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Autore: Akita    21/06/2008    2 recensioni
Storia in fase di profonda revisione ed aggiornamento
Lsyn è una Spia, legata al suo regno fino alla morte da un vincolo d'obbedienza più forte di ogni cosa. Un orribile incidente le ha stravolto la vita. Per cinquant'anni, allora, vaga, alla ricerca del Principe. La sua redenzione. O forse la sua rovina. Perchè il compimento del suo destino di avvicina. Lei però non lo sa. [...]Da quel momento in poi, mi sarei giocata la vita. Beh, non che m'importasse molto. La mia esistenza si era svolta sempre così, perennemente a contatto con la morte, giocandoci come con una vecchia amica venuta a prendere il tè. Che cosa buffa. Vivere, per prepararsi a morire. Lo fanno tutti, o è il destino di ogni Spia?[...]
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Memorie dei Rinnegati.'
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Ricordo ancora come iniziò la fine, sì se la ricordo

Ricordo ancora come iniziò la fine,  sì se la ricordo.

Non è molto difficile, rammento tutto, ogni dannato giorno, quasi fosse un orrido incubo da cui è faticoso svegliarsi.

Da poco avevo compiuto i trecento anni, e, come sempre, il passare del tempo mi riempiva di ulteriore nostalgia rabbiosa.

Ormai tenevo stancamente il conto degli anni, il calendario serviva solo per il mio compleanno.

Per ricordare che, evviva, grandi festeggiamenti, avevo un anno in più: un anno sprecato in giro per il continente senza concludere nulla.

Erano passati quasi cinquant’anni, ormai, ed io ancora vagavo, disperata.

Di Chekaril nessuna traccia.

Nulla, nemmeno il più flebile sospiro d’indizio, nulla a dirmi che ancora andavo avanti per qualche motivo.

Tutto quell’inutile viavai era stressante.

Fosse stato per me, il tempo sarebbe completamente sparito dal mio modo di pensare, ma avevo bisogno di regole e schemi familiari.

Altrimenti, avrei cominciato a girare in tondo come un misero animale in gabbia, e quello che restava del mio senno sarebbe andato a farsi una lunga vacanza, sicuramente molto lontano da me.

Non avrei mai più trovato Chekaril. Vivo, o morto.

Non importava: la mia missione era ritrovare il Principe. L’avrei portata a termine a qualunque costo.

Ormai, quella era l’unica cosa che mi restava. Tutto il resto era ormai perduto.

Non potevo tornare alla mia città, alla mia vita di prima.

Non ero altro che feccia della feccia. Uno scarto, un rifiuto messo in un angolo.

I miei compagni di un tempo non avrebbero più accettato la creatura ferita che ero. Non avrei riacquistato il potere che avevo. Né la mia ricchezza, né i miei affetti.

Che cosa avrei fatto, cominciato a mendicare? Gli elfi non si abbassano a fare questo, mai.

No.

Non potevo fare altro che andare avanti, trascinarmi, bestia ottusa, nel tentativo di portare a termine la mia missione o morire nel frattempo.

Non sapevo quanto senso avesse andare alla ricerca di un principe scomparso da tempo, ma non potevo smettere di raccogliere briciole e renderle polvere tra le mie mani.

Amavo troppo il ricordo di me, di Chekaril, ci tenevo troppo a sapere che, dopotutto, avevo ancora qualcosa da fare in quel mondo.

Ciò che il mio sterile girovagare significava me lo rendeva la più forte tra le droghe.

E, perciò, andavo avanti, senza sapere cosa il domani avesse in serbo per me.

Quando tutto cambiò io non me ne resi conto.

Era un giorno gelido, come ne possono capitare tanti, in primavera.

In quel periodo, i miei viaggi senza inizio né fine mi avevano spinta nella città di Zakadi.

Non era, la mia, una scelta casuale: era la capitale dell’omonima Repubblica, un assurdo crocevia tra il Regno degli elfi, e l’Impero umano.

Ogni cosa, merci, informazioni, persone, doveva assolutamente passare per quella ragnatela così strategica, quel morbido cuscino da strapazzare quando l’odio verso il nemico si faceva troppo forte.

Semmai ci fossero state nuove del mio dolce Chekaril, le avrei trovate lì. Sicuro.

Andare a Zakadi era il mio modo di ricominciare dopo una falsa pista.

In fondo, ero stata per molto tempo lontana da quel reticolo dannato, e le cose potevano essere cambiate.

Era il mio modo di darmi coraggio.

Di rimettere insieme, col più fragile dei collanti, i pezzi che erano rimasti di me dopo l’ennesimo vicolo cieco, per illudermi ancora di essere intera, di essere forte e coraggiosa e di non abbattermi di fronte a niente.

