Ricordo ancora come iniziò la fine, sì se la
ricordo.
Non è molto difficile, rammento tutto, ogni dannato
giorno, quasi fosse un orrido incubo da cui è faticoso svegliarsi.
Da poco avevo compiuto i trecento anni, e, come sempre, il
passare del tempo mi riempiva di ulteriore nostalgia
rabbiosa.
Ormai tenevo stancamente il conto degli anni, il
calendario serviva solo per il mio compleanno.
Per ricordare che, evviva, grandi festeggiamenti, avevo un anno in più: un anno sprecato in giro per il
continente senza concludere nulla.
Erano passati quasi cinquant’anni, ormai, ed io
ancora vagavo, disperata.
Di Chekaril nessuna traccia.
Nulla, nemmeno il più flebile sospiro
d’indizio, nulla a dirmi che ancora andavo avanti per qualche motivo.
Tutto quell’inutile viavai era stressante.
Fosse stato per me, il tempo sarebbe completamente sparito
dal mio modo di pensare, ma avevo bisogno di regole e schemi familiari.
Altrimenti, avrei cominciato a girare in tondo come un
misero animale in gabbia, e quello che restava del mio senno sarebbe andato a
farsi una lunga vacanza, sicuramente molto lontano da me.
Non avrei mai più trovato Chekaril. Vivo, o morto.
Non importava: la mia missione era ritrovare il Principe.
L’avrei portata a termine a qualunque costo.
Ormai, quella era l’unica cosa che mi restava. Tutto
il resto era ormai perduto.
Non potevo tornare alla mia città, alla mia vita di
prima.
Non ero altro che feccia della
feccia. Uno scarto, un rifiuto messo in un angolo.
I miei compagni di un tempo non avrebbero più accettato
la creatura ferita che ero. Non avrei riacquistato il potere che avevo. Né la mia ricchezza, né i miei affetti.
Che cosa avrei fatto, cominciato a mendicare? Gli elfi non
si abbassano a fare questo, mai.
No.
Non potevo fare altro che andare avanti, trascinarmi,
bestia ottusa, nel tentativo di portare a termine la mia missione o morire nel
frattempo.
Non sapevo quanto senso avesse andare alla ricerca di un
principe scomparso da tempo, ma non potevo smettere di
raccogliere briciole e renderle polvere tra le mie mani.
Amavo troppo il ricordo di me, di Chekaril, ci tenevo
troppo a sapere che, dopotutto, avevo ancora qualcosa da fare in quel mondo.
Ciò che il mio sterile girovagare significava me lo
rendeva la più forte tra le droghe.
E, perciò, andavo avanti, senza sapere cosa il
domani avesse in serbo per me.
Quando tutto cambiò io non
me ne resi conto.
Era un giorno gelido, come ne possono capitare tanti, in
primavera.
In quel periodo, i miei viaggi senza inizio né fine
mi avevano spinta nella città di Zakadi.
Non era, la mia, una scelta casuale: era la capitale
dell’omonima Repubblica, un assurdo crocevia tra il Regno degli elfi, e
l’Impero umano.
Ogni cosa, merci, informazioni, persone, doveva
assolutamente passare per quella ragnatela così strategica, quel morbido
cuscino da strapazzare quando l’odio verso il nemico si faceva troppo
forte.
Semmai ci fossero state nuove del mio dolce Chekaril, le
avrei trovate lì. Sicuro.
Andare a Zakadi era il mio modo
di ricominciare dopo una falsa pista.
In fondo, ero stata per molto tempo lontana da quel
reticolo dannato, e le cose potevano essere cambiate.
Era il mio modo di darmi coraggio.
Di rimettere insieme, col più fragile dei collanti,
i pezzi che erano rimasti di me dopo l’ennesimo vicolo cieco, per
illudermi ancora di essere intera, di essere forte e coraggiosa e di non
abbattermi di fronte a niente.
Da lì io potevo ripartire con un motivo per andare
avanti.
