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Autore: Soe Mame    17/02/2014    2 recensioni
Sì, ci sarebbe riuscito.
Avrebbe svolto il suo ruolo in modo impeccabile, avrebbe onorato la parola data da Gakupo ai signori e non avrebbe mai più fatto alcun pensiero sulla signorina Len.
Sì, ci sarebbe riuscito, per tutti e sei i mesi.
Era spacciato.
Genere: Angst, Demenziale, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Gakupo Kamui, Kaito Shion, Len Kagamine
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

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- Vi prego... - visti da vicino, così lucidi, quegli occhi azzurri erano ancora più belli: - ... fate piano. -
- Non temete. - prese quella mano candida stretta al petto, portandola al proprio viso. Era incredibilmente calda. Non se ne stupì affatto.
Anzi, la cosa gli diede una certa soddisfazione. Un'altra scarica lo scosse, andò a mescolarsi a quella sensazione assurda che gli stava annebbiando la mente, un insieme indefinito di trionfo, sollievo, felicità, eccitazione, aspettativa, nessuna delle quali delineata, solo gettate a caso e fusesi le une con le altre.
Len voltò il viso di lato, le guance imporporate, il respiro forzatamente controllato.
- Ho sentito parlare di voi... - sussurrò lei, la voce spezzata dall'imbarazzo: - Le vostre doti non sono un mistero. - la vide avvampare, il braccio libero andò a coprire il seno nudo, gli occhi si socchiusero tanto da sembrare chiudersi.
Era meravigliosamente adorabile.
- Ne sono lusingato. -
Non aveva esattamente idea di dove la signorina Len avesse sentito tali - fondatissime - voci - dubitava che qualche sua antica fiamma fosse andata a narrarle chissà quali prodezze; ma, del resto, non aveva idea neppure di cosa ci facessero nella stanza tutte quelle bolle di sapone fluttuanti, quindi rinunciò a pensare.
Pensare, che cosa ridicola.
Finalmente, dopo tanto soffrire, aveva Len nuda sotto di sé, non aveva bisogno di riflettere o perdere altro tempo.
L'unico pensiero che poteva osare manifestarsi nella sua mente era il fare piano.
Un altro brivido piacevole.
Del resto, sarebbe stato un vero peccato lasciare intatto un fiore tanto splendido, permettendo che avvizzisse in una landa desolata, senza coglierlo.
Ma era un fiore che non era mai stato toccato, bisognava essere delicati.
... perché stava facendo metafore simili in un momento del genere?
Forse era colpa dei petali di rosa rossi che stavano piovendo dal soffitto.
Non aveva idea del perché stessero piovendo petali di rosa rossi dal soffitto e, in effetti, la cosa era un po' strana. Era piuttosto sicuro che, in quella camera, non ci fosse nessun altro oltre loro due, quindi neanche addetti al lancio di petali.
A meno che...
"... dannazione.".

Kyte riaprì gli occhi.
Le tende della finestra erano aperte abbastanza da far entrare la luce del sole, dritta sul suo viso - e anche discretamente fastidiosa.
Kyte guardò il sole.
Il sole guardò Kyte.
Kyte guardò il sole.
Il sole guardò Kyte.
Kyte chiuse gli occhi perché il sole glieli stava friggendo.
Trasse un profondo respiro, riprese contatto con ogni parte - dolorante - del suo corpo. Una, in particolare, gli faceva più male delle altre.
Strinse i denti e si schiaffò le mani sul viso, un ringhio di frustrazione gli sfuggì dalle labbra.
Stava impazzendo.
Si trovava in quella casa da un mese e mezzo e già dalla terza notte aveva iniziato ad avere incubi: ogni volta era ad un passo dal fare sua Len - bellissima, timida e ingenua -, ma finiva sempre per svegliarsi nel momento più importante, con il corpo che gli doleva.
Fosse riuscito a farla sua anche solo una volta sarebbe andato benissimo. Forse, così, la sua sofferenza si sarebbe alleviata almeno un po'.
E invece no.
Di notte, la signorina Len gli si concedeva, ma lui, puntualmente, ne veniva allontanato; di giorno, la signorina Len passeggiava davanti a lui o al suo fianco, dolce e ignara di tutto, intoccabile.
Il fatto di dover stare a stretto contatto con lei praticamente tutto il giorno era una delle cose peggiori: per quanto potesse godere della sua presenza, della sua voce, del suo aspetto, non poteva goderne appieno, né avrebbe potuto osare sperarlo, in verità.
Forse, una parte di lui aveva accettato il fatto che la signorina non potesse essere sfiorata - figurarsi unirsi a lei - ed era per questo che gli impediva di rendere più o meno concreto il suo desiderio anche solo in sogno.
Si passò una mano tra i capelli, cercando di regolarizzare il respiro troppo veloce: un'altra giornata frustrante. Bella, ma frustrante.
Non avrebbe mai pensato di diventare un simile masochista.
Se non altro, a volte aveva modo di distogliere la mente dall'orlo della gonna della signorina: non si trattava tanto del concentrarsi sugli ideogrammi o sulla cultura di un paese dall'altra parte del mondo, quanto di eventuali uscite, soprattutto in paese.
Kyte aveva finalmente capito il vero ruolo che avrebbe dovuto ricoprire: Len, ovviamente, non andava in giro da sola con lui - solo il pensiero lo faceva rabbrividire, per più di un motivo -, ma era accompagnata da altre servitrici più grandi; lui rimaneva qualche passo indietro, la spada al fianco, a controllare che non le succedesse niente.
D'accordo, ai suoi occhi, la signorina era la fanciulla più bella che avesse mai visto, dai modi anche troppo particolari e l'aspetto di un angelo, o di un qualcosa che non apparteneva a quel mondo; tuttavia, credeva fosse il suo sguardo ad essere perso tra quei capelli biondi e quegli occhi azzurri, non che la signorina fosse unanimamente considerata una creatura di bellezza e grazia ultraterrena.
Si era sorpreso nel notare più di un uomo, di un giovane, voltarsi al suo passaggio, fosse per un'occhiata rapida o per uno sguardo più intenso. Non che tutta la popolazione maschile si fermasse ad ammirare Len, ma in un mese e mezzo aveva contato sette ragazzi e tre uomini. La cosa lo irritava.
Finché si trattava di semplici occhiate, forse anche incuriosite, Kyte fingeva di non vedere, continuava a camminare come se niente fosse, qualche passo dietro la signorina e le altre donne; quando, però, un'occhiata si faceva troppo ardita, accelerava il passo e si portava più vicino, la mano poggiata sull'impugnatura della spada, l'irritazione annidata all'altezza del petto, contenuta a stento.
Poco importava che anche lui sperasse in un qualche colpo di vento troppo forte o in improbabili strappi di vestiario. O che una delle giarrettiere cedesse e crollasse al suolo portandosi dietro tutta la calza - gli era venuto il sospetto che Len usasse i reggicalze, dato che non l'aveva mai vista perdere una sola calza.
Era successo più volte ad altre gentildame, in compenso. Ma mai a Len. Ovviamente.
E lui sarebbe dovuto essere la sua guardia del corpo.
C'era da dire che non aveva intenzione di farle del male: non avrebbe mai osato forzare Len, violarla - solo il pensiero lo disgustava -, ma non riusciva a smettere di pensare a ciò a cui stava pensando fin dal momento in cui l'aveva vista per la prima volta.
E faceva male. Non solo mentalmente. Anzi, forse la mente era la meno sofferente.
Scosse la testa.
A volte invidiava la compostezza e il sangue freddo di Gakupo: in alcuni momenti, pensava ne avesse talmente tanto da potergliene pure regalare un po'.
Quello era uno di quei momenti.

- Se... tsu... ge... tsuka. -
- Setsugekka. -
- Ma si può leggere anche Setsugetsuka. -
- Ma è più corretto Setsugekka. - "Credo."
Vide Len osservare la lavagna, lo sguardo scettico.
Non era sicuro che Len fosse più esperta di lui riguardo l'arte giapponese, ma non era neppure sicuro che stesse dicendo una stupidaggine. Quando Gakupo gliel'aveva spiegato, non si era posto il problema.
- Setsugetsuka ha un suono più carino! - esclamò Len, come se quella fosse una motivazione sensatissima.
- Perché dovete chiamare le cose con il loro nome più difficile? - domandò Kyte, sostituendo all'ultimo momento "impronunciabile" con "difficile".
Len lo guardò negli occhi. Il suo sguardo si era fatto tranquillo, forse un po' incuriosito.
- Perché è più carino. -
Kyte sospirò.
Sperava che una lezione sull'arte giapponese fosse più leggera, ma non aveva messo in conto la possibilità che la signorina si fissasse su una parola impronunciabile.
In compenso, fu felice di essere riuscito a prevedere almeno una cosa: i bordi di uno dei - aveva scoperto tanti - libri da lei martoriati era stato ricoperto di disegnini di fiocchi di neve, lune e mezzelune e fiori di tutti i tipi, tanto per far capire di aver appreso cosa significasse la parola Setsugekka.
Posò il gessetto sul tavolo, notando i pochi minuti rimasti alla lezione, per quella mattina: - Ma, in fondo, perché soffermarsi sulla sola cultura giapponese? - disse, sperando di cambiare argomento più in fretta possibile: - A volte mi viene da pensare che vi serva almeno un'infarinatura di culture degli altri popoli. -
- Voi dite? - fece Len, piegando appena la testa di lato.
Kyte annuì, desiderando che la signorina dimenticasse in fretta la sua esitazione di fronte alla pronuncia di quella parola impronunciabile: - Ho l'ardire di dirlo, sì. -
Ardire. Ardore. Pessima scelta di vocaboli.