Da lì io potevo ripartire con un motivo per andare avanti.

E poi, quella città mi è sempre piaciuta. Una patria senza patria.

Era, ed è ancora, caotica ed eterogenea, il cuore impazzito di un luogo senza motivo e senza senso, come me.

Dovunque e comunque c’era caos, passaggio, tutto arrivava e se ne andava senza mai restare.

Zakadi, città di tutti e di nessuno, luogo di ladri, mercanti, profughi, viaggiatori, mendicanti, mercenari e soldati.

Non si poteva varcare il confine senza passare per le ben poco severe reti della brulicante città, che tutto lasciava ma che tutto ascoltava!

In quei tempi vacillanti passare per i ponti sul fiume di confine non era possibile. Né tantomeno varcare le montagne, un’impresa disperata anche per noi Spie.

Tutto, dunque, passava da Zakadi.

Oh, quel luogo era una vera e propria miniera di informazioni: difficile che qualcuno non si lasciasse sfuggire un seppur minimo commento su qualcosa.

E lì, anche i muri avevano orecchie.

Non per nulla Zakadi è sempre stato il pozzo preferito dalle Spie.

Pullulava di informatori , ufficiali e… diciamo più informali. Famiglie che da generazioni servivano le Spie.

La mia fonte preferita, e la più affidabile, era Junielle, la tenutaria di uno dei tanti bordelli del luogo.

Era il nucleo della fitta rete di cui noi Spie ci servivamo per carpire informazioni.

Fedele e puntuale, non mi aveva mai tradita, e ciò che diceva lei era sempre la verità. Quello che lei diceva era verità pulita e di prima mano. Roba di qualità sopraffina.

E, ovviamente, le mie visite non erano mai completamente mirate alla mia missione. Qualche volta avevo bisogno di Junielle.

Da lei trovavo anche protezione, e conforto quando il fardello della mia mostruosità, e del mio fallimento, cominciava a ridiventare troppo pesante.

Ogni volta tornavo da lei, a lamentarmi dell’ennesima pista sbagliata, a piangermi addosso.

Potrei chiamarla quasi amica, se non fosse di rango così spiccatamente infimo.

Lei, in fondo, era solo una misera informatrice, ed io una Spia. Per quanto decaduta e piuttosto inutile, potevo ancora fregiarmi del nome di Ombra. Beh, così andava il mondo.

Però io mi fidavo della buona Junielle.

Solo lei ed il mio Fratello di Maestro, l’elfo che è stato cresciuto con me dalla stessa persona, avevano visto il mio viso senza maschera.

Ma, mentre non avrei mai più avuto il coraggio di presentare la mia brutta faccia da mio fratello, che mi aveva visto in troppe occasioni miserevoli e pietose per non compatirmi, dalla mia amica io tornavo sempre.

Fisso, ad intervalli regolari, mi rifugiavo da Junielle quando non ce la facevo più a parlare con la mia ombra.

Quello era uno di quei momenti.

Fu facile per me entrare in città: non c’erano guardie, a parte alcune sentinelle che vigilavano sull’ordine cittadino.

C’era d’altronde un caos assurdo, troppo per poter  controllare ogni singolo viaggiatore.

Un po’ me ne dispiaceva. Dopo l’aver tutte le porte spalancate, essere Spie significa anche saper eludere ogni barriera.

Ho sempre considerato queste due cose dei piaceri molto seducenti. Specialmente l’ultimo, mi divertiva da impazzire trovare il metodo per accedere di soppiatto in qualche città fortificata.

L’unica piccola pecca di Zakadi, dopotutto. Non poteva essere perfetta.

Dopo aver superato le mura, mi ritrovai nell’enorme via principale, la strada che per pareti aveva locande e mercati.

Via maestra uguale un fiume di gente.

Era così bello essere in mezzo alla folla senza essere seppur minimamente calcolata.

Non potevo però reprimere un certo senso di disagio.

C’era tantissima gente, di ogni etnia e quasi ogni razza. Troppa gente.

In fondo, avevo passato mesi e mesi in quiete e solitudine, tutto quel vociare mi dava alla testa, me la faceva girare, mi ubriacava.

Ma, tutto sommato era un vantaggio. Quella stessa fiumana spaventosa mi proteggeva dagli sguardi indiscreti. Mi mescolavo egregiamente ai profughi ed ai derelitti.

Lasciai però ben presto quell’enorme strada lastricata e confusa. Ben altri erano i luoghi che mi aspettavano.

In un certo verso, ben più affascinanti.