E poi, quella città mi è sempre piaciuta. Una
patria senza patria.
Era, ed è ancora, caotica ed eterogenea, il cuore
impazzito di un luogo senza motivo e senza senso, come me.
Dovunque e comunque c’era caos, passaggio, tutto
arrivava e se ne andava senza mai restare.
Zakadi, città
di tutti e di nessuno, luogo di ladri, mercanti, profughi, viaggiatori, mendicanti,
mercenari e soldati.
Non si poteva varcare il confine senza passare per le ben
poco severe reti della brulicante città, che tutto lasciava ma che tutto
ascoltava!
In quei tempi vacillanti passare per i ponti sul fiume di
confine non era possibile. Né tantomeno varcare le
montagne, un’impresa disperata anche per noi Spie.
Tutto, dunque, passava da Zakadi.
Oh, quel luogo era una vera e propria miniera di informazioni: difficile che qualcuno non si lasciasse
sfuggire un seppur minimo commento su qualcosa.
E lì, anche i muri avevano orecchie.
Non per nulla Zakadi è
sempre stato il pozzo preferito dalle Spie.
Pullulava di informatori ,
ufficiali e… diciamo più informali. Famiglie che da generazioni
servivano le Spie.
La mia fonte preferita, e la più affidabile, era
Junielle, la tenutaria di uno dei tanti bordelli del
luogo.
Era il nucleo della fitta rete di cui noi Spie ci servivamo per carpire informazioni.
Fedele e puntuale, non mi aveva mai tradita,
e ciò che diceva lei era sempre la verità. Quello che lei diceva era verità pulita e di prima mano. Roba di
qualità sopraffina.
E, ovviamente, le mie visite non
erano mai completamente mirate alla mia missione. Qualche volta avevo bisogno di
Junielle.
Da lei trovavo anche protezione, e conforto quando il fardello
della mia mostruosità, e del mio fallimento, cominciava a ridiventare
troppo pesante.
Ogni volta tornavo da lei, a lamentarmi
dell’ennesima pista sbagliata, a piangermi addosso.
Potrei chiamarla quasi amica, se non fosse di rango
così spiccatamente infimo.
Lei, in fondo, era solo una misera informatrice, ed io una
Spia. Per quanto decaduta e piuttosto inutile, potevo
ancora fregiarmi del nome di Ombra. Beh, così andava il mondo.
Però io mi fidavo della buona
Junielle.
Solo lei ed il mio Fratello di Maestro,
l’elfo che è stato cresciuto con me dalla stessa persona, avevano
visto il mio viso senza maschera.
Ma, mentre non avrei mai più
avuto il coraggio di presentare la mia brutta faccia da mio fratello, che mi
aveva visto in troppe occasioni miserevoli e pietose per non compatirmi, dalla
mia amica io tornavo sempre.
Fisso, ad intervalli regolari, mi
rifugiavo da Junielle quando non ce la facevo più a parlare con la mia
ombra.
Quello era uno di quei momenti.
Fu facile per me entrare in città: non c’erano
guardie, a parte alcune sentinelle che vigilavano sull’ordine cittadino.
C’era d’altronde un caos assurdo, troppo per poter
controllare ogni singolo viaggiatore.
Un po’ me ne dispiaceva. Dopo l’aver tutte le
porte spalancate, essere Spie significa anche saper eludere ogni barriera.
Ho sempre considerato queste due cose dei piaceri molto
seducenti. Specialmente l’ultimo, mi divertiva da impazzire trovare il
metodo per accedere di soppiatto in qualche città fortificata.
L’unica piccola pecca di Zakadi,
dopotutto. Non poteva essere perfetta.
Dopo aver superato le mura, mi ritrovai nell’enorme
via principale, la strada che per pareti aveva locande e mercati.
Via maestra uguale un fiume di
gente.
Era così bello essere in mezzo alla folla senza
essere seppur minimamente calcolata.
Non potevo però reprimere un certo senso di
disagio.