- Ad esempio? -
- Ad esempio, potreste apprendere qualcosa sui popoli europei. Sull'Italia, ad esempio. -
- L'Italia? -
- Sì. Ad esempio, qualcosa sul periodo rinascimentale. Magari sui Borgia. Erano persone interessanti, i Borgia. -
Len rise, la mano volò rapida davanti alle labbra.
A volte, Kyte avrebbe voluto che non lo facesse: ridere apertamente doveva renderla ancora più bella.
No, d'accordo, forse era meglio che si coprisse.
- Conosco i Borgia, signor Kyte. - tolse la mano da davanti alle labbra, ancora curvate in un sorriso: - Così come conosco qualcosa della Storia dei paesi europei. Non sono così ignorante, sapete? -
- L'assenza di un altro precettore lo testimonia, signorina. -
Sperava che il tempo a disposizione per la lezione scadesse in fretta.
Dopo un paio di settimane, aveva scoperto che la signora non aveva più sentito il bisogno di farlo controllare dai domestici - che, a quanto pareva, avevano garantito sulla sua effettiva competenza.
Certo, sugli argomenti base era ferrato. Erano altre le cose che sapeva poco o affatto. Ma, del resto, era solo un insegnante provvisorio.
La cosa che più lo scuoteva era il fatto che le ore di lezione fossero ore in cui si trovava da solo con la signorina Len. Non in una stanza isolata dal resto del mondo, ma neppure davanti all'ingresso principale.
Se non altro, la porta veniva lasciata aperta.
Quel rettangolo era l'unica cosa che gli impedisse di fuggire, dare ripetute testate al muro, gettarsi dalla prima finestra disponibile o assaggiare le labbra di Len.
- Voi conoscete la famiglia di Gakupo-sensei? -
- Perché questa domanda? -
Len parve pensarci un istante, lo sguardo fisso nel suo. Poi rispose: - Mi chiedevo se la signorina Megumi fosse la sua unica cugina o se fosse la sua cugina preferita. Stare in mare per sei mesi non deve essere piacevole, per qualcuno che non è un marinaio o un pirata. Quindi la signorina Megumi deve avere un legame particolare con lui. -.
Kyte sbattè le palpebre, confuso: "Che discorso è...?"
- Non conosco tutti i parenti di Gakupo. - spiegò: - Ma conosco Gum- la signorina Megumi, sì. E' una fanciulla onesta e, sì, lei e Gakupo sono molto legati. Tuttavia... voi non fareste lo stesso? -
- Prego? -
- Si tratterebbe pur sempre del matrimonio di una vostra stretta parente. Voi non la raggiungereste anche se fosse lontana? -
Len continuò a guardarlo. Il suo sguardo si era fatto divertito.
- Signor Kyte... - esordì, pacata: - ... ho trentatré cugini, di cui un solo maschio. Vi sembra possibile che io accetti l'invito di ognuno di loro? -
Kyte deglutì, scioccato: - Cos- trentatré? - "E un solo maschio?"
- Credevo lo sapeste. La mia famiglia non è così ignota. -
Sì, sapeva che i rami dei duchi di Dewsen erano tanti. Ma non pensava così tanti.
Né che trentatré su trentaquattro discendenti fossero femmine.
- Per circa metà di loro, io sono una perfetta sconosciuta. - Len alzò le spalle: - Sprecare tempo e fatica per andare al matrimonio di persone mai viste è ridicolo. E il legame di sangue non cambia niente. Per questo mi chiedevo se Gakupo-sensei avesse una famiglia numerosa o se la signorina Megumi fosse la sua unica cugina. Tutto qui. -.
Kyte era ancora stordito. Tuttavia, cominciava pian piano a capire il motivo delle parole della ragazza: le cugine erano talmente tante che dovevano aver perso qualsiasi reale legame affettivo le une con le altre, limitandosi a semplici conoscenze o totale indifferenza.
Era triste, sotto un certo punto di vista.
- Come mai vi è venuto in mente Gakupo? - osò domandare, stupendosi della voce quasi gentile che uscì dalle sue labbra.
- La vostra pronuncia. - Len sorrise: - Ho pensato che il vostro accento inglese è molto forte. Gakupo-sensei, quando mi insegna, parla nella sua lingua madre e, ovviamente, la pronuncia è perfetta. Sarebbe da chiedere a lui se si può dire anche Setsugetsuka! -
"Ugh. Se n'è accorta."
- Potremmo... sì... -
La vide voltarsi verso l'orologio presente nella stanza, per poi tornare a guardarlo: - Che ne dite di fare una passeggiata, dopo pranzo? -
- Come desiderate. Volete andare in paese? -
Len scosse la testa: - Vorrei rimanere qui nei dintorni. -
Sentì un brivido lungo la schiena. Quella frase significava: - Voglio passeggiare in tutta tranquillità senza nessuna delle mie accompagnatrici che mi trascina in quello o in quell'altro posto quando io vorrei andare altrove, senza timore della possibilità di imbattermi in persone poco gradite e senza necessariamente dover pensare a qualcosa! - ossia: - Accompagnatemi in giro, solo voi ed io! -.
- Come desiderate. -.

- Oggi fa veramente caldo, non trovate? -
- Capita, in estate. -
- Ma oggi più del solito. Il sole è davvero forte! - Len si sventolò con il ventaglio, talmente veloce da quasi sparire alla vista: - Pensate che, una volta, per un caldo del genere, mia cugina Miki è addirittura svenuta! Anche se mia cugina Lola dice che è perché aveva stretto il corsetto più del dovuto. Ah, conoscendo mia cugina Miki, è probabile! Corsetto troppo stretto, un caldo simile... era logico che sarebbe svenuta! E' così esile, forse dovrebbe mangiare di più, come dice mia cugina Lola. -
Era bella, la voce di Len. Qualsiasi cosa dicesse, qualsiasi intonazione avesse - di rado era bassa.
Cercava di concentrarsi su quella, sul suono che produceva, lasciando che occupasse del tutto la sua mente, in modo che non lasciasse spazio a pensieri del tipo: "E' talmente vicina che, per poterla toccare, non devo neppure allungare il braccio.".
Quella era una delle poche volte in cui la signorina non indossava il suo nastro nero, quello che sembrava donarle un paio di orecchie da gatto; era quasi strano vederla senza, per quanto fosse splendida e adorabile anche con una fascia rossa dai merletti neri - tanto che sembrava più nera che rossa.
Rosso scuro e merletti neri, i colori del vestito che indossava, l'orlo merlettato della gonna ovviamente scivolava sull'erba, le mani quasi sparivano sotto la stoffa nera delle maniche. Qualche volontà divina - o demoniaca, più appropriato - aveva fatto sì che quel vestito fosse aperto sopra il petto, un quadrato di pelle candida chiuso dai nastri neri sul seno e dal collarino merlettato.
Non che si vedesse qualcosa, anzi. Del resto, era comprensibile che la signorina non fosse a proprio agio nell'esagerare con le scollature quando tutte le altre fanciulle esibivano floride colline e lei una pianura desertica.
- Voi siete mai svenuto per il caldo, signor Kyte? -
- No, signorina. -
"Ma stavo meditando di fingere uno svenimento proprio ora.".
Len si fermò.
Kyte si bloccò, sentendosi improvvisamente gelare, a dispetto di tutto quel caldo: "Non ho pensato ad alta voce, vero?"
- Voi... - la ragazza abbassò il ventaglio, lo sguardo incuriosito: - ... siete sempre così composto, signor Kyte! -
"... ah...?"
- Voi dite? - lasciò trapelare solo un po' della sua sorpresa - o l'avrebbe spaventata, probabilmente. Ma se ne compiacque: riuscire ad apparire composto quando dentro di sé sentiva l'approssimarsi dell'Apocalisse era un'ottima prova di recitazione.
Len annuì: - Guardandovi, non mi sembrate molto una persona seria e composta, sapete? -
"Ah?"
- Perché dite questo? -
- Ho visto le vostre mani. - piegò appena la testa: - Sono callose. Sembrano ruvide. E voi avete detto di non essere mai stato un soldato. Non credo voi siate un contadino o una persona di basso ceto. Non ne avete l'aria, né il vostro linguaggio e modi possono passare per quelli di un popolano. Dunque mi viene da pensare che voi siate... - le labbra sparirono dietro il ventaglio improvvisamente riaperto: - ... una persona a cui non piacciono molto le formalità. -.
Kyte sforzò un sorriso, il sangue congelato nelle vene: - Siete una brava osservatrice, signorina. -
- Affatto. - nei suoi occhi azzurri brillò una luce divertita: - Semplicemente, riconosco le persone come me. - il ventaglio si chiuse, rivelando un sorriso luminoso: - Quindi, se me lo permettete, vorrei chiamarvi soltanto Kyte. Voi potete chiamarmi solo Len. Finché non c'è nessun altro in giro, ovviamente. -.
Rimase bloccato sul posto.
In realtà, neppure lui capiva cosa stesse succedendo: forse la signorina aveva scoperto tutto. Forse aveva intuito che la sua compostezza nascondeva qualcos'altro, qualcosa che riguardava lei in prima persona. Forse si era accorta che, ogni giorno, la divorava con lo sguardo - e non sarebbe stato poi così strano. O forse non aveva capito nulla di tutto ciò. Forse aveva davvero solo capito quanto poco a suo agio si sentisse ad imitare la fermezza di Gakupo e ad usare toni ossequiosi.
- Mi concedete di farlo? -
Concedere. Altra brutta scelta di termini.
Len annuì: - Ci si sente meglio ad essere diretti, vero, Kyte? - sorrise.
- Credo di sì... Len. - era strano chiamarla per nome e basta, persino per lui. Era una cosa fin troppo intima.
