo che devo consegnare entro domani mattina”

“Mhmh - chiudo gli occhi e continuo a riempirle la pelle del collo di piccoli baci - incredibile sfondo, eh?”

“Harry! - scoppia a ridere, cercando di non far cadere il computer e nel contempo di allontanarsi da me - Mi stai facendo il solletico”

Faccio scorrere le mie labbra sulla sua guancia, poi sorrido contro la sua tempia e infine le bacio la bocca, “Sei la solita stronza guastafeste” sussurro, e lei spalanca gli occhi, colpendomi su una gamba.

Rido e mi metto in piedi con un piccolo saltello, “Preparo qualcosa - dico, sistemandomi i capelli ancora umidi - Desidera qualcosa di speciale, Miss Stronzaggine?”

Non mi guarda neanche, mentre alza il dito medio.

 

 

 

Più tardi, a tavola, con un piatto di polpettone avanzato e quintali di grissini, non riesco a fare a meno di ripensare a quello che è successo durante il pomeriggio.

Così quando Naya mi chiede come sia andata la mia giornata, esito qualche secondo, prima di rispondere.

“Grace mi ha chiesto quand’è che io e te avremo un bambino” dico poi, senza giri di parole.

Naya è sorpresa, si nota da come fa scattare di un millimetro il suo capo all’indietro, da come spalanca appena gli occhi a la bocca.

Ho giù paura della sua ipotetica risposta, perché non è un argomento di cui abbiamo  parlato e perché potrebbe fraintendere le mie parole e credere che io voglia un figlio.

E io lo voglio?

Ma poi lei mi spiazza come al solito, perché scuote la testa e sorride, “È proprio  la figlia di Louis Tomlinson” commenta, con tranquillità.

Accenno un sorriso tirato, ancora rigido: “Già” balbetto, come un quindicenne.

“E tu cosa le hai risposto?” mi chiede, tagliando l’ennesimo pezzo di carne.

“Che?”

“A Grace. Cosa le hai risposto?”

“Che non ne ho idea” ammetto con un sospiro.

Fisso il mio piatto ancora per metà pieno perché mi sento instabile, pronto a ricevere una di quelle risposte che mi hanno sempre fatto venire i brividi e gli occhi lucidi. Non lo so se voglio davvero un bambino, ma l’idea di…

Mi piace, ecco. Mi piacerebbe, mi piacerebbe avere un figlio, diventare padre, sapere di essere il centro del mondo per qualcuno, sentire di far parte di qualcos’altro, avere una famiglia tutta mia.

Naya non parla per diversi minuti e credo che forse sia meglio così, forse è meglio cambiare argomento e rimettere tutto via, rimettere in ordine le nostre giornate in cui siamo noi e basta.

“Lo vorresti?”

Alzo di scatto la testa che adesso sento girare vertiginosamente.

Naya mi sta guardando con un sorriso che non riesco a decifrare, quasi imbarazzato.

“Beh, non…non so - deglutisco e riprendo fiato, in agitazione - Non saprei…credo, credo di sì. Forse. E tu?”

Lei inclina la testa, tentennando un po’, ma poi annuisce e sorride ancora: “Possiamo provarci. Sai, le cose stanno andando bene per entrambi e in più sarebbe…figo?

E la amo così tanto che quasi mi scoppia il cuore. Mi alzo velocemente e la bacio, la bacio forte in cucina, poi tra le pareti del corridoio e infine sul nostro letto.

Chi mai definirebbe figa l’idea di avere un figlio?

 

 

 

 

 

 

 

Quel giovedì sera sono l’ultimo ad arrivare.

Saluto Isaac con un sorriso ampio, poi prendo posto alla mia solita postazione facendo alzare Louis e Liam e infine sospiro soddisfatto quando è Zayn a chiedermi: “Cosa diavolo ti sei fumato?”

“Io? - aggrotto le sopracciglia con finta ignoranza - Perché me lo chiedi?”

“Il tuo sorriso, Harry - mi fa presente Liam - è inquientante”

Scoppio a ridere, toccando con le dita la bottiglia di birra che qualcuno ha già ordinato per me: “Non sono fatto - spiego - sono felice

“Ma dai? - la voce di Louis è piena di sarcasmo, ma non m’arrabbio - E da quando tu, uomo prediletto per il broncio continuo, sei contento?”

Faccio schioccare la lingua, negando col capo: “Non contento, Lou - lo correggo - felice

“E cosa ti rende così felice, amico?” mi domanda Niall, coi denti bianchi in bella vista.

E la voce mi trema ancora un po’ quando “Io e Naya abbiamo deciso di avere un bambino” mormoro.

Sento i loro sguardi pungermi come uno spillo, mandandomi scariche elettriche di adrenalina o ansia o forse di entrambe le cose. Nessuno fiata per parecchi secondi, finché Louis non emette un verso che sembra quasi un ruggito e Liam inizia a battere le mani.