C’era tantissima gente, di
ogni etnia e quasi ogni razza. Troppa gente.
In fondo, avevo passato mesi e mesi
in quiete e solitudine, tutto quel vociare mi dava alla testa, me la faceva
girare, mi ubriacava.
Ma, tutto sommato era un vantaggio.
Quella stessa fiumana spaventosa mi proteggeva dagli sguardi indiscreti. Mi
mescolavo egregiamente ai profughi ed ai derelitti.
Lasciai però ben presto quell’enorme strada
lastricata e confusa. Ben altri erano i luoghi che mi aspettavano.
In un certo verso, ben più
affascinanti.
Il mio obiettivo erano i luridi, tortuosi vicoli della
città antica, angusti e bui, contornati da enormi e cadenti palazzi in
tufo e argilla, che incombevano con la loro presenza,
oscurando il sole.
Quello si che era lo spirito di Zakadi, la sua vera anima sporca. Per una persona perbene,
diciamo un profugo medio, quelli erano luoghi proibiti, in cui mettere piede
solo per farsi uccidere.
Lì abitava la chiassosa melma mai dormiente, altro
che bravi mendicanti. Ad ogni ora del giorno o della notte si potevano osservare
spettacoli d'ogni genere.
Trovavo quei posti marci molto più consoni al mio
modo di vedere le cose. Chi stava sotto stava sotto, chi era più in alto
dominava ed angariava com’era giusto che fosse.
Chi non sapeva tenersi il posto, pagava. Chi sapeva salire,
saliva. Punto.
Sapevo benissimo qual era il mio posto, e rispettavo le
regole che ben conoscevo.
Ehi, è da quando ho raggiunto la piena
maturità che non sono una persona pulita.
Impressi a fuoco su di me ci sono anni da persona
malfamata.
Criminali, intrighi, omicidi: ci sguazzavo dentro a mio perfetto agio. Quella era stata la mia lunga vita.
E poi mi sentivo molto meglio lì che in quel
vialone maledetto e mondano.
Chi mi incontrava e mi notava,
notava quel verme strisciante tra le sue amiche ombre, generalmente non aveva
la reazione che di solito riscontravo.
Niente facce disgustate e pietose.
Semplicemente, un prudente, e dolce, cambio di strada.
Essere un miserabile, immondo verme non significa essere
sciocco. Nessuno di loro lo era.
Mi diressi così con calma, senza intoppi, verso il
mio obiettivo primario.
Il bordello di Junielle: il peggior posto tra i peggiori,
un'antica casa a tre piani, ridipinta malamente di un rosso osceno e
squillante, un colore ormai quasi scrostato, che comunque mi faceva
dolere gli occhi.
Ai lati dell'uscio due cumuli di sporcizia,
mezzo, sudicio ma efficace, per dissuadere anche il mendicante
più disperato dall'eleggere quel posto come dimora temporanea.
La casa era illuminata sempre a giorno. Perfino a porte
chiuse, si sentiva la musica, sinuosa e sensuale, ed
un odore che io ho sempre odiato: un misto nauseante di oppio, profumo e
lerciume.
Dei, quanto odiavo quel luogo.
Lo detestavo profondamente già quando ero ancora la
giovane Ombra.
Com’era squallido, e
scontato, e orribile. Fatto sta, quel luogo tremendo attirava un sacco di
gente. Ancora mi chiedevo il perché.
Insomma, il motivo mi è piuttosto chiaro, ma….accidenti.
Un po’ di senso estetico, un minimo di
buongusto… no?
Sbuffando, bussai all'ingresso principale, una porta di
legno scuro e massiccio.
Era tardo pomeriggio, un orario assai insolito per la
maggior parte dei clienti, e perciò aspettai più a lungo del
normale.
Finalmente, la porta si socchiuse, il minimo per far
passare un viso che conoscevo.
Il portinaio, con la sua aria stanca ed
annoiata, da uomo di mondo, non appena vide il fantasma che io ero, divento
pallido come un lenzuolo, e sgranò gli occhi.