"Forse ha capito tutto e ti sta incoraggiando." scacciò dalla mente quella parte di lui che gli aveva sussurrato quella cosa.
La ragazza sistemò ancora una volta l'ombrellino sopra la testa, orientandolo a seconda dei raggi del sole. Provò un paio di volte, poi vi rinunciò: - Fa veramente troppo caldo. - sospirò, la voce stanca: - Andiamo a cercare un posto all'ombra? Magari fresco. Che ne dite? -
Il suo sguardo era letteralmente speranzoso. In effetti, con tutti quegli strati di vestiti che indossava, doveva avere il decuplo del caldo che sentiva lui.
"Evitadipensareaqualsiasicosariguardiiltoglierestratidivest- dannazione."
- D'accordo, sign- Len. -
- Ah! Potremmo andare al laghetto! -
- Ottima idea. - e non le stava dando ragione per fare l'ossequioso. L'idea di vedere una distesa d'acqua fresca stava iniziando a farsi molto allettante.
- Però passiamo di qua, di là ci sono le stalle e non voglio sporcarmi il vestito. E poi, non mi piacciono molto i cavalli... -
- Davvero? - si stupì: alla maggior parte delle nobildonne che aveva conosciuto i cavalli piacevano, a chi di più a chi di meno.
- Dunque... - disse: - ... posso presumere che non siate una cavallerizza? -
Il ventaglio tornò a sventolare: - E' troppo faticoso! Non mi piace cavalcare. Preferisco stare sdraiata sull'erba. -
"Sì, sospettavo che non le piacesse cavalcare..." era così esile e delicata: "... e che fosse più tipo da stare sdraiata.".
I suoi sogni deliranti lo confermavano.

Il laghetto a qualche decina di metri dalla magione dei duchi di Mirror aveva di certo uno scopo: probabilmente, era luogo di pesca sia per eventuali servitori addetti sia per qualche pescatore - sull'altra riva, persa nell'orizzonte, perché quella riva era una proprietà privata -, forse qualcuno ci faceva dei brevi viaggi in barca, forse era usato per irrigare dei campi.
Di certo aveva più senso del famigerato giardino interno in una casa circondata da ettari di prati e alberi.
Qualunque fosse lo scopo primario - o secondario o terziario - del laghetto, comunque, in quel momento l'unico pensiero formulabile d'innanzi a quella distesa d'acqua era: "Fresco.".
A rendere il tutto ancora più attraente, una serie di alberi particolarmente frondosi ricopriva la riva ghiaiosa con la sua ombra, lasciando uno spazio libero solo per una piccola passerella di legno che collegava il terreno al nulla nell'acqua, qualche metro più avanti.
Len scattò, ritrovandosi sotto l'ombra delle foglie nel giro di un battito di ciglia, l'ombrellino e il ventaglio abbandonati lungo i fianchi, con un sospiro di sollievo.
Kyte la raggiunse con tutta la calma di cui era capace, giusto per non dare troppo l'impressione di starsi cuocendo; quando però i raggi smisero di ustionargli la testa, sostituiti da un piacevole fresco, non riuscì a trattenere un: - Finalmente. - molto sentito.
- Non c'è nessuno... -
La voce di Len non gli diede quella che avrebbe definito "una bella notizia".
- Ma ora la casa sarà un forno! - sbuffò la ragazza, chiudendo l'ombrellino e appoggiandolo al tronco più vicino: - A meno che non siano fuggiti tutti in massa nei sotterranei. - il ventaglio andò a far compagnia all'ombrello: - La prossima volta potremmo farlo anche noi! Che ne dite? -
- Fuggire nei sotterranei, dite? -
Meglio specificare. Più per autoconvincersi.
- Sì! -
- E cosa c'è di interessante, nei sotterranei? -
- Il fresco. -
- Potrebbe rivelarsi un'ottima idea. -
Aveva seguito i movimenti di Len con una certa curiosità - più del solito -, domandandosi cosa stesse facendo: l'aveva confuso soprattutto il suo aver lasciato il ventaglio vicino all'albero.
Quando poi la vide incamminarsi lungo la passerella, tornando al sole, la sua confusione aumentò.
- Sign- Len. - la vide fermarsi e voltarsi verso di lui: - ... perché state tornando al sole...? -
Sperò che non gli chiedesse di seguirla. Mai come in quel momento era stato tanto felice di starle lontano.
- Perché l'acqua è qui! - Len tornò a camminare, i tacchi che battevano sul legno, fino a fermarsi all'estremità di quella specie di piccolo ponte incompleto. Si lasciò cadere seduta, con uno sbuffo della gonna.
Si voltò di nuovo. Stavolta il suo sguardo sembrava quasi esitante: - Vi dispiace se mi prendo un po' di libertà? - domandò, la voce stranamente più bassa del solito.
- No, fate pure. -
"Qualsiasi cosa intendiate per libertà.".
Kyte la vide sorridere, senza più timore, tornando a guardare la riva opposta.
Era ancora perplesso.
"Forse in quel punto c'è più vento? Ma ha parlato solo di ac-"
Era spacciato.
Non si sarebbe mai aspettato di fare una brutta fine in una situazione del genere, ma quella era la realtà dei fatti: Len si era rialzata e aveva delle cose strane, bianche e lunghe, tra le mani; con una certa noncuranza, aveva gettato le suddette cose strane accanto a lei, rivelando altre due cose nere e lunghe, più piccole. E Kyte le aveva riconosciute: calze. Lunghe, bianche. E due giarrettiere. Merletto nero, improbabile nastro blu che stonava con il resto del vestito.
E poi Len si era alzata la gonna fino alle ginocchia, e aveva scavalcato le scarpette bianche abbandonate sulla passarella, e si era seduta sul bordo, e aveva messo entrambi i piedi in acqua, fino a metà polpaccio.
E Kyte era morto.
O meglio, ci era andato molto vicino.
Sì, decisamente, sotto quei vestiti ingombranti doveva nascondersi un corpo esile e candido. Se già le mani e quello spazio sopra il petto glielo avevano fatto sospettare, le gambe glielo avevano confermato.
E il suo viso era solo un misero assaggio della sua vera bellezza. Era un pensiero meraviglioso e inquietante al tempo stesso.
Un pensiero che durò una frazione di secondo, immediatamente schiacciato dalle varie ipotesi circa il proprio destino.
Poteva resistere stoicamente e cancellare per sempre dai propri ricordi l'immagine di quella gonna alzata, del merletto nero che lambiva le ginocchia, di quelle gambe scoperte.
Ipotesi scartata ancor prima di finire di formularla.
Poteva coprirsi gli occhi ed esclamare qualcosa come: - Copritevi! -, ma sarebbe stato fin troppo ipocrita, dato che era stato lui a dirle che poteva "prendersi delle libertà" - per quanto non sapesse cosa ciò avrebbe comportato.
Poteva fuggire urlando.
Ipotesi interessante, anche se sarebbe stato un duro colpo alla sua immagine.
Poteva affogarsi.
Altra ipotesi interessante, anche se forse avrebbe traumatizzato la signorina Len.
Tutte ipotesi spazzate via dal ringraziare chiunque avesse fatto sì che la sua giacca arrivasse a metà coscia. In caso contrario, la signorina Len sarebbe seriamente rimasta traumatizzata per tutta la vita.
Onde evitare tal disdicevole evento, Kyte capì che non c'era più tempo per pensare - il fatto di avere artigliato la corteccia di un albero con una certa foga, unito al dolore crescente sotto la cintura, poteva essere stato un indizio utile.
Poteva allontanarsi con una scusa e commettere atti di bieca lussuria con se stesso.
Tanto era spacciato comunque.
Gli occhi azzurri di Len.
Era spacciato.
- Venite? -
"..."
- No. Grazie. Rimango qui. -
Poteva dare testate all'albero fino a perdere i sensi.
Ottima idea. Perché non gli era venuta in mente subito?
Len rise, le labbra coperte dalla mano, come al solito: - Sapete, Kyte? -
- Cosa? - "Non trovate che l'altra riva sia magnifica, Len? Lo so che non si vede bene, ma tornate a cercare di vederla!"
- Siete divertente! -
"... eh?"
La sua espressione doveva essere abbastanza disorientata, visto che la ragazza aggiunse: - Dico davvero! -.
Almeno, Kyte sperò che la sua espressione fosse disorientata. Se però Len era ancora lì e non era scappata gridando aiuto, allora poteva stare molto relativamente tranquillo.
La vide chinarsi in avanti, un leggero rumore d'acqua, poi le mani bianche che andavano a bagnare i capelli biondi, sotto la fascia, sulla fronte. E notò che le ginocchia erano meno vicine di prima.
Kyte inspirò a fondo.
L'altra riva era davvero magnifica, sì.
Soprattutto, cercare di vederla si stava rivelando un passatempo incredibilmente interessante.

Non erano molte le qualità richieste ad una fanciulla per poter essere ammirata e per rendere orgogliosa la propria famiglia: essere virtuosa, aggraziata, non stupida né arrogante, conoscere le arti più femminili e saperne fare sfoggio senza superbia.
Durante il suo mese e mezzo di prig- residenza presso i duchi di Mirror, Kyte si era più volte chiesto come fosse possibile il suo non aver conosciuto prima una fanciulla tanto spaventosamente perfetta come Lady Len Mirror: viste le sue doti, la sua fama sarebbe dovuta essere immensa; invece il suo nome era sulla bocca di pochi e non si mostrava troppo spesso alle feste.
E non era stata promessa in sposa a nessuno, per quanto i pretendenti - anche ottimi partiti - non le mancassero.