Il mio obiettivo erano i luridi, tortuosi vicoli della città antica, angusti e bui, contornati da enormi e cadenti palazzi in tufo e argilla, che incombevano con la loro presenza, oscurando il sole.

Quello si che era lo spirito di Zakadi, la sua vera anima sporca. Per una persona perbene, diciamo un profugo medio, quelli erano luoghi proibiti, in cui mettere piede solo per farsi uccidere.

Lì abitava la chiassosa melma mai dormiente, altro che bravi mendicanti. Ad ogni ora del giorno o della notte si potevano osservare spettacoli d'ogni genere.

Trovavo quei posti marci molto più consoni al mio modo di vedere le cose. Chi stava sotto stava sotto, chi era più in alto dominava ed angariava com’era giusto che fosse. Chi non sapeva tenersi il posto, pagava. Chi sapeva salire, saliva. Punto.

Sapevo benissimo qual era il mio posto, e rispettavo le regole che ben conoscevo.

Ehi, è da quando ho raggiunto la piena maturità che non sono una persona pulita.

Impressi a fuoco su di me ci sono anni da persona malfamata.

Criminali, intrighi, omicidi: ci sguazzavo dentro a mio perfetto agio. Quella era stata la mia lunga vita.

E poi mi sentivo molto meglio lì che in quel vialone maledetto e mondano.

Chi mi incontrava e mi notava, notava quel verme strisciante tra le sue amiche ombre, generalmente non aveva la reazione che di solito riscontravo.

Niente facce disgustate e pietose.

Semplicemente, un prudente, e dolce, cambio di strada.

Essere un miserabile, immondo verme non significa essere sciocco. Nessuno di loro lo era.

Mi diressi così con calma, senza intoppi, verso il mio obiettivo primario.

Il bordello di Junielle: il peggior posto tra i peggiori, un'antica casa a tre piani, ridipinta malamente di un rosso osceno e squillante, un colore ormai quasi scrostato, che comunque mi faceva dolere gli occhi.

Ai lati dell'uscio due cumuli di sporcizia, mezzo, sudicio ma efficace, per dissuadere anche il mendicante più disperato dall'eleggere quel posto come dimora temporanea.

La casa era illuminata sempre a giorno. Perfino a porte chiuse, si sentiva la musica, sinuosa e sensuale, ed un odore che io ho sempre odiato: un misto nauseante di oppio, profumo e lerciume.

Dei, quanto odiavo quel luogo.

Lo detestavo profondamente già quando ero ancora la giovane Ombra.

Com’era squallido, e scontato, e orribile. Fatto sta, quel luogo tremendo attirava un sacco di gente. Ancora mi chiedevo il perché.

Insomma, il motivo mi è piuttosto chiaro, ma….accidenti.

Un po’ di senso estetico, un minimo di buongusto… no?

Sbuffando, bussai all'ingresso principale, una porta di legno scuro e massiccio.

Era tardo pomeriggio, un orario assai insolito per la maggior parte dei clienti, e perciò aspettai più a lungo del normale.

Finalmente, la porta si socchiuse, il minimo per far passare un viso che conoscevo.

Il portinaio, con la sua aria stanca ed annoiata, da uomo di mondo, non appena vide il fantasma che io ero, divento pallido come un lenzuolo, e sgranò gli occhi.

Venivo sempre a sorpresa, generalmente nei momenti meno opportuni.

E poi a quell’elfo, Fran, non ero per niente simpatica.

Mi temeva, e profondamente: ne aveva ben donde, a pensarci bene.

Quando era stato appena assunto, prima che mi riducessi in quel modo orrendo, aveva osato impedirmi di entrare.

Junielle non era arrivata in tempo per fermare il mio coltello, che avevo infilzato ben bene in una delle sue mani, inchiodandola al tavolo.

Un po’ brutale, forse, ma quella lezione gli era stata d’aiuto, più di mille lavate di capo.

Da allora, Fran mi obbediva ciecamente.

Ah, quanto amo certi metodi di apprendimento. Son sempre i migliori.

Vidi, con immenso piacere, il portinaio deglutire con difficoltà, per poi prendere un bel respiro.

La porta si aprì leggermente. Dovevamo solo sbrigare certe pratiche e poi sarei entrata senza problemi.

 "cosa volete?".

Domandò, in tono spiccio, ricomponendosi abilmente, come se fossi un cliente in incognito, una delle persone poco raccomandabili che aiutavano Junielle, o cose del genere.

Dietro la maschera, feci una smorfia.

Detestavo parlare, per un solo e semplice motivo.