Venivo sempre a sorpresa, generalmente nei momenti meno
opportuni.
E poi a quell’elfo, Fran,
non ero per niente simpatica.
Mi temeva, e profondamente: ne aveva ben donde, a pensarci
bene.
Quando era stato appena assunto, prima che mi riducessi in
quel modo orrendo, aveva osato impedirmi di entrare.
Junielle non era arrivata in tempo per fermare il mio
coltello, che avevo infilzato ben bene in una delle sue mani, inchiodandola al
tavolo.
Un po’ brutale, forse, ma quella lezione gli era
stata d’aiuto, più di mille lavate di capo.
Da allora, Fran mi obbediva
ciecamente.
Ah, quanto amo certi metodi di apprendimento. Son sempre i
migliori.
Vidi, con immenso piacere, il portinaio deglutire con
difficoltà, per poi prendere un bel respiro.
La porta si aprì leggermente. Dovevamo solo
sbrigare certe pratiche e poi sarei entrata senza problemi.
"cosa
volete?".
Domandò, in tono spiccio, ricomponendosi abilmente,
come se fossi un cliente in incognito, una delle persone poco raccomandabili
che aiutavano Junielle, o cose del genere.
Dietro la maschera, feci una smorfia.
Detestavo parlare, per un solo e semplice motivo.
Nemmeno la mia voce si era salvata da quell’inferno
di fuoco da cui ero uscita a stento viva.
Facevo fatica a dire le cose più semplici, ed avevo un timbro orribile.
Roco, stizzoso, asessuato. Un sibilo sgradevole da
sentire.
E pensare alla mia vecchia, dolce voce… quanto mi
faceva odiare quella nuova Lsyn difettosa!
Facevo a meno spesso di parlare, anche per pura vergogna.
Non averne la possibilità per la maggior parte del
mio tempo costituiva un vantaggio, ma anche l’ennesimo problema.
Ogni volta che riprendevo a parlare facevo sempre
più fatica.
Quella volta non fece eccezione. Mi sentii arrossire
addirittura prima di aprire bocca.
Presi una o due volte il respiro. Non parlavo da così tanto tempo che anche due parole mi costavano
molta fatica.
"merce da scambiare". Ciò bastava per
farmi spalancare l’uscio.
Fran si fece immediatamente da parte,
rigido, inespressivo. Nemmeno mi guardava.
Da quando indossavo quella maschera gli era
stato espressamente ordinato di fare finta di nulla, presumo.
L’ennesima delle delicatezze di Junielle.
Venni da lui introdotta nell'ingresso.
Era una piccola sala stuccata pesantemente, e con pessimo
gusto, di oro e viola. Quattro lampade dall'aria esotica erano ad ogni lato: diffondevano un fumo denso ed una luce
fastidiosa.
Sulla parete di fronte c'erano due porte scure, entrambe
chiuse. Da una provenivano suoni di musica e risa
sguaiate.
L’altra era muta, silente, morta, vuota.
Sentii la testa girarmi vorticosamente. Lì dentro
la puzza schifosa dell’oppio era insopportabile. Dolce ed
appiccicosa, mi faceva venire la nausea.
Senza che parlassi, Fran mi precedette, timoroso.
Si
guardò a destra e sinistra, poi cacciò fuori un’unica chiave,
appesa ad una corda.
Con quella, aprì la seconda porta, quella muta.
Ormai sapevo benissimo cosa si celava dietro: una rampa di
scale, illuminata dalla luce che filtrava da alcune finestre rotte. In cima,
un’altra porta, socchiusa. Lì dovevo andare.
Mi avviai senza nemmeno ringraziare, disgustata, oppressa
da un mal di testa nascente. Che schifo, quel luogo.
"Junielle arriva subito, Ombra".
Disse il portinaio dietro di me, con una voce strozzata,
prima di chiudere la porta. Mi fece piacere sentire il mio vecchio nome, quello
che veniva usato ai tempi
della mia giovinezza.