Kyte era giunto alla conclusione che i duchi di Mirror stessero effettivamente conservando la loro unica figlia per richieste di matrimonio da parte di un membro della famiglia reale.
Non si sarebbe spiegato, altrimenti, il motivo per cui una fanciulla tanto bella e aggraziata, che sapeva cantare come poche e che riusciva a suonare al pianoforte anche musiche più difficili, fosse ancora priva di marito.
Eppure, il duca di Mirror non gli era parso una persona ambiziosa e calcolatrice: quando l'aveva incontrato per la prima volta, al pari della moglie, gli era sembrato un uomo normalissimo, senza nulla che spiccasse, anche se privo di quell'aria annoiata che avvolgeva perennemente la sua consorte.
A tutto questo si aggiungeva la stramba scelta di far insegnare a Len una lingua sconosciuta come il giapponese, preferendola ad un ben più sensato francese.
Kyte continuava a non capire. E, per quanto Len gli avesse concesso di chiamarla solo per nome, non poteva ancora osare chiederle direttamente il motivo del comportamento dei suoi genitori - perché sembrava che lei sapesse, che accettasse con serenità tutta quella faccenda.
L'unica spiegazione era la possibilità che uno dei principi la chiedesse in moglie.
Aveva ripensato a tutto quello mentre, dalla finestra della sala più grande, guardava gli ospiti affrettarsi ad uscire dalla casa, verso le loro carrozze: sarebbero dovuti rimanere per cena e per il dopocena, ma il cielo si era annuvolato e, visto il caldo dei giorni precedenti, non era esattamente una cosa positiva.
- Oh, speriamo riescano ad arrivare a casa prima che inizi a piovere! -
- Suvvia, la pioggia iniziale non darà alcun problema! -
- E' un peccato, però... -
- Era ovvio, non hai sentito che caldo, in questi giorni? -
- Lo sai che, quando scoppia una tempesta, la villa è isolata dal resto del mondo... -
Il vociare delle cameriere l'aveva incuriosito, portandolo a far loro alcune domande: aveva scoperto che, sì, se una tempesta rendeva difficili i viaggi, lì rendeva impossibile il percorrere il tragitto villa-paese, causa strada che si trasformava in fiume e vento che, nella zona dei prati, soffiava con infinita più violenza del normale.
Quindi i duchi di Mirror potevano ricevere ospiti solo nelle giornate di sole, o trattenerli lì per più di una notte - la tempesta poteva durare una notte, la strada non tornava agibile in poche ore.
Poi Kyte non doveva parlare di "prigionia". Prigionia con tortura. Ecco cos'era.
Quando finalmente tutte le carrozze furono oltre la linea dell'orizzonte, decise di andare a controllare Len nella stanza accanto: era piuttosto sicuro di averla vista andare lì, da sola, e voleva almeno assicurarsi che nessuno l'avesse rapita.
Certo, avrebbe potuto farlo prima della partenza degli ospiti. Ma rimanere da solo con Len, con tutti i presenti distratti dalle partenze, in una villa prossima all'isolamento, non era una cosa che ambiva.
O meglio, sì.
Ma non poteva permetterselo.
La trovò seduta in ginocchio su una poltrona, con un libro in mano. La cosa lo stupì: il libro era al dritto e non stava impugnando penne, che stesse leggendo?
Accanto a lei, sul bracciolo, stava l'enorme pupazzo che, di tanto in tanto, faceva la sua apparizione tra le sue braccia.
Kyte lo trovava un po' strano, a prescindere dal fatto che non aveva capito che razza di bestiola fosse: un gatto gigante o un orso con orecchie appuntite, con dubbie cuciture rosse che risaltavano sulla stoffa nera e delle X cucite sulla bocca e su un grosso bottone color avorio che faceva da occhio; l'altro occhio era nascosto da una benda rossa a forma di cuore. A completare il tutto, un collarino nero con una rosa blu.
Si era più volte chiesto chi fosse stato così ridicolo - o strampalato - da regalarle un pupazzo del genere. Ancora di più, perché Len se lo portasse spesso dietro.
- Sembrate perplesso. -
Solo in quel momento Kyte si rese conto di essersi soffermato a fissare il pupazzo. Portò la sua attenzione sulla ragazza, ricambiando il suo sguardo tranquillo.
Aveva messo giù il libro: su una pagina, un gruppo di gentiluomini e gentildame era stato provvisto di folti baffi e occhiali rotondi, sia uomini che donne, e posto su uno sfondo pieno di stelle, fiocchi di neve e ghirigori a caso.
"Ah, ecco. Rimira le sue opere. Mi era sembrato strano che stesse leggendo.".
- ... in effetti sì. - sperò di non sembrare troppo scortese: - Non ho mai visto giocattoli del genere. E'... particolare. Mi chiedevo dove l'aveste reperito. -
A quelle parole, Len accarezzò la testa del pupazzo, piano: - Non ne ho idea. - confessò: - Lo trovarono mentre pulivano. E' molto vecchio, probabilmente appartiene a qualche mia bisnonna. Io l'ho preso e l'ho sistemato. Mi dispiaceva lasciare che gettassero qualcosa di così soffice. - sorrise, stringendo il giocattolo a sé.
Kyte tornò a guardare il pupazzo, un sopracciglio inarcato: - Dunque siete stata voi ad usare del filo così poco intonato alla stoffa? -
- Volevo si vedessero le cuciture. - la risposta lo lasciò ancora più confuso: - Cadeva a pezzi, non aveva più una faccia. Volevo si vedessero le sue nuove parti. - la vide posare la testa sulla fronte del pupazzo.
- Ma... - sbattè le palpebre, cercando di capire: - ... se è così, allora non dovrebbe essere fragile? Vi vedo spesso in giro con quel giocattolo, non rischiate che si rompa? -
- Non è più fragile di nessun altro dei miei giocattoli. - Len sorrise: - E poi, non c'è nulla di male a giocare anche alla mia età, no? -
- No... - forse era qualcosa che non poteva capire: - ... direi di no. -
- C'è anche un altro motivo. -
Le rivolse un'occhiata interrogativa.
Len si strinse al pupazzo, il sorriso immutato: - Mi irriterebbe mostrare le mie bambole più belle. -
Kyte annuì, piano: "Beh, ognuno gestisce le proprie cose come meglio vuole..." si ritrovò a pensare.
Un bussare spostò la sua attenzione alla porta della stanza: la duchessa di Mirror stava sulla soglia, qualcosa in mano.
Gli fece un cenno, per poi rivolgersi alla figlia: - Len, è arrivata una lettera. - ecco cosa aveva con sé.
Kyte guardò la ragazza. Sentì qualcosa torcerglisi nello stomaco: quell'espressione impassibile, sul suo volto, stonava più del filo rosso sul pupazzo.
- Il solito? - il senso di straniamento aumentò, quando udì quel tono piatto.
- Direi di sì. -
- Chi? -
- Avanna. -
- Avrò impegni. -
- Come sospettavo. -
- Domani le scriverò qualcosa. -
- Basta che sia entro due mesi, Len. -
- Mi bastano due minuti. -
Quando la signora se ne andò, Kyte si sentì stordito: non sapeva se fosse per l'effettivo botta e risposta o se fosse per il tono freddo di Len.
Non riusciva a capacitarsi del fatto che quella voce fosse uscita proprio dalle labbra della ragazza: mai, in un mese e mezzo, aveva sentito il suo tono farsi meno allegro e trillante, anche nei rari casi in cui si degnava di abbassarlo.
Soprattutto, nei suoi occhi azzurri c'era sempre una luce divertita, incuriosita o giocosa: quello sguardo spento, su di lei, era quanto di più fuori posto potesse esserci.
Non riuscì a trattenersi: - Va tutto bene? -
Una scintilla di vita, uno sguardo interrogativo.
Kyte sentì la tensione scivolare via in un istante, tanto velocemente da lasciarlo scosso: quegli occhi azzurri, quelle sopracciglia alzate, quelle labbra appena schiuse erano quelle di Len.
La ragazza piegò appena la testa di lato, senza mutare espressione.
Kyte scosse la testa, sollevato: - No, niente. -
Non era decisamente una cosa di cui Len avrebbe amato parlare.
Per ora era meglio non chiedere.

Non riusciva a dormire.
Forse la colpa era della pioggia che batteva sulla finestra della sua camera come una tempesta di sassi, o del vento che, più che ululare, sembrava starsi sgolando.
Forse era colpa di quello sguardo azzurro, freddo, impresso nella sua mente, che non gli aveva mai dato tregua fin dal momento in cui si era coricato.
Non aveva mai pensato alla signorina Len come ad una bambola, lei che, da sola, riusciva a dar vita a quell'intera magione smorta; quel pomeriggio, però, era parsa quasi senza vita, una bambola di porcellana dagli occhi di vetro.
Non sapeva se sarebbe riuscito a tacere troppo a lungo: la curiosità lo stava rodendo fino a fargli male, il desiderio di non vedere mai più quell'espressione stava iniziando a farsi pressante.
Si alzò dal letto, prese la candela dal comodino e uscì dalla camera, anche solo per evitare di essere presente nel caso qualche macigno d'acqua riducesse in pezzi la finestra.
Si richiuse la porta alle spalle, indeciso su dove andare: se, da un lato, la cosa non cambiava poi molto, dall'altro sarebbe stato difficile riuscire a tornare lì.
Dopo un mese e mezzo, l'unica cosa che aveva vagamente intuito di quella casa era il fatto che fosse specchiata: in un'ala, le porte erano sulla destra, nell'altra erano a sinistra, così come tutto l'arredamento - unico suo indizio per capire almeno in che ala fosse. Guardando oltre i vetri delle finestre del corridoio, poi, poteva cercare di intuire a che piano si trovasse. Sperare in qualsiasi altra indicazione era pura utopia.