Il resto della serata passa tra consigli sui nomi, sui primi tre mesi di gravidanza che “fidati amico, sono i migliori e qui ti ho detto tutto” e su come evitare un’intossicazione da borotalco.

Che sì, sono immense stronzate se ci aggiungi quattro idioti e tre giri di birra, ma in fondo, a chi importa?

 

 

 

 

 

 



La notizia si sparge in fretta sia al lavoro che tra le nostre famiglie. Naya continua a ridere imbarazzata ogni volta che mia madre chiama e i miei colleghi mi hanno messo una bustina di preservativi bucata sulla scrivania.

L’argomento “figli” non è più un tabù, anche se i primi giorni è parecchio strano parlarne.

Non facciamo niente di eccezionale, comunque. La nostra vita procede normalmente, senza più pillole anticoncezionali e con le idee improvvise di Naya mentre guardiamo David Letterman in tv.

“Dove lo mettiamo?”

“Ci serve un appartamento più grosso”

“Aiden mi sa di psicopatico”

“Potremmo vestirlo di giallo che è un colore neutro, sai, per non confonderlo già con la propria sessualità”

Siamo sempre Harry e Naya, abbiamo solo inserito qualche conversazione in più tra un bacio e l’altro, un nome da aggiungere a una lista che ancora non abbiamo stilato e qualche sorriso che sa di qualcosa di diverso.

 

 

 

 


I problemi iniziano ad arrivare più tardi, quando poi non succede niente.

Mia madre continua a chiamare, il giovedì sera torna a essere apatico e Naya inizia a sospirare un po’ più forte.

 

 

 

 

 

“Una lineetta negativo. Due positivo”

“Sei sicura?”

“C’è scritto sulla scatola, Harry”

“Quindi…quindi, uhm, non..?”

“No. Neanche stavolta”

 

 

 

 

 

 

È un martedì quando capisco di non riuscire a chiudere occhio per più di quattro ore di seguito.

Sono sdraiato sul letto, nudo, con Naya che dorme dandomi la schiena e le luci di New York che illuminano i miei occhi ancora spalancati.

Sono passati quasi tre mesi, giorno più giorno meno, e non è ancora successo assolutamente niente.

Naya non è rimasta incinta neanche per sbaglio, nonostante abbia iniziato a prendere delle erbe benefiche che dovrebbero favorire la fecondazione e pure uno di quegli aggeggi elettronici che consigliano quali siano i giorni più fertili della settimana.

Il nostro rapporto sta diventando sempre più freddo e lei inizia a infastidirsi per qualsiasi cosa, dai piatti ancora sporchi ai miei baci sul collo mentre scrive.

Ho sempre saputo che io e Naya fossimo diversi da tutte le altre coppie. È una caratteristica la nostra e anzi, sono tanti piccoli particolari che ci rendono un po’ l’eccezione. È quello che ci siamo sempre ripetuti, noi siamo l’eccezione.

Adesso, alle quattro e mezza di un martedì o di un mercoledì, mi rendo conto che probabilmente siamo diversi anche così, anche mentre cerchiamo di avere un bambino.

Il fatto è che se avessi saputo di rischiare così tanto, un figlio non lo avrei voluto. E lo so, può sembrare parecchio egoistico da dire, ma provate voi a sentire le labbra di Naya sulle vostre e sentirle così fredde.

Lontane.

Distaccate.

Come se ci stessimo baciando per fare sesso un po’ più romanticamente e non perché respirare da più vicini è ancora meglio.

 

 

 

 

“Una lineetta”

“Okay…allora io, uhm, vado al bar. Se hai bisogno…”

“Ciao”

 

 





 

Inizio a infastidirmi anch’io, comunque.

Wilma comincia a sembrarmi sempre più invadente, i clienti sempre più pignoli, esco presto di casa e torno tardi. New York è l’incarnazione del Natale, tra le luci quasi psichedeliche appese per la città, gli addobbi sui rami spogli e le decine di Santa Claus che cercano di farti sborsare cinque dollari per una foto insieme.

È il ventitré dicembre e siamo tutti a casa Tomlinson&Kenner per festeggiare i trent’anni di Louis, il quale al momento del brindisi, coi piccoli accanto all’albero di Natale intenti a giocare tra di loro, si è alzato in piedi e ha improvvisato un discorso semiserio su quanto sia felice della sua vita e orgoglioso dei propri bambini.

Io e Naya abbiamo avuto una mezza discussione a casa, il motivo neanche lo ricordo adesso.

Sta parlando con la compagna di Niall, Tyra, entrambe sedute alla tavolata del salotto mentre quest’ultima sta cullando dolcemente Valerie, la sua bambina di otto mesi.

Le arrivo di spalle, appoggiando il mento vicino al suo collo e baciandole una guancia. Lei sorride e non si scansa, mentre Tyra, davanti a noi, inclina la testa intenerita e si alza in piedi per raggiungere Niall, seduto sul divano con Michael Payne che gli sta mostrando l’ultimo suo modellino automobilistico.