Fran si che capiva come girava il
mondo!
Lì dentro si respirava aria più salubre.
Nonostante le finestre rotte era un ambiente
più piacevole, chiaro ed anonimo.
Cominciai a salire le scale, con tutta la calma possibile,
ed aprii la porta in legno scuro che era in cima.
Entrai in quello che era il mio luogo preferito di tutto
quel posto sguaiato: una stanza circolare, dai colori pastello, estremamente sobria, in un tale contrasto con ciò che
la circondava da risultare quasi ridicola.
Ecco, ecco la vera Junielle, raffinata, schifiltosa.
Sarebbe stata un’ottima nobile se non fosse stata
mezzelfa, ibrida, dunque impura.
Sotto la sua veste da volgare tenutaria, Junielle è
una persona dall'eleganza impeccabile, nonchè
sfacciatamente ricca: abitava, con il compagno, in uno dei quartieri migliori
della città, non certo in quel luogo maledetto dagli dei.
Ho sempre pensato prendesse in giro i suoi clienti, o che
fosse troppo tirchia per sbottonarsi un po’.
I vetri, in quel posto, erano nuovi, immacolati come le
poltrone in pelle ed il tavolino attorniato da qualche
sedia dall’aria comoda.
Tutto era pulitissimo, splendente: le tende bianche
sembravano appena lavate, la tovaglia dello stesso colore sul tavolino non
aveva nemmeno una piega. Tutto profumava di pulito.
Quello era un luogo in cui pochissimi mettevano piede. Io
ero una di quei privilegiati.
Qualcosa era cambiato, dalla mia ultima visita, quasi un
anno prima. Non vidi lampade: l'unica, tremolante luce proveniva
dal camino, che era acceso.
C’era una cosa, tuttavia, che non era cambiata
né cambiava mai. Ogni volta che lo vedevo era un nuovo colpo al cuore.
Uno specchio alto, dai vetri incrinati.
Conoscevo ogni parte di quell’oggetto. Ero stata io
a romperlo, in un accesso di disperazione, la prima volta che ero venuta
lì dopo essere stata ferita.
Junielle aveva cercato di ricondurmi alla ragione. Mi
aveva messa malamente di fronte allo specchio.
L’unica mia reazione erano state urla lancinanti.
Mi ero fatta molto male quando avevo battuto con i pugni
sullo specchio. In quei momento, l’odio verso me
stessa era arrivato ad un punto di rottura.
Ricordare quell'episodio, e la follia da essa generato, mi
turba tuttora. Mi turba ogni specchio, ogni superficie riflettente, dopotutto.
Posai la mia enorme borsa, la sede di tutti i miei poveri
averi, su una di quelle sedie, e poi guardai lo specchio.
Fissai il mio volto coperto da quella maschera
inespressiva.
Sapevo benissimo quale doveva essere il passo successivo.
Fosse stato per me non l’avrei mai fatto, ma
Junielle lo esigeva.
Da sempre cercava di farmi riconciliare con la mia
immagine: per lei, in fondo, ero sempre Lsyn.
E c’era sempre di peggio, anche se non capivo come
potesse esistere un essere più mostruoso di me.
Perciò, tra di noi c’era un’unica
regola ferrea, che esigeva la calma più assoluta: niente maschera
durante i nostri incontri.
Mi veniva da piangere, volevo nascondermi come un cucciolo
spaventato dai tuoni.
Me la tolsi lentamente, riluttante, davanti lo specchio, e la riposi nella borsa.
Odiavo farlo, ma se non l’avessi fatto la mia amica si sarebbe arrabbiata, e quello non lo gradivo molto.
Tendevo ad innervosirmi quando qualcuno alzava la
voce.
E poi non sopportavo Junielle arrabbiata. Era
l’unico ponte per la realtà, senza lei
sarei impazzita. Perciò, dovevo obbedirle.