Alla fine, scelse di andare a caso, con tutti i rischi che ciò poteva comportare: al limite, avrebbe potuto impegnare la mente nel disperato tentativo di orientarsi.
L'interno della casa, a parte l'eco delle gocce-sassi sulle finestre, era silenzioso: persino quei pochi domestici del turno di notte si muovevano senza emettere alcun rumore, neppure con le scarpe.
Curioso come l'edificio non riuscisse neppure ad essere cupo, tanto era privo di qualsiasi personalità: non c'era un'atmosfera da storia dell'orrore, i corridoi di per loro non suscitavano la minima inquietudine, neppure le lucine in lontananza che si rivelavano essere le candele dei servitori davano anche solo la vaghissima idea che potessero essere qualcosa di spaventoso.
Semplicemente, i colori erano più scuri del solito e l'illuminazione ridotta portava a camminare più piano. Nient'altro.
Non seppe per quanto tempo camminò a caso, scendendo o salendo scale senza criterio, anche con il rischio di finire nelle vicinanze delle camere delle donne: di rado gli era capitato di provare l'assurda sensazione di aver fatto qualcosa per ore e che contemporaneamente fossero passati pochi secondi.
Non poteva neppure valutare il tempo trascorso in base a quanto gli si fossero congelati mani e piedi, dato che le une erano vicine alla candela e gli altri erano in delle scarpe su un tappeto spesso, rendendo difficile il loro raffreddarsi.
Unica cosa degna d'interesse era stato il vedere un giovane servitore uscire di tutta fretta da una camera da cui, poco dopo, si era affacciata una cameriera sorridente.
Kyte si era ritrovato a sospirare, divertito: erano così presi da loro da non essersi neppure accorti di lui - che non stava facendo assolutamente nulla per nascondersi.
Più volte gli sembrò di essere passato in uno stesso luogo ma, data la conformazione della casa, poteva essere vero o meno.
Se non altro, sentiva la testa un po' più leggera, i muscoli meno tesi. Un po'.
Poi successe.
All'improvviso, delle note basse s'insinuarono nei boati del vento, crebbero d'intensità fino a schiacciare il suono della pioggia battente.
Kyte rabbrividì: era una musica fatta di sole note cupe, i pochi e brevi toni alti, taglienti schegge di ghiaccio, la rendevano ancora più disturbante.
Che lui sapesse, in quella casa c'era un solo strumento capace di produrre suoni simili: il pianoforte. E, a giudicare dalla forza con cui sentiva quella musica, non doveva essere troppo lontano dalla sala.
Strinse la presa sul portacandela, decise di andare a vedere.
Non riusciva a capire perché le gambe gli tremassero, perché il cuore avesse iniziato a battere con più violenza: aveva un vago sospetto di chi potesse esserci in quella sala, non aveva motivo per cui inquietarsi. O, forse, era inquietato proprio perché aveva quel sospetto.
Seguì la musica, fino a ritrovarsi d'innanzi al grande strumento nero, completamente circondato da quelle note basse.
Il suo sospetto si rivelò fondato.
E questo lo fece tremare di nuovo.
Le dita affusolate di Len schiacciavano i tasti, le mani e le braccia rigide, le nocche sbiancate; la bocca era immobile, le labbra non erano incurvate.
Non portava nessuna vestaglia, i piedi erano nudi, i capelli sciolti.
Nel bianco della sua camicia da notte e della sua pelle, era lei a sembrare un fantasma.
Kyte non si mosse, aspettando che fosse lei a fare qualsiasi cosa. Era ovvio che si fosse accorta della sua presenza: non c'era nessun'altra candela oltre la sua, Len stava suonando al buio, prima del suo arrivo.
Quando la musica finì, a Kyte sembrò di prendere una boccata d'aria fresca dopo una lunghissima apnea. Mai come allora il suono di una tempesta gli era parso così bello.
Finalmente, Len si voltò verso di lui.
I suoi occhi azzurri erano brillanti, divertiti.
- Non riuscite a dormire? - la sua voce trillava, le guance bianche si arrossarono appena e le labbra si curvarono in un sorriso.
Quella era Len.
Se possibile, Kyte era ancora più confuso: vederla normale dopo averla vista tanto sinistra era ancora più destabilizzante.
"Possibile che l'abbia sognata...?" scacciò il pensiero: "No, nei miei sogni è nettamente diversa.".
- Temo di no. - rispose, avvicinandosi di qualche passo, illuminandola completamente.
Come sospettava, non aveva i capelli molto lunghi: le ricadevano sulle spalle, morbidi e appena ondulati, ma non sarebbero bastati a coprirle il seno.
Con una punta di sorpresa, abbassando appena lo sguardo, Kyte notò che la signorina era ancora più piatta di quanto sembrasse normalmente. Forse era un poco divertente gioco di luci, ma pareva quasi senza forme.
- Cosa state guardando? -
Trasalì. Era spacciato.
- N... non avete freddo? - domandò, cercando qualsiasi frase di circostanza in grado di salvarlo. E, nel farlo, realizzò appieno di star fissando la signorina, di fatto, in sola biancheria.
Era spacciato.
Quella musica era stata un requiem per lui.
Si voltò di scatto, puntando lo sguardo sul bellissimo e interessantissimo divano dall'altra parte della stanza. Era davvero bello! Non aveva mai visto niente di più bello ed interess-
"Rimanete lì dietro, signorina, vi scongiuro."
E ora non aveva neppure la giacca lunga fino a metà coscia. Era spacciato.
La sentì ridere. Un brivido lungo la schiena.
- No, non ho freddo. -
- Ma... così, senza nient- senza una vestaglia, un matinee, neppure delle scarpe... -
- I matinee s'indossano di mattina. - un'altra risata.
- N-non vi si annodano i capelli, a lasciarli sciolti...? -
- Mai successo! -
Doveva scappare. Forse non sarebbe riuscito a raggiungere la sua camera almeno fino al mattino, ma doveva mettere quanta più distanza possibile tra lui e la signorina.
- E se qualche servitore vi vedesse? E' sconveniente! -
- Mi avete vista solo voi. -
Bella, la candela. Forse avrebbe potuto procurarsi del dolore fisico con quella fiammella. Avrebbe tenuto occupata la mente per un po'.
- Non dovreste girare così poco vestita con degli uomini presenti. - stava impazzendo. In modo molto pesante. La cosa peggiore era che la voce aveva iniziato a tremargli: - Devo dare ragione a vostra madre, quando afferma che, a volte, assumete un comportamento impudico. Al momento siete imprensentabile, soprattutto ad occhi maschili! -
O meglio, a lui era presentabilissima, era quasi quanto di più presentabile potesse essere.
Il problema era il fatto che non fosse una cosa positiva.
- Cosa penserà di voi il vostro futuro marito, se mai saprà che altri uomini vi hanno vista così? Dovreste curare di più la vostra reputaz- -
- Io non mi sposerò. -
Si bloccò.
La sua mente si svuotò.
Eppure si sentiva terribilmente pesante.
- ... prego...? - non riuscì a voltarsi. Sentiva il suo corpo pietrificato, inchiodato al pavimento.
- Non mi sposerò. - la voce di Len era pacata, serafica, in un certo senso. Eppure, riusciva a sentire una nota che non gli piaceva affatto. Era fredda. Con orrore, capì di non volersi voltare: non era sicuro di come sarebbe stato quello sguardo azzurro.
- Che state dicendo...? - cercò di riprendere contatto con la realtà: Len gli aveva appena detto che non si sarebbe sposata.
"Che idiozia è mai questa?" almeno dei pensieri coerenti riusciva a formularli.
- Che mai nessuno mi avrà in sposa. - un fruscio, doveva essersi alzata: - Che non porterò nessuna fede al dito. Che la mia dote non ha senso di esistere. Che ogni mio spasimante sarà rifiutato. -.
Deglutì: "E' uno scherzo, vero?" strinse la presa sul portacandela: "Len ha voglia di scherzare. Non c'è altra spiegazione."
Soltanto, desiderava non lo facesse con quel tono. Si era fatto più basso. Non vuoto, ma troppo calmo.
- Queste non sono cose su cui scherzare. Tanto meno in una situazione del genere. -
- Che situazione? - una nota perplessa nella voce.
Una stretta allo stomaco. Sembrava quasi che Len stesse fingendo, che la vera Len riemergesse di tanto in tanto, solo per dirgli che, sì, era lei e stava dicendo quelle cose assurde con quel tono spaventoso.
- Perdonate la mia indiscrezione. - tacere era stupido, ormai: - Ma per quale motivo dite cose tanto ridicole? Mi rifiuto di credere che i vostri genitori vogliano rinchiudervi in un convento! -
- Fate bene, perché non è affatto loro intenzione fare una cosa del genere. -
- E allora perché? - al diavolo i toni formali: - Vi è stato detto che non potete avere figli, forse? Anche le donne che non possono averne si sposano! -
- Posso avere figli. Sì. - la voce di Len si fece un sussurro. Sembrava quasi stesse parlando più con se stessa: - Potrei averne. E potrei sposarmi, sì. Come ogni brava donna. -
Kyte tacque, incapace di dire qualsiasi cosa.
- Tuttavia, non posso. Sposarmi mi è precluso. - il tono era tornato pacato, con quella nota stonata. Ma se n'era aggiunta un'altra: vibrava appena, era bassa, quasi impercettibile.
Rimase immobile, anche se si sentì lacerare dentro: quella nota era quella catturava la gola, soffocava la voce, la rendeva roca, che faceva arrossare gli occhi e portava le guance a bagnarsi.