“Hey” mormoro, baciando una tempia a Naya, che intreccia le nostre mani sul suo ventre e alza il volto verso di me.

Mi siedo a mia volta sulla sedia accanto alla sua, incitandola poi ad appoggiarsi sulle mie ginocchia. Le avvolgo i fianchi mentre entrambi fissiamo il salotto pieno di bambini e risate.

Osservo i suoi occhi farsi più lucidi e più grandi mentre Niall inizia a mostrare a Valerie le foto appese alle pareti, con la voce bassa e uno di quei sorrisi che riesci a fare solo se provi sulla tua pelle determinate situazioni.

Scosto i capelli di Naya dal suo collo, le bacio l’incavo elegante e sussurro al suo orecchio perché voglio che sappia che, nonostante tutto, io da qui non mi muovo.

Festeggiamo Natale coi suoi genitori, con sua sorella e suo marito, i loro due bambini e la loro tata. Il ventinove prendiamo l’aereo per Londra, diretto. Atterriamo il pomeriggio del trenta, poi un treno per il Cheshire e infine casa.

Mia madre ha passato i cinquanta ma è sempre una donna magnifica; il mio patrigno, Robin, inizia ad aggiornarmi sul viaggio in Irlanda che hanno fatto a marzo e mia sorella Gemma mi presenta il suo nuovo compagno.

Naya è sempre sorridente, probabilmente questa pausa dallo stato mentale di New York serve più a lei che a me.

Trascorriamo in Inghilterra una settimana, i nostri baci diventano sempre più veritieri, le tengo la mano durante le passeggiate in collina e le dico ‘ti amo’ ogni volta che mi sorprende a guardarla.

Atterriamo al JFK di domenica, io con ancora le lacrime di mia madre sul colletto della giacca e Naya con un sorriso che s’incrina ogni volta che il nostro taxi si ferma ad un semaforo rosso.

Aperta la porta dell’ingresso del nostro appartamento, non sorride più.

 

 

 




La routine quotidiana riprende subito lunedì e mi sembra di aver stretto un po’ troppo la cravatta, aver allacciato le scarpe nel modo sbagliato. Allento il colletto della camicia, sciolgo i nodi dei polsini e scopro i tatuaggi da diciannovenne. Guardo New York che ha sempre lo stesso sole anche un anno dopo, la maestosità di questa metropoli. Disdico tutti gli appuntamenti del pomeriggio e me ne sto qui, seduto sulla sedia girevole del mio ufficio, a guardare il cambiamento di luce contro i grattacieli, a chiedermi quanto siamo piccoli in confronto a tutto questo. Mi domando come l’uomo riesca a costruire palazzi di vetro che non crollano mentre io ho smesso di far sorridere Naya.

Ed è ancora la donna più bella del pianeta e la amo così tanto che mi sento esplodere, ma quando torno a casa, nelle settimane successive, e la guardo senza realmente vederla, sono io, adesso, quello che si domanda “ma dai? Ancora insieme?”

Ma sì, dai, ancora insieme?

Ancora?

Insieme?

 

 

 

 

 

Zayn mi chiede di accompagnarlo a Central Park, una domenica pomeriggio.

Siamo seduti su una panchina in legno, lui con lo sguardo fisso verso Sasha che corre da una parte all’altra dello spiazzo per le giostre e io con una sigaretta in bocca perché è pur sempre il weekend.

Naya si è fermata da sua sorella durante la notte, io non ho chiuso occhio e credo siano le cinque di pomeriggio.

“Allora - Zayn appoggia una caviglia sull’altro ginocchio, si sistema lo snapback che indossa e mi guarda - come va?”

“Come al solito - di merda - e tu?”

Si stringe nelle spalle e torna con gli occhi fissi sulla figura di sua figlia appena scesa dall’altalena: “Non mi lamento” risponde, scrollando le spalle.

“Non vedo come potresti farlo” mi ritrovo a dire, senza rendermene conto.

“Cosa?” mi domanda, aggrottando le sopracciglia.

“Lamentarti - gli spiego, e so che la conversazione sta prendendo una piega sbagliata - non vedo perché dovresti lamentarti. Hai tutto quello che ti serve”

I miei occhi corrono a Sasha per un attimo, ma Zayn capisce subito e stiracchia le labbra in un sorriso di circostanza: “Non è così facile come sembra, Harry” cerca di dirmi, e le sue parole mi fanno scoppiare in una risata di pancia, per nulla divertente.

“Mai dai? - mi fingo accigliato, spalancando gli occhi - E lo dici a me?”

Non so cosa mi stia succedendo, non sono il tipo da giochetti per ragazzini infantili e viziati. Mi dispiace trattarlo così perché so che Zayn non c’entra niente, ma sono stanco. E anche tremendamente incazzato con tutti.

E in più lui mi viene da dire che non è tutto così facile?