Quando apparve il mio viso, chiusi
gli occhi di scatto, presa da un timore senza fine. Mi faceva male vedere la
parte integra del mio viso.
Mi ricordava cose che era meglio
sopire.
Ad occhi chiusi potevo immaginare
che, sotto la brutta maschera, un incantesimo avesse operato per guarirmi.
Cercai di farmi coraggio, e respirai profondamente, come
prima di un duello importante, come prima di una corsa disperata per salvarmi
la vita.
Appoggiai una mano allo specchio, per sostenermi, e
avvicinai l'altra alla metà sfregiata, presa dall’assurda speranza
di essere di nuovo bella e sana, gli occhi serrati.
Tremavo: avevo paura di me stessa. Ne ho sempre avuta, da
quando il mio aspetto si è guastato in modo irreparabile.
Speravo così tanto,
inconsciamente, che quasi mi aspettavo di sentire del liscio al tocco.
Il contatto con la pelle ruvida e reale mi fece sobbalzare
di qualche centimetro.
Di riflesso, aprii gli occhi.
Un viso per metà normale ricambiò il mio
sguardo. Era terrorizzato quanto me.
Dei, quanto ero brutta. Come ero orribile, come…
Quanto facevo schifo. Che verme immondo ero
diventata? Che cosa ero? Cos’era rimasto di me,
ormai?
Provai a fare un sorriso. Mi invase
una nausea invincibile, che nulla aveva a che fare con l’odore di oppio,
ormai sostituito dal buon profumo di legna e resina.
Probabilmente il fuoco non aveva danneggiato solo la pelle.
No, non poteva fare solo quello, non poteva solo
rovinarmi la voce, la bellezza e la vita: lo specchio rimandò l'immagine
della parte sfigurata che si torceva in un modo orrendo e grottesco.
Anche un sorriso era diventata la
smorfia di un mostro.
Ero Mostro, ormai, non potevo dimenticarlo.
Quello fu troppo, per me.
Presa da un timore incontrollabile, voltai lo specchio
verso la parete e mi fiondai verso la poltrona più vicina al fuoco.
Un freddo terribile mi aveva invaso le membra.
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Puff, puff.
Ho corretto anche questo capitolo. Ce n’era, di roba da modificare e
rivedere.
Spero che vi sia più gradito,
così. Sicuramente è più ordinato. E lungo.
E, per la miseria.
Rileggendo i commenti qui sotto (che vi
consiglio se volete farvi quattro risate dopo la depressione cosmica di Lsyn xD), mi rendo conto di quanto fossi irrimediabilmente stupida.
Ho voglia di modificare anche
quelli! O.o
Povero Carlos Olivera,
povero lettore da sempre fedele.
Ma come diavolo facevi
a sorbirti ciance del genere? O_O
Questo è uno dei motivi per il quale ho completamente eliminato il mio angolo personale.
Mi rendo conto di ritenermi saggia ad averlo
fatto.
Conserverò
però questi commenti, così com’erano (orrori di battitura
compresi). Puro spirito di masochismo, temo.
Angolo di Akita xD:
Per Carlos Olivera: il mio primo commentatore *_______* ohh, che bello xD sai, sono contenta, molto, che ti sia piaciuta la storia xD lo so, l'impaginazione fa a dir poco schifo ._. e lo dico da sola .___. Non ho la pazienza necessaria per scaricare i programmi html, quindi mi arrangio un po' con Word ._. e, diciamocelo con chiarezza, non è che sono poi una cima... per pubblicare questa storia mi ci è voluto un mese buono ._. salvo poi ricordarmi che sbagliavo la procedura d'impaginazione ._. sono un genio, io ù.ù cooomunque...spero che continuerai a seguire, ed a recensire xD adoro sentire i pareri degli altri xD ah, ps: ho aumentato la scrittura <.< così almeno sembra di leggere qualcosa in più xD purtroppo, mi sono accorta che, più vado avanti, più certi capitoli crucilai si "gargantuizzano"xD sacré bleu!!!
See you soon xD