Len la stava trattenendo, ma era probabile che avesse almeno gli occhi lucidi.
- Sapete... - la voce della ragazza si era fatta trasognata: - ... la lettera di oggi era da parte di mia cugina Avanna. Si sposa. -
Kyte trasalì.
- Ma ho deciso che sarei andata solo al matrimonio delle cugine con cui ho scambiato almeno qualche frase durante l'ultimo anno. Mia cugina Avanna non ricordo neppure com'è fatta. E dubito lei si ricordi di me. Probabilmente, la sua servitù avrà spedito gli inviti per cortesia. - Len sospirò: - Odio avere tante parenti e conoscenti in età da marito. In questi anni, si stanno sposando tutte. Sia qui che in Giappone, pare. -
Quella precisazione gli fece gelare il sangue: "Gumi... anche lei si sposa... e Gakupo si è assentato per il suo matrimonio..."
Ricordava bene l'abbraccio di Len a Gakupo, prima che quest'ultimo partisse: lei doveva essergli affezionata, se già vederlo partire così a lungo doveva averla resa triste, sapere che si allontanava per un matrimonio...
- Perché? -
- Come? -
Kyte trasse un profondo respiro, la voce finalmente uscì ferma: - Perché questa assurdità? Perché non potete sposarvi? Cos'altro vorrebbero che faceste, i vostri genitori? -
Silenzio.
Strinse i denti, aspettando la risposta. Non riusciva a capire perché stesse tremando: rabbia? Indignazione? Sentirsi preso in giro? Paura? Forse una miscela di tutto quello?
Ma ormai aveva capito che quella casa era un luogo bizzarro. Tanto valeva smetterla di farsi le domande più basilari e cercare di capire.
- In realtà, non è che non potrei mai mai mai mai mai sposarmi! - la voce di Len era un trillo, il suo solito tono, ma Kyte aveva ormai capito che, di lì a poco, sarebbe tornata irreale: - C'è il marito di mia cugina Lily. Se dovesse succederle qualcosa, allora lui mi prenderebbe in moglie. C'era scritto nel contratto di matrimonio e lui ha accettato. Quindi, direi che potrei sposarmi solo qualora succedesse qualcosa a mia cugina Lily. -
- Perché? -
Nella sua mente si fece sempre più insistente l'ipotesi che i duchi di Mirror fossero gravemente disturbati.
"Ma possibile che nessuno faccia qualcosa per impedire questo scempio?"
- Ah... - una risatina: - E' una storia lunga! Rischierei di annoiarvi! -
- Non ho sonno e abbiamo tutto il tempo che vogliamo. - non gli importava più nulla di essere educato. Voleva sapere.
Un altro sospiro alle sue spalle. Un altro fruscio, Len doveva star camminando dietro di lui.
- Siete davvero brutale, stanotte! - sbuffò la signorina, ma il suo tono non era d'accusa, divertito, più che altro.
Kyte non fece una piega.
- Bene, partiamo dall'inizio, come ogni storia vuole! - la sentiva muoversi avanti e indietro, doveva star camminando in cerchio: - C'erano una volta, tanto tempo fa, i miei nonni materni, i duchi di Dewsen. Ebbero ben dieci figli! La cosa curiosa è che soltanto il primogenito, lo zio Al, fu un maschio, mentre le altre nove erano figlie femmine! Mia madre è l'ultimogenita! -
Sì, aveva sentito qualcosa del genere.
- Ovviamente, i dieci figli si sposarono ed ebbero figli a loro volta. Ma... incredibile! - la voce di Len si alzò per un istante, risuonò per tutta la stanza: - Successe la stessa identica cosa che era successa ai loro genitori! Lo zio Al e la zia Ann ebbero cinque figli, di cui solo il primogenito, mio cugino Oliver, è un maschio! Chissà se a fare altri figli uscirebbero altre femmine... - ridacchiò: - La cosa più assurda, però, fu un'altra: tutte le sorelle dello zio Al ebbero solo e unicamente figlie femmine! Trentatrè figlie femmine, in totale! Incredibile, vero? -
- Direi di sì... -
Stentava a crederci. Ma, a pensarci bene, in effetti, non aveva mai sentito di nessun altro giovane duca legato ai Dewsen se non Lord Oliver Dewsen.
- Diciamo che, dopo aver superato le venticinque bambine, si era ormai capito che sarebbero uscite solo femmine. - un'altra risata: - Però, sapete, guadagnare un po' di potere non è una cosa che si rifiuta. -
- Non è certo cosa di cui voi dobbiate preoccuparvi. - sentì la sua voce meno dura: - I duchi di Dewsen sono una delle famiglie inglesi più importanti in assoluto. -
- Lo siamo diventati. - qualcosa di piccolo premuto contro la schiena. Quando Kyte capì che si trattava di un polpastrello della signorina, sentì lo stomaco stringersi in una morsa.
- Ditemi, Kyte... - la voce di Len era anche troppo vicina: - ... cosa fareste, se aveste a disposizione così tante donne, un solo erede maschio e un'incredibile vicinanza con la Famiglia Reale grazie al vostro titolo di duca? -
Kyte ci pensò un attimo. Poi scosse la testa: - Non sono pratico di queste cose. - confessò: - Tuttavia... credo farei in modo di dare in sposa tutte le mie parenti ad uomini di un certo livello per poter avere una vasta rete di appoggi. -.
Una risatina. Troppo vicina.
Il polpastrello divenne una mano, appena premuta sotto le scapole: - Di un livello non eccessivamente alto, però. Altrimenti, sarebbe problematico mantenere il potere su tutti. -
Kyte tacque.
- Stranieri. Tutte le mie cugine sono state date in sposa a stranieri o a persone che hanno forti legami economici con un paese straniero. Mia cugina Avanna mi pare andrà in sposa ad un irlandese. Per questo credo abbia studiato la lingua e la cultura irlandese. -
Kyte sgranò gli occhi, iniziò a capire.
- Le sorelle di mio cugino Oliver sono le uniche sposate ad un qualche rampollo del Regno Unito. - rise: - Del resto, sono le più vicine al nostro caro cugino. Le uniche che, in caso di estrema necessità, potrebbero sostituirlo. Ma non succederà: sappiamo tutte che il nostro caro cugino arriverà molto in alto. Sappiamo che gli zii ambiscono a vederlo, come dire, al vertice. -.
Non era una novità: qualsiasi famiglia nobile, soprattutto se tanto potente, avrebbe colto al volo l'occasione di potersi legare alla Famiglia Reale. O di entrare a farne parte.
Che i duchi di Dewsen mirassero ad una cosa simile non era poi così incredibile. Sentirlo confermato da Len, però, aveva un certo impatto.
La cosa che più gli premeva, tuttavia, era un'altra.
- Dunque, così facendo, vostro cugino avrebbe l'appoggio di... beh... il mondo intero. -
- Esattamente. - un'altra mano andò a posarsi accanto alla prima: - Ognuna di noi è stata assegnata ad un determinato Paese. Le figlie delle zie più grandi hanno sposato degli europei, le altre qualcuno di altri continenti. Le cugine più piccole sono le "riserve" delle più grandi: se dovesse succedere qualcosa ad una delle nostre cugine, un'altra, con il proprio marito, prenderebbe il suo posto. Io sono la riserva di mia cugina Lily: siamo state assegnate al Giappone. -.
"Ecco perché! Ecco perché la signorina studia una lingua e una cultura così distanti!"
Per assurdo, la cosa acquisiva un suo senso.
Tuttavia, c'era ancora un tassello mancante.
- Le "riserve"... - esordì, piano: - ... devono sposare i mariti delle cugine che dovrebbero sostituire? -.
- Affatto. - delle braccia lungo la schiena, sotto le mani, gomiti contro la vita: - L'ho detto: con il proprio marito. Ognuna delle mie cugine andrà in moglie ad un uomo diverso. Loro possono sposarsi, io no. Io sarei soltanto una pezza per non perdere i contatti con il Giappone. -.
"Ridicolo." e quelle mani lo stavano distraendo. Le sentiva muoversi piano, come un leggero massaggio che, invece di rilassarlo, lo faceva irrigidire ancora di più.
- Non mi avete risposto, però. - le fece notare, accorgendosi con una certa inquietudine che la sua voce era uscita spezzata. Dannate mani morbide. E calde. E dannate dita affusolate. Tutte e dieci.
Si mossero, il cuore ebbe un sussulto violento.
"Non volevo offendervi, mani!"
Le sentì scivolare lungo i fianchi, riunirsi sulla pancia, sentì la fronte di Len premuta contro la schiena.
E si sentì prossimo alla defunzione, perché la signorina avrebbe fatto bene a non abbassare le mani neppure se ne andasse della sua stessa vita.
- Dunque non vi siete accorto. -
- ... eh? -
Non si sarebbe potuto girare neppure volendo: era paralizzato.
- ... devo essere davvero bella. -
Kyte recuperò un po' di contatto con la realtà: la voce di Len era malinconica. Strana da sentire su di lei, ma molto più naturale di quel tono inquietante.
Inspirò a fondo: - Sì. - disse, soltanto: - Lo siete. -.
La sentì sospirare, la testa si spostò appena.
Qualcosa gli disse che Len non avrebbe aggiunto altro.
Stranamente, non si sentì irritato: sentiva più una sorta di generica pesantezza, l'idea che poteva bastare così.
Per il momento.
- Ho fame. -
Quel trillo lo scosse, riuscì a ricordargli di avere Len abbracciata con la stessa delicatezza di un pugno di ferro in piena faccia. Quando si ricordò che Len era anche in sola biancheria, gli parve gli fosse arrivata una ginocchiata di ferro anche ne-
- Quindi andrò a prendermi delle banane. -
La sentì staccarsi e trotterellare via, con la sua solita velocità.