“Sei stressato amico, - mi guarda un po’, prima di parlare - stai passando un brutto momento e ti posso capire...”

“Ah sì? - stringo i pugni e scoppio, allargando le gambe sulla panchina come un’onda che si ritira prima di diventare uno tsunami - E sentiamo, come faresti a capirmi, Zayn? Anche Kara non riesce a rimanere incinta? Anche lei non riesce più a guardarti in faccia? Mangiate ancora insieme? Nella stessa stanza? Fate sesso? Dimmi, amico, come ci si sente ad avere una figlia e andare in giro vestito come un diciassettenne? Deve essere molto gratificante, crescere con la propria bambina, non è vero?”

Lo ferisco, lo vedo. Il suo sguardo inizia a vacillare, a perdere quella patina di menefreghismo adolescenziale che non lo ha mai abbandonato. Non mi risponde, mi fissa e basta, deluso.

Sono uno stronzo, un enorme bastardo, ma il suo dolore è come se mi calmasse, mi facesse stare, in qualche modo, meglio. Non sono l’unico che sta male, adesso c’è anche lui.

E vorrei dirgli che mi dispiace, perché Zayn è un ottimo padre, maturo a modo suo e con la sua passione per i fumetti della Marvel e il poster di Kobe Bryant in salotto. Non lo dico, non aggiungo nient’altro.

Getto il mozzicone sulla ghiaia e mi alzo in piedi, lasciandolo lì.

 

 

 

 


 

 

 

Alzo gli occhi dal fascicolo che ho tra le mani e sbatto velocemente gli occhi. Ci metto qualche secondo a comprendere che ciò che mi ha distratto è il suono del telefono sulla scrivania, che s’illumina di una piccola lucina rossa.

Sospiro, mi sistemo i capelli con un gesto nervoso e lascio cadere la schiena contro lo schienale della sedia, alzando la cornetta.

“Harry”

È Wilma.

“Dimmi pure” la incito, passandomi le dita sulle labbra.

È lunedì pomeriggio e stanotte non ho dormito molto, ma il lavoro mi tiene lontano dai pensieri e i miei pensieri, oggi, sono tutti concentrati su Zayn.

“C’è tua moglie sulla due - sembra combattuta sul da farsi - dice che è urgente”

“Passami la chiamata” la liquido, sorpreso.

Naya non mi disturba mai sul lavoro.

“Pronto?”

“Harry!” mi risponde e la sua voce è alta, squillante, quasi impaziente.

“Hey - mi acciglio, lanciando una breve occhiata alla vetrata alle mie spalle - tutto okay? Stai bene?”

“Quando torni?” mi chiede di rimando, come se fosse agitata.

Guardo il monitor del mio Mac sulla scrivania, “Sono appena le tre, Naya - rispondo quindi - Che c’è? Hai bisogno?”

“Ne parliamo dopo, ciao” mi dice, sbrigativa. Non sembra arrabbiata, più che altro parecchio ansiosa.

“Naya” provo a chiamarla, confuso.

“Ciao!” mi saluta velocemente, riattaccando.

Guardo la cornetta, allucinato. Non ho mai sentito Naya così. Non so se essere preoccupato o sollevato per una sua reazione dopo così tanto tempo rinchiusa nella sua apatia.

Decido di lasciare perdere e chiedo a Wilma di prendermi un caffè.

 

 

 

 

 

 

Quando torno a casa, chiamo Naya un paio di volte, mentre mi tolgo il cappotto e appoggio le chiavi all’ingresso.

Il salotto è vuoto e silenzioso e non ho ancora ricevuto una risposta.

“Naya?” dico di nuovo, entrando in cucina.

Lei non è nemmeno qui, sembra tutto ordinato e calmo, ma c’è qualcosa che stona. È una mia impressione, ma trovo che ci sia un non so che di diverso.

Osservo con attenzione tutte le scatole di cereali sulla mensola, poi il bianco panna dei mobili e perfino la temperatura interna del frigo e pare tutto normale anche se so che non lo è.

Mi accorgo solo più tardi del piccolo oggetto appoggiato sul tavolo. Lo riconosco subito perché ne ho visti talmente tanti negli ultimi mesi da poterne disegnare uno ad occhi chiusi.

Lo prendo in mano e noto le mie dita tremare. Vengo risucchiato in una bolla senza ossigeno, annaspo, cerco di venire a galla ma non ci riesco. Mi si chiude la gola e iniziano a fischiarmi le orecchie.

Non c’è più niente se non il test di gravidanza che ho in mano.

È il tocco sapiente di Naya che mi sveglia, qualche secondo più tardi. Abbraccia la mia schiena, lascia un bacio sulla scapola destra e sento la sua guancia appoggiata alla mia camicia. Le sue dita si chiudono all’altezza del mio stomaco, intrecciate tra di loro.

“Due lineette” mormora.

Ha la voce emozionata, vorrei sorridere ma non ci riesco.