Nemmeno la mia voce si era salvata da quell’inferno di fuoco da cui ero uscita a stento viva.

Facevo fatica a dire le cose più semplici, ed avevo un timbro orribile.

Roco, stizzoso, asessuato. Un sibilo sgradevole da sentire.

E pensare alla mia vecchia, dolce voce… quanto mi faceva odiare quella nuova Lsyn difettosa!

Facevo a meno spesso di parlare, anche per pura vergogna.

Non averne la possibilità per la maggior parte del mio tempo costituiva un vantaggio, ma anche l’ennesimo problema.

Ogni volta che riprendevo a parlare facevo sempre più fatica.

Quella volta non fece eccezione. Mi sentii arrossire addirittura prima di aprire bocca.

Presi una o due volte il respiro. Non parlavo da così tanto tempo che anche due parole mi costavano molta fatica.

"merce da scambiare". Ciò bastava per farmi spalancare l’uscio.

Fran si fece immediatamente da parte, rigido, inespressivo. Nemmeno mi guardava.

Da quando indossavo quella maschera gli era stato espressamente ordinato di fare finta di nulla, presumo.

L’ennesima delle delicatezze di Junielle.

Venni da lui introdotta nell'ingresso.

Era una piccola sala stuccata pesantemente, e con pessimo gusto, di oro e viola. Quattro lampade dall'aria esotica erano ad ogni lato: diffondevano un fumo denso ed una luce fastidiosa.

Sulla parete di fronte c'erano due porte scure, entrambe chiuse. Da una provenivano suoni di musica e risa sguaiate.

L’altra era muta, silente, morta, vuota.

Sentii la testa girarmi vorticosamente. Lì dentro la puzza schifosa dell’oppio era insopportabile. Dolce ed appiccicosa, mi faceva venire la nausea.

Senza che parlassi, Fran mi precedette, timoroso.

 Si guardò a destra e sinistra, poi cacciò fuori un’unica chiave, appesa ad una corda.

Con quella, aprì la seconda porta, quella muta.

Ormai sapevo benissimo cosa si celava dietro:  una rampa di scale, illuminata dalla luce che filtrava da alcune finestre rotte. In cima, un’altra porta, socchiusa. Lì dovevo andare.

Mi avviai senza nemmeno ringraziare, disgustata, oppressa da un mal di testa nascente. Che schifo, quel luogo.

"Junielle arriva subito, Ombra".

Disse il portinaio dietro di me, con una voce strozzata, prima di chiudere la porta. Mi fece piacere sentire il mio vecchio nome, quello che veniva usato ai tempi della mia giovinezza.

Fran si che capiva come girava il mondo!

Lì dentro si respirava aria più salubre. Nonostante le finestre rotte era un ambiente più piacevole, chiaro ed anonimo.

Cominciai a salire le scale, con tutta la calma possibile, ed aprii la porta in legno scuro che era in cima.

Entrai in quello che era il mio luogo preferito di tutto quel posto sguaiato: una stanza circolare, dai colori pastello, estremamente sobria, in un tale contrasto con ciò che la circondava da risultare quasi ridicola.

Ecco, ecco la vera Junielle, raffinata, schifiltosa. Sarebbe stata un’ottima nobile se non fosse stata mezzelfa, ibrida, dunque impura.

Sotto la sua veste da volgare tenutaria, Junielle è una persona dall'eleganza impeccabile, nonchè sfacciatamente ricca: abitava, con il compagno, in uno dei quartieri migliori della città, non certo in quel luogo maledetto dagli dei.

Ho sempre pensato prendesse in giro i suoi clienti, o che fosse troppo tirchia per sbottonarsi un po’.

I vetri, in quel posto, erano nuovi, immacolati come le poltrone in pelle ed il tavolino attorniato da qualche sedia dall’aria comoda.

Tutto era pulitissimo, splendente: le tende bianche sembravano appena lavate, la tovaglia dello stesso colore sul tavolino non aveva nemmeno una piega. Tutto profumava di pulito.

Quello era un luogo in cui pochissimi mettevano piede. Io ero una di quei privilegiati.

Qualcosa era cambiato, dalla mia ultima visita, quasi un anno prima. Non vidi lampade: l'unica, tremolante luce proveniva dal camino, che era acceso.

C’era una cosa, tuttavia, che non era cambiata né cambiava mai. Ogni volta che lo vedevo era un nuovo colpo al cuore.

Uno specchio alto, dai vetri incrinati.

Conoscevo ogni parte di quell’oggetto. Ero stata io a romperlo, in un accesso di disperazione, la prima volta che ero venuta lì dopo essere stata ferita.