Non riuscì neppure a percepire quel freddo improvviso, perché una cascata di pensieri disparati gli aveva invaso la testa: - A-aspettate! - le corse dietro: - Non avete una candela! -
- Conosco la casa! -
- Le banane vi fanno male, a quest'ora! -
- Voglio le banane e avrò le mie banane, ora! -
- Ma non possiamo svegliare la cuoca per farvele sminuzzare! -
- Allora le mangerò intere! -
- NO! -
Era spacciato.

La tempesta si era placata alle prime luci dell'alba, per poi riprendere poche ore dopo, se possibile, con maggiore violenza.
Kyte lo sapeva con assoluta certezza perché aveva dormito poco e male.
Da un lato, le parole di Len continuavano a rimbombargli nella testa: le cose avevano assunto un loro senso, ma quella risposta mancante le rendeva inutili, senza alcun valore; non gli importava niente dei piani del duca Al di Dewsen o del motivo per cui Len dovesse imparare il giapponese, voleva capire perché le fosse negato il passo più importante nella vita di una donna, perché fosse costretta in una magione anonima senza poter avere alcun uomo al proprio fianco.
Qualunque fosse la risposta, aveva capito soltanto che Len l'aveva accettato, ma non serenamente.
Dall'altro lato, i suoi incubi si erano fatti ancora più dolorosi: ormai aveva chiaro l'aspetto della signorina con i capelli sciolti, conosceva meglio la sua corporatura e si era arreso all'idea che fosse piattissima; per questo la sua mente aveva prodotto immagini molto più vivide.
Come se non bastasse, Kyte aveva ricondotto Len alla propria camera, quella notte - e si era premurato lui stesso di triturarle le banane talmente tanto da portarla a mangiarle con un cucchiaino. Aveva seriamente rischiato la sua sanità mentale.
L'essersi pienamente reso conto di essere stato, di notte, davanti alla camera della signorina, da solo con la signorina e con la signorina in sola biancheria era stato il colpo di grazia.
Quindi Kyte aveva trascorso la notte alternando momenti di doloroso incubo a profondi quesiti circa la possibilità che il vento sradicasse il tetto della casa.
Non doveva essere stato il solo a pensarlo dato che, per tutta la mattinata, l'edificio si era riempito di voci più o meno alte, cameriere che correvano da un lato all'altro della casa e porte che sbattevano nonostante tutte le finestre chiuse.
Nel bel mezzo della lezione - o meglio, circa dieci minuti dopo l'inizio della lezione -, Len si era alzata e aveva chiuso la porta della stanza, isolando tutto quel caos oltre il legno; si sentiva ancora un forte vociare, ma molto meno irritante di prima.
Tuttavia, i buoni propositi di fare lezione svanirono dopo mezz'ora sia dalla sua mente che da quella di Len: erano le dieci del mattino ma, data l'oscurità generale e il fatto che stavano cercando di leggere e scrivere a lume di candela, sembravano almeno le dieci di sera.
Inoltre, se la confusione degli abitanti della casa giungeva ovattata, quella stanza era comunque provvista di finestre che la pioggia era ben felice di martellare.
- Per oggi, la lezione è sospesa. - si arrese Kyte, con un sospiro: - Non si può studiare in un ambiente del genere. -
- Infatti... - annuì Len.
- Questo significa che avete la mattina libera. Impiegate il vostro tempo come meglio credete. -
- Hai! -
Kyte si voltò verso la lavagna, pulendola con cura, con estrema cura, con cura maniacale, premurandosi di passare almeno trentacinque volte nello stesso punto. Sperava che la signorina sentisse l'improvviso ed impellente desiderio di andare in un'altra stanza, una qualsiasi altra stanza: sarebbe volentieri scappato lui, ma la sua mente era del tutto vuota, senza neppure una misera scusa disponibile. Fuggire sarebbe parso sospetto.
Quando osò girarsi per controllare cosa stesse facendo Len - anche solo per accertarsi che non avesse deciso di trasformare tutti i fogli ricoperti di kanji in barchette o coriandoli -, la trovò seduta in ginocchio sul divanetto poco distante, un libro in grembo, una penna in mano. Si rilassò: stava solo pasticciando un libro. Tutto nella norma.
Poi notò un particolare: Len aveva spento la propria candela, abbandonata sul tavolo pieno di fogli e libri.
Perplesso, prese la propria candela e la raggiunse, illuminando le pagine imbrattate di inchiostro: stava sottolineando tutte le frasi, ricoprendo l'intero libro di righe orizzontali.
- Sforzate la vostra vista, così. - le disse, esitante.
Len alzò la testa, guardandolo negli occhi: - Sono abituata a fare le cose al buio. - sorrise: - Se però volete farmi un po' di luce, non rifiuterò di certo! - il suo sguardo si spostò sullo spazio vuoto accanto a lei.
La stretta sul portacandela si fece quasi dolorosa. Ma non avrebbe avuto alcun motivo di rifiutare - o meglio, ne aveva uno e pure validissimo, ma era meglio che Len non lo sapesse.
Con un sospiro - più per allentare la tensione che lo stava irrigidendo che per esasperazione -, Kyte le si sedette accanto, attento a non rovinarle l'ampia gonna blu - lo stesso vestito che indossava la prima volta che l'aveva vista.
- Non potete delegare al vostro precettore temporaneo il ruolo di candela. -
- Il mio precettore temporaneo potrebbe anche rifiutarsi. -
- Il vostro precettore temporaneo sarebbe molto maleducato, se facesse una cosa del genere. -
- Allora il mio precettore temporaneo non dovrebbe neppure dirmi che non posso relegarlo a candela! -
Quel broncio. Di nuovo.
Era spacciato.
Rabbrividiva e non per il freddo. Più cercava di scacciare dalla mente la consapevolezza di essere da solo con lei in una stanza semibuia e isolata, più quella consapevolezza cercava di invadergli la mente.
Inspirò, piano, cercando di calmarsi. C'era riuscito per oltre un mese e mezzo, poteva riuscirci anche in quel momento, no?
- D'accordo, basta così. - con un rumore sordo, il libro fu chiuso.
Vide il sorriso allegro di Len. Poi lei soffiò sulla candela e l'oscurità calò nella stanza.
Era spacciato.
O, forse, il non vederla avrebbe migliorato la situazione.
Sì, doveva essere così.
- Ora siamo al buio completo. -
- Sì! - trillò Len, la vide chinarsi e posare il libro a terra: - Non è d'atmosfera? C'è chi si gode il canto degli uccellini e chi i suoni di una tempesta! In fondo, siamo al riparo, che male c'è? -
- Confesso di non essermi mai soffermato ad ascoltare i suoni della... - la voce gli morì in gola: aveva visto Len chinarsi?
Con orrore, notò la debolissima luce esterna del mattino: oscurata dalle nubi nere, ma presente. Era quella a dare un alone grigio alle cose, anche solo illuminandone un lato, un profilo, cose che poi si tingevano completamente di un bianco accecante per pochi istanti, ad ogni lampo.
Un nodo alla gola.
Doveva andarsene da lì. Alzarsi e andarsene, anche senza scuse. Doveva farlo.
Qualcosa sul petto.
Abbassò lo sguardo, incontrò quegli occhi azzurri.
- Avete paura dei tuoni? - domandò Len, la voce un sussurro.
Kyte scosse la testa, sentì i muscoli del collo tirargli: - No. No, non ne ho paura. -
- Siete pallido. - mormorò lei. Il suo tono sembrava preoccupato.
Doveva andarsene.
Sentiva la gola secca. E non riusciva a deglutire.
Vide qualcosa di candido, lo sentì posarsi su una guancia, un leggero odore d'inchiostro. Una mano, l'altra ancora ferma all'altezza del cuore.
- Sicuro di stare bene? - la voce di Len era esitante: - Non fingete di non temere i tuoni, se non è vero. -.
Coprì la mano sul viso con la propria.
Era calda, la pelle era morbida.
Voltò appena la testa, premette le labbra contro il palmo.
Andava bene così. Bastava così.
Scostò appena la bocca, incontrò lo sguardo dell'altra: - Dovremmo aprire la porta. -.
La vide piegare appena la testa di lato, le ciocche bionde le sfiorarono una spalla, negli occhi una luce incuriosita: - Perché? -
Continuava a sussurrare, come se non volesse farsi sentire neppure da lui.
- Temo che... - mormorò, a fatica. La sua voce usciva spezzata: - ... qualcuno potrebbe pensare male. -.
Pensare male.
Ciò che lui non aveva mai smesso di fare.
"Sono davvero una persona indegna."
E, guardando il viso dolce di Len, se ne convinse ancora di più.
La vide abbassare appena le palpebre, curvare le labbra in un sorriso pacato.
Sarebbe bastato davvero poco.
Era disonesta a sorridere con quelle labbra ad una spanna di distanza.
Un fruscio di stoffa.
Un altro. E un altro ancora.
E delle ginocchia premute contro i fianchi, la mano che era risalita fino alla spalla, il bordo della tournure che gli sfiorava le ginocchia; le ciocche bionde che gli accarezzavano il viso, e quelle labbra morbide sulle sue.
Troppo caldi, troppo reali per essere l'illusione di un sogno.
Non c'erano neppure petali che cadevano dal soffitto, bolle di sapone, lamenti o parole.
Afferrò il nastro nero, lo tirò fino a sentirlo cedere, lo lasciò cadere a terra. Andò alla nuca, approfondì il bacio, insinuò le dita tra i capelli sciolti.