Sono bloccato.

La rabbia che ho sentito per tutti questi mesi viene spazzata via con due misere lineette rosa.

Mi accorgo di star piangendo solo quando Naya scoppia a ridere e mi passa davanti per baciarmi, “Allora il tuo amichetto funziona bene” sibila e allora io la stringo e la bacio ancora più forte, coi suoi fianchi che sbattono contro gli spigoli del tavolo e la sua risata incastrata tra i miei denti.

Alla faccia di chi non ci credeva.

 

 

 

 




Quel giovedì sbatto il test di gravidanza sul tavolo, Liam soffoca un’imprecazione - Diavolo, è antigenico, Harry! - e non tocco alcool per tutta la serata.

I miei amici iniziano a raccontare di quella volta che..., per poi passare al gioco “E vi ricordate di quando Harry…” e in un’altra situazione avrei sicuramente protestato. Stasera evito i commenti sgradevoli, mi concentro sulle risate delle persone che h0 intorno e mi lascio trasportare dalle pacche che mi lussano la spalla.

Non ho voglia di pensare a che padre sarò, se ne sarò in grado, se riuscirò a dormire e su come si prende un braccio un bambino. Stasera voglio solo stare bene e tornare a casa da Naya in tempo per baciarla e dormire insieme.

Prima però, devo risolvere una questione.

A metà serata, Zayn si alza per la sua sigaretta di rito. Non ha nessuno snapback, ha tolto l’orecchino all’orecchio destro e non si è fatto la barba.

Lo seguo fuori dal locale, stringendomi nel mio maglione bianco e affondando le mani nei pantaloni della tuta che indosso perché chissenefrega di come sono vestito se sto per diventare padre.

L’aria di  New York è inquinata ma fresca ugualmente. Si sentono in lontananza le sirene di una qualche ambulanza e il rumore dei taxi indaffarati.

Zayn è di spalle, ma so che mi ha visto perché so che sta sorridendo.

Faccio un passo avanti, “Ascolta, Zayn...”

“Non ti preoccupare - si volta verso di me, il filtro della sigaretta incastrato tra la sua dentatura perfetta - non ti devi scusare”

“Invece sì - mi ostino, sospirando - ti ho trattato di merda, non ti meritavi tutta quella cattiveria gratuita. Sono stato uno stronzo, mi dispiace”

“Sì, sei stato un grandissimo stronzo - concorda, con un sorriso che non riesco a decifrare - ma me lo sono meritato. Sai, prima di te non mi ero mai posto il problema di sembrare grande. Se avessi saputo che il sesso da adulti è così bello…”

Alzo subito le mani: “Woah, amico - borbotto e ridiamo entrambi - certi commenti tienili per te”

Getta via la sigaretta e mi abbraccia un po’ goffamente, passando un braccio dietro il mio collo e scompigliandomi i capelli.

“Era ora che Naya rimanesse incinta - mi dice poi, qualche istante più tardi - stavi diventando una palla allucinante. Peggio del solito, per intenderci”

Scoppio  a ridere, scuotendo la testa. Felice.

 

 

 

 

 

 

Non so descrivere quello che provo quando Naya mi dorme accanto con il viso finalmente sereno. Il nostro rapporto si è solidificato di nuovo come se non fosse successo niente, ci siamo lasciati alle spalle le incertezze e i passi falsi. Non ho più dubbi su quello che provo per lei e il solo sapere di averlo messo in dubbio mi fa rovesciare lo stomaco.

Non mostra ancora nessun segno della sua gravidanza, siamo solo alla terza settimana e ha forse la pancia appena un po’ più rotonda.

Sono tutti elettrizzati, Niall e Louis già scommettono sul sesso del bambino e Tyra e Dana già tempestano mia moglie con consigli e aneddoti su cosa mangiare e cosa no.

Mi sento più uomo, in un certo senso. Guardo i muri del nostro appartamento e li immagino zuppi di tempera, penso i richiami di Naya, i giocattoli sparsi per il pavimento e io che inciampo e cerco di non dire parolacce.

E dovrò fare dei sacrifici, probabilmente. Togliere le sigarette del week-end e smettere di tornare in Inghilterra ogni volta che posso. Dobbiamo prendere una macchina, magari una Monovolume, una casa più grande, i pannolini e il libro dei nomi. Dobbiamo togliere il Nudo di quel pittore greco che c’è il corridoio, proteggere le prese elettriche, mettere il Parental Control sul via cavo e iniziare a fare uno di quei corsi per genitori inesperti.

Prendere una culla, una carrozzina e spero non una baby-sitter. Togliere l’abbonamento allo sport per il pacchetto Baby di Sky.

Aggiustare la lavastoviglie, mettere in ordine, chiamare mia madre e scegliere il nome.

Nel letto mi volto verso Naya che dorme ed è tranquilla. Io sorrido e sono stanco morto e ci sono un milione di cose da fare, ma io e lei siamo ancora insieme e questo è anche troppo.

 

 

 

 

 


È venerdì pomeriggio, Naya ed io stiamo camminando per alcuni negozi vicino Broadway. Lei beve un frappè al cioccolato e fragola, porzione Maxi, mentre io ho un braccio attorno al suo collo magro e lo sguardo perso tra le vetrine.

“Ti saluta mia sorella” le sto dicendo, ricordandomi improvvisamente del messaggio di qualche ora prima da parte di Gemma.

Gemma! - Naya si blocca di scatto, spalancando gli occhi e fissandomi - Gemma è perfetto”

Arriccio il naso, riprendendo a camminare mentre sento il suo sguardo indagatore su di me.

“Niente nomi di famigliari e amici - le ricordo - è la regola”

Lei sbuffa come una bambina e mangiucchia la sua cannuccia rosa, stizzita.

Le osservo le labbra piene e la pelle chiarissima del volto, le ciglia lunghe.

In silenzio, spero che il nostro bambino prenda tutto da lei.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La prima ecografia è fissata per l’ottava settimana.

Il dottor Davies è un uomo affidabile, ma non riesco comunque a metabolizzare altre mani sul corpo di Naya.

Cerco di non darlo a vedere per tutto il tempo in cui, seduti nel suo studio, ci spiega quello che avverrà durante la visita. Stringo un po’ di più le dita sulla coscia di mia moglie in un gesto territoriale e rimango in silenzio.

Naya è agitata mentre si stende sul lettino e anche quando Davies le spalma il gel trasparente sul ventre non più piatto. Sono chinato su di lei, con le mie dita impigliate nelle sue e il sorriso rassicurante che dice “sono ancora qui”.

L’uomo inizia a passare la sonda sul suo addome, voltandosi a intervalli regolari verso il monitor accanto a lui.

Qualche istante dopo sorride anche lui, “Eccoci qui” esclama.

Naya s’irrigidisce subito.

Sullo schermo compare un’immagine scura, impossibile da decifrare senza l’occhio di un esperto.

“Questo - Davies indica un piccolo bozzolo nero sul monitor - questo è il vostro bambino”

La vista mi si appanna un paio di secondi ed è come essere risucchiati nel vuoto e tornare a respirare solo grazie alla presa stabile delle mie dita contro quelle di Naya.

Quello è il mio bambino, il nostro bambino.

Mia moglie mi guarda, “Stai piangendo” ride e singhiozza pure lei.

Quando il dottor Davies ci fa ascoltare il battito, mi sento come quando ho preso il diploma, come al mio primo tatuaggio, la nostra prima volta, il mio primo colloquio di lavoro, le chiavi dell’appartamento appena preso, il matrimonio, noi.

È un cuore che batte forte, con un ritmo calzante, che ti si appiccica da tutte le parti. C’è, lo senti, è una presenza.

Diventa il mio ultimo pensiero prima di chiudere gli occhi, con Naya al mio fianco - sempre - e la foto del nostro bambino sul comodino.

 

 

 

 

 

Farrah Payne viene al mondo in tre chilogrammi e nove. Ha già qualche filo di capelli biondi come quelli di Hannah e il viso rilassante come quello di Liam.

Seduto sulle mie ginocchia, fuori dalla stanza dell’ospedale, Michael mi racconta di come sia contento di avere una sorellina.

“Anche se io volevo chiamarla Leila - mi confida, con un adorabile broncio e gli occhi cioccolato che osservano con attenzione il piccolo modellino di auto che tiene tra le mani - come la mia maestra. Mi sta simpatica”

 

 

 

 

Io e Naya iniziamo a sperimentare altre prime volte.

La nostra prima torta alla crema, la prima spesa da 300 dollari, la prima volta in un ristorante indiano, il primo concessionario di automobili, la prima culla, il primo calcio da parte del bambino, la prima cena col mio capo e sua moglie, la prima volta in cui tutto sembra completo e al suo posto.

La prima volta in cui sono esattamente dove voglio stare, senza aver paura che tutto finisca e non mi rimanga più niente.

 

 
Però poi tutto finisce davvero e a me, a noi, non rimane più niente.

 

 

 

Finisce un mercoledì notte.

Mi sveglio lentamente, senza capire bene il motivo. Apro gli occhi e mi sembra di aver dormito non più di un paio di minuti, ma quando mi volto verso il comodino, la sveglia segna le 3AM.

Faccio scorrere i palmi delle mani sul materasso per riprendere il controllo delle articolazioni e mi blocco di scatto tre secondi più tardi.

Accendo la luce dell’abat-jour e mi alzo velocemente e c’è del sangue tra le coperte.

Il materasso è macchiato di una pozza rosso scuro, così come la camicia da notte di Naya, sul suo ventre.

Lei continua a dormire, il suo respiro è rilassato, innocuo.

Mi osservo le dita sporche e inizio a tremare violentemente.