Sentì Len trattenere il respiro, sentì le dita serrarsi sulla sua spalla, solo per un attimo; sentì poi la presa allentarsi, sentì le labbra schiuse accennare un sorriso, la sentì ricambiarlo, con meno foga, ma senza esitazione.
Liberò la mano candida sul viso, portò la propria in basso, fino a sentire la stoffa liscia della sua calza. Risalì lungo il ginocchio, scivolò sotto il merletto nero dell'orlo - la sentì scossa da un tremito.
Trina, una trina e un nastro liscio che le avvolgeva la coscia, che divideva la calza dalla porzione di gamba scoperta, più calda delle mani. Superò la giarrettiera, accarezzò la pelle nuda, le dita sfiorarono il pizzo della biancheria.
Stava andando a fuoco dall'interno, sentiva scariche ovunque. Forse era stato preso in pieno da un fulmine.
Se ne sarebbe fatto una ragione.
Strinse la stoffa della biancheria, risalì fino ad incontrare l'opposizione della gabbia di cinghie che sosteneva la tournure. La oltrepassò, la stoffa del vestito scivolava lungo il dorso della mano, il palmo, con un certo disappunto, era costretto ad accarezzare quell'odiosa corazza fredda e dura attorno al busto.
Irritante.
Gli stava precludendo qualcosa di ben più piacevole da toccare.
Alzò appena il braccio, con limitata delicatezza, per far sì che quell'ammasso di stoffa non si strappasse. Non era sicuro che, nel caso, si sarebbe trattenuto dal completare il disastro.
Afferrò una coppa del corsetto, fece scivolare le dita al di sotto. Qualcosa di soffice premeva sulle nocche.
Riprese aria qualche secondo, allibito: "Imbottitura...?"
Dunque Len era piatta con tanto di imbottitura.
Aprì del tutto la mano, accarezzò il petto, sotto la coppa, fino a sentire le dita toccare le clavicole.
Esitò: sopra, le clavicole; sotto, la curva del corsetto. In mezzo, per quanto caldo, non c'era niente.
Con una certa inquietudine, potè riconoscere come lei fosse la donna più piatta che avesse mai toccato.
Ma, del resto, qualche difetto doveva pur averlo, o sarebbe stata troppo perfetta.
Lasciò scivolare la mano verso il basso, seguendo la forma dell'odiosa corazza, verticale lungo il busto, incurvata sulla vita, verso l'interno, per poi lasciare la stoffa della biancheria a coprire la curva verso l'esterno dei fianchi, trovando il vuoto.
Esitò di nuovo: per quanto il corsetto fosse della misura giusta, i fianchi erano dritti, non completavano la curva di quell'aggeggio che le fasciava il corpo, creavano una piccola zona di vuoto tra la punta del bustino e la biancheria.
"Ma che...?"
Stentava a credere che Len fosse davvero priva di forme: non aveva seno, non aveva fianchi.
Fece scivolare la mano dietro, alla base della schiena, trattenendosi dal sospirare di sollievo nel trovare finalmente una curva.
"Almeno qualcosa l'ho trovato.".
Una violenta fitta tra le gambe gli ricordò che non c'era più tempo: non ce n'era mai stato molto, in quel momento più che mai non poteva permettersi di perdere anche un solo secondo.
Riportò la mano davanti, sotto le cinghie della tournure. Scese, accarezzò la biancheria, scivolò in bas-
...
... ora.
Per svariati anni aveva messo le mani sotto le gonne delle gentildame, ormai poteva dire con una certa sicurezza di sapere cosa aspettarsi quando le dita arrivavano in quelle zone.
La mano toccava qualcosa di morbido - e umido, possibilmente.
In quel momento, c'era un problema.
Perché la sua mano non stava toccando qualcosa di morbido.
Stava toccando qualcosa che, teoricamente, non si sarebbe dovuto trovare sotto la gonna della signorina - o meglio, sì, si sarebbe dovuto trovare, ma l'idea era che il suddetto qualcosa fosse uno solo e di sua proprietà.
Forse stava delirando.
Forse era un sogno degenerato nel più assurdo dei modi.
Scostò il viso da quello di Len, esitante.
Forse era un'imbottitura. Forse la signorina l'aveva messa appositamente per prendersi gioco di lui. Forse la signorina era una gran burlona.
A giudicare da come gli aveva artigliato la spalla e dal mugolio che aveva appena sentito, probabilmente no.
"Ma... non dovrebbe... lei non dovrebbe..."
Una secchiata di acqua gelida.
Niente seno. Niente fianchi. E-
- Len... - un pigolio. Non se ne curò.
C'era un problema, sotto quella gonna.
- ... voi... siete... una donna... vero...? -
Un altro mugolio. Forse era meglio togliere la mano da lì.
Quando lo fece, osò guardare Len negli occhi: lucidi, divertiti.
Un sorriso sulle labbra, troppo tranquillo, soprattutto in un momento in cui avrebbe dovuto arrabbiarsi, gridargli contro o anche solo mettere il broncio per le ridicole parole che aveva appena dett-
- Voi che dite? -
"..."
Deglutì.
"..."
Il sangue si gelò.
"... cazzo.".
Dei brividi lungo le braccia, molto poco piacevoli.
Afferrò le spalle di Len, la fece ricadere al suo fianco, con uno sbuffo della gonna, strappandole un'esclamazione di sorpresa.
- Perdonatemi, Len. - la voce gli uscì in un ansimo, il calore si era trasformato in gelo: - Mi sono appena ricordato di avere un impegno urgentissimo! Mi stupisce proprio che me ne sia dimenticato, tanto è importante! Perdonate i miei metodi bruschi, ma devo assolutamente essere presente tra meno di cinque secondi, è un impegno molto importante! -
Scattò in piedi, lo sguardo individuò la porta ancora chiusa - dov'era la candela? Quando se n'era liberato? - e, nel cercare di raggiungerla, sentì un dolore acuto all'altezza del ginocchio - il divanetto non era l'unico pezzo di arredamento della stanza.
Abbassò la maniglia, gettò lì un: - Impiegateilvostrotempocomecredete! - e scappò.
Quando fu abbastanza lontano - o meglio, quando si ritrovò a collassare contro un muro, senza più aria, con le gambe ridotte a cose tremanti a cui sostenersi a stento -, si portò una mano al cuore impazzito, la mente martellata da un unico pensiero.
"Cazzo. Cazzo. Cazzo. Cazzo!"
Pessima scelta di termini.





Note:
* Setsugetsuka è, ovviamente, un riferimento alla canzone omonima.
La Setsugekka è una complessa tematica artistica (di pittura e poesia) giapponese che, riassumendo in modo estremamente brutale, vede la bellezza assoluta racchiusa nella triade neve-luna-fiori (di ciliegio), sia di per loro che come simboli (delle stagioni, ad esempio).
Setsugekka significa letteralmente "neve, luna, fiori", mentre il titolo della canzone Setsugetsuka significa "fiore della luna effimera".
... tuttavia, pare che Setsugekka si possa effettivamente traslitterare Setsugetsuka - anche se i kanji di questa e del titolo della canzone sono differenti (ad eccezione di quello di "luna").
Non se sia effettivamente così o meno, ma questo è quanto. (!)
(Comunque, c'è anche una bella canzone dei Kagamine che si chiama Setsugekka. *Visto che è Len a tirare fuori il discorso, volevo dirlo. (?)*)
* Kaito e i Borgia. Un biscotto virtuale (?) cadrà dal cielo a chi indovina il riferimento.
(Colpa di Tayr Soranance Eyes che, quando le narrai la trama, fece all'incirca quelle battute.)
* Sì, l'abito che Len indossa nella scena del lago è quello di Fate: Rebirth - con la gonna opportunamente allungata come si conveniva all'epoca. *Ma tanto si scopre comunque.*
* Vorrei ricordare che la storia è ambientata nell'epoca vittoriana - il che significa che la mentalità è, ovviamente, molto diversa da quella attuale.
Ciò vale anche per il pudore - il celeberrimo pudore vittoriano, quello talmente opprimente da portare chiunque a pensare sempre a ciò che "non si sarebbe dovuto pensare", fino a trovare porno anche le gambe dei tavoli e i petti di pollo (non sono eufemismi).
In particolare, le gambe femminili nude erano viste come un tripudio di erotismo.



... mi sto tutt'ora chiedendo cosa io abbia scritto.
No, non la parte lista-della-spesa-arancione-smorto - l'avevo detto di essere incapace in scene del genere. Ma era necessaria per la trama. Ecco.
... credo che la parte iniziale del capitolo sia la più grande boiata che abbia mai scritto. *Ancora si pone domande.*
Per il resto...

Su con la vita, Kaito-nii! *O*/
Guarda, per tirarti su di morale, Len ti canterà una bellissima canzone! (Che è anche quella che ho ascoltato a ripetizione durante le pause di scrittura, il che potrebbe forse spiegare tante cose...)
Sì, immagino lo stupore di questo grandissimo colpo di scena del tutto inaspettato - per Kaito, sicuramente.
Ebbene sì, la signorina Len non è poi così tanto signorina.

A questo punto, tante (?) domande rimangono aperte (?): perché Len si spaccia per una ragazza? Perché nessuno ha avvertito Kyte? Dov'è finita la candela? (A questo vi rispondo ora: sul divano.) Ma soprattutto: perché Kyte fa sogni del genere? (Ma questa è una domanda di cui è meglio non conoscere la risposta.)

Augurandomi di non avervi fatto eccessivamente wtf?are (per l'idiozia dilagante), spero che questo capitolo vi sia stato di gradimento. ^^
Se ci sono critiche o consigli - soprattutto per ciò-che-più-di-tutto-è-palese-io-debba-migliorare -, dite pure. ^^
  
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