Non connetto la mente alle mie azioni, vorrei svegliare Naya e invece prendo il telefono. Dovrei portarla in ospedale ma compongo il numero di Niall.

Non sento più niente.

Mi chiudo in bagno, sedendomi sul bordo della vasca e tirando i miei capelli così forte da farmi male. Niall risponde al quinto squillo.

“Sei fortunato che io abbia appena finito il turno, amico, chi diavolo chiama alle… - singhiozzo, chiudendo gli occhi di scatto e lui si blocca - Harry? Che succede?”

 “Tu…tu sai quando… - non riesco a parlare - Non è n-normale il sangue, vero? N-non è normale, c’è qualcosa…qualcosa che non va”

“Harry ti prego, spiegami - quasi mi supplica - Cos’è successo? Dov’è Naya?”

Rispondi! - batto un pugno chiuso contro la mia coscia tremante, asciugandomi un occhio con il tallone della mano - Non è normale il sangue durante la gravidanza”

La mia non è una domanda perché lo so, ho bisogno solo di sapere che sto sbagliando.

Lo sento sospirare: “No, Harry - mormora e sembra aver capito tutto - Non è normale”

Singhiozzo più forte e la mia gabbia toracica si chiude improvvisamente. Mi mordo le nocche per non iniziare a urlare.

“Ma ehy!, Harry non è detto che si tratti di un aborto - cerca di consolarmi ma è tutto inutile - Portala in ospedale però. Adesso”

Chiudo la telefonata l’attimo dopo e quello dopo ancora il telefono si schianta contro il legno della porta.

Non riesco a percepire i miei stessi movimenti, il mio respiro, quello che penso e quello che effettivamente faccio.

Vorrei mantenere la calma, prendere un paio di minuti per capire cosa cazzo fare e invece ansimo e piango, mi graffio il volto per cercare di alleviare il dolore e strofino gli occhi per seccarli e smettere di stare così male.

Voglio smettere di pensare, voglio smettere di sentire. Non voglio più niente, non mi rimane più niente.

Sono vuoto, esattamente come l’utero di Naya.

La sveglio dieci minuti più tardi con le lacrime agli occhi.

“Amore...” sussurro, nella penombra della stanza.

Mi guarda un paio di secondi, sbattendo le palpebre per capire cosa sia successo. Mi sembra una bambina che cerca delle risposte, si guarda intorno, guarda il mio sorriso spento e poi le coperte intrise di rosso.

“Harry…” sembra una richiesta d’aiuto.

“Shhh - l’aiuto ad alzarsi, stringendola come se fosse di vetro - vieni qui”

“Mi fa male tutto” balbetta e inizia a tremare un po’.

La porto in bagno, la spoglio lentamente e lei si lascia spogliare con tutta la fragilità del mondo.

Il suo corpo è spento, come se fosse privo di vita.

La faccio sedere dentro la vasca, le pulisco il ventre sporco, le cosce rosse e le mani tremanti. Ha lo sguardo fisso sulla parete davanti a lei e io capisco solo in quel momento di star toccando un corpo vuoto.

Quando chiudo il getto della doccia, Naya scoppia a piangere.

 

 

 

 

 

Possiamo fare finta che vada tutto bene e possiamo fare finta che funzioni. Possiamo costruirci sopra altri muri, altri pali, altre sicurezze. Possiamo far finta di non piangere, si può sorridere e fare l’amore se questo servisse a qualcosa, ma con le assenze non ci puoi fare niente.

Le assenze son bastarde. Le assenze sono costanti che ti ricordano il posto vuoto, il bozzolo nero sul monitor.

Le assenze sono fatte per ricordarti ogni giorno che ti tocca sopravvivere anche senza.

Senza qualcuno.

Senza qualcosa.

Nel mio caso, senza tutto.

 

 

 

 

 

Non riusciamo più a guardarci negli occhi. I miei sono sempre un po’ troppo rossi per via delle lacrime che verso tra la pausa pranzo e una riunione, quelli di Naya sono spenti, persi da qualche parte.

Inizio ad addormentarmi sul divano e a svegliarmi col mal di schiena, salto i giovedì sera con gli altri e piango.

Piango tantissimo. Piango anche per Naya.

Lei non piange, ogni tanto i suoi occhi si inumidiscono mentre sta cucinando ma nient’altro. È come se fosse bloccata.

Smettiamo di parlarci da un giorno all’altro.

Capisco che c’è una differenza sostanziale tra l’essere vicini e lo stare insieme.

Per esempio, mentre guardiamo Oprah in tv, le nostre mani quasi si sfiorano.

Siamo vicini, ma non siamo insieme.

E mi viene da piangere ancora se penso che forse avevano ragione gli altri.

Ma dai? Ancora insieme?

Non lo so.

 

 

 

 

 


 

 

Naya non riesce a reagire. Rifiuta le attenzioni di sua sorella, esce di casa solo per consegnare gli articoli in redazione e smette di rispondere alle chiamate sul suo cellulare.

Passa le sue giornate in silenzio, lo sguardo fisso contro qualcosa senza mai vederlo realmente e le gambe sempre più magre.

“Parlami” la supplico una sera.

Mi dà le spalle e subito la sento irrigidirsi tra le mura del corridoio.

“Guardami, Naya - dico ancora, facendo un passo avanti - Dimmi qualcosa. Reagisci”

“Avrei voluto che avesse il colore dei tuoi occhi” sussurra solamente.

Ed è straziante.

E non ci rimane più niente.

 

 

 

 

 

 

Io invece avrei voluto che avesse i suoi occhi solo per dirgli: “Hai gli occhi più belli del mondo”. Volevo che avesse la sua creatività, i suoi zigomi, il naso elegante e la sua risata a tratti fastidiosa.

Avrei voluto insegnargli ad andare in bicicletta, e leggergli le favole della buonanotte per farlo stare meglio. Avrei voluto che mi stringesse forte durante i temporali e avrei voluto sgridarlo quando sarebbe entrato nel nostro letto.

Avrei voluto dargli un nome importante, non comune perché sarebbe stato unico.

Avrei voluto averlo sulla scrivania del mio ufficio, in braccio a sua madre, entrambi che sorridono e sorridono a me.

Forse c’è qualcuno che ha pensato “Si può sempre riprovare”, ma come?

Non riusciamo ad andare avanti neanche con la forza di entrambi, come possiamo solo pensare di riprovarci?

Ho sentito il suo battito, il suo cuore. Un cuore che ha smesso di battere davanti ai miei occhi, sotto il mio udito.

Non si sanno le cause, è sempre difficile accertarsene e in più a nessuno importa davvero.

Abbiamo perso un figlio.

Un figlio che forse avrebbe avuto gli occhi più belli del mondo. Un figlio che gli occhi non li ha mai aperti.

E anzi, forse dire ‘perso’ è sbagliato.

Perdere qualcosa che puoi ritrovare da qualche parte.

“Perso” si usa per chi ha ancora una speranza. E noi?

E forse è perso perché perdere è molto meno doloroso.

Non è perso, è solo che non c’è più.

 

 

 

 

 

Arriviamo al capolinea da un giorno all’altro, senza neanche accorgercene.

Non ci tocchiamo più, evitiamo di guardare la televisione insieme e io finisco per fumare tre pacchetti di sigarette in un week end.

Nessuno riesce a capire, “Bisogna andare avanti” dicono, ma non ti spiegano come fare.

Ti danno i consigli, ti incitano a seguirli, ma poi?

Naya smette di provarci molto prima di me, non so esattamente come, ma smette.

E penso che portare avanti una relazione con questo vuoto sia autodistruttivo.

“Non abbiamo perso solo un figlio - sussurra una notte, nel buio della nostra stanza - abbiamo perso tutto”

Io ho perso lei.

 

 

 

 

 

 

Le carte del divorzio le firmiamo a settembre, nella sala riunione del mio ufficio, con il suo avvocato e il mio.

Naya ha lo sguardo fisso contro i palazzi di New York fuori dalla vetrata. Annuisce quando i legali stilano i suoi diritti e firma meccanicamente come se stesse decidendo come vestirsi e non come se stesse mettendo fine al nostro matrimonio.

I suoi capelli sono lunghi, ormai le sfiorano i seni. La ricrescita più scura mette in evidenza il colore grigio dei suoi occhi.

Non ci scambiamo uno sguardo, una parola.

Vorrei dire qualcosa, vorrei dire che mi dispiace, che non è colpa sua. Vorrei dire che mi mancherà come l’aria, che non ne troverò di donne come lei, che lei e anzi, loro, saranno gli unici. Sempre.

Ma è comunque tutto inutile.

 

 

 

 

 

 

 

 

Non amerò mai nessuno come ho amato Naya.

Ogni tanto mi chiedo quanto possa far male amare così tanto, così tanto da distruggersi.

Posso uscire con un sacco di donne e posso anche provare a essere innamorato di una di queste, ma non sarà mai la stessa cosa.

Abbiamo venduto l’appartamento, io ho trovato un loft vicino all’ufficio e lei si è trasferita temporaneamente da sua sorella.

Nella mia testa, nelle mie azioni, nelle mie parole, ci sarà sempre quel puntino nero, quel bozzolo.

Un’assenza. Una costante.

Non amerò mai nessuno come ho amato Naya e il nostro bambino.

E se mai lei dovesse tornare, sarò sempre qui, a leccare le sue ferite e a condividere i vuoti per riempirli con i nostri baci che dicono ancora “guarda che non ti lascio neanche se me lo chiedi”.

Ci sarò sempre, e da qualche parte, saremo sempre noi due. Noi tre.

Alla faccia di chi non ci credeva.








  
Leggi le 25 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > One Direction / Vai alla pagina dell'autore: malpensandoti