Junielle aveva cercato di ricondurmi alla ragione. Mi aveva messa malamente di fronte allo specchio. L’unica mia reazione erano state urla lancinanti.

Mi ero fatta molto male quando avevo battuto con i pugni sullo specchio. In quei momento, l’odio verso me stessa era arrivato ad un punto di rottura.

Ricordare quell'episodio, e la follia da essa generato, mi turba tuttora. Mi turba ogni specchio, ogni superficie riflettente, dopotutto.

Posai la mia enorme borsa, la sede di tutti i miei poveri averi, su una di quelle sedie, e poi guardai lo specchio.

Fissai il mio volto coperto da quella maschera inespressiva.

Sapevo benissimo quale doveva essere il passo successivo.

Fosse stato per me non l’avrei mai fatto, ma Junielle lo esigeva.

Da sempre cercava di farmi riconciliare con la mia immagine: per lei, in fondo, ero sempre Lsyn.

E c’era sempre di peggio, anche se non capivo come potesse esistere un essere più mostruoso di me.

Perciò, tra di noi c’era un’unica regola ferrea, che esigeva la calma più assoluta: niente maschera durante i nostri incontri.

Mi veniva da piangere, volevo nascondermi come un cucciolo spaventato dai tuoni.

Me la tolsi lentamente, riluttante, davanti lo specchio, e la riposi nella borsa.

Odiavo farlo, ma se non l’avessi fatto la mia amica si sarebbe arrabbiata, e quello non lo gradivo molto. Tendevo ad innervosirmi quando qualcuno alzava la voce.

E poi non sopportavo Junielle arrabbiata. Era l’unico ponte per la realtà, senza lei sarei impazzita. Perciò, dovevo obbedirle.

Quando apparve il mio viso, chiusi gli occhi di scatto, presa da un timore senza fine. Mi faceva male vedere la parte integra del mio viso.

Mi ricordava cose che era meglio sopire.

Ad occhi chiusi potevo immaginare che, sotto la brutta maschera, un incantesimo avesse operato per guarirmi.

Cercai di farmi coraggio, e respirai profondamente, come prima di un duello importante, come prima di una corsa disperata per salvarmi la vita.

Appoggiai una mano allo specchio, per sostenermi, e avvicinai l'altra alla metà sfregiata, presa dall’assurda speranza di essere di nuovo bella e sana, gli occhi serrati.

Tremavo: avevo paura di me stessa. Ne ho sempre avuta, da quando il mio aspetto si è guastato in modo irreparabile.

Speravo così tanto, inconsciamente, che quasi mi aspettavo di sentire del liscio al tocco.

Il contatto con la pelle ruvida e reale mi fece sobbalzare di qualche centimetro.

Di riflesso, aprii gli occhi.

Un viso per metà normale ricambiò il mio sguardo. Era terrorizzato quanto me.

Dei, quanto ero brutta. Come ero orribile, come…

Quanto facevo schifo. Che verme immondo ero diventata? Che cosa ero? Cos’era rimasto di me, ormai?

Provai a fare un sorriso. Mi invase una nausea invincibile, che nulla aveva a che fare con l’odore di oppio, ormai sostituito dal buon profumo di legna e resina.

Probabilmente il fuoco non aveva danneggiato solo la pelle. No, non poteva fare solo quello, non poteva solo rovinarmi la voce, la bellezza e la vita: lo specchio rimandò l'immagine della parte sfigurata che si torceva in un modo orrendo e grottesco.

Anche un sorriso era diventata la smorfia di un mostro.

Ero Mostro, ormai, non potevo dimenticarlo.

Quello fu troppo, per me.

Presa da un timore incontrollabile, voltai lo specchio verso la parete e mi fiondai verso la poltrona più vicina al fuoco.

Un freddo terribile mi aveva invaso le membra.

 

 

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Puff, puff. Ho corretto anche questo capitolo. Ce n’era, di roba da modificare e rivedere.

Spero che vi sia più gradito, così. Sicuramente è più ordinato. E lungo.

E, per la miseria.

Rileggendo i commenti qui sotto (che vi consiglio se volete farvi quattro risate dopo la depressione cosmica di Lsyn xD), mi rendo conto di quanto fossi irrimediabilmente stupida.

Ho  voglia di modificare anche quelli! O.o

Povero Carlos Olivera, povero lettore da sempre fedele.

Ma come diavolo facevi a sorbirti ciance del genere? O_O

Questo è uno dei motivi per il quale ho completamente eliminato il mio angolo personale.

Mi rendo conto di ritenermi saggia ad averlo fatto.

Conserverò però questi commenti, così com’erano (orrori di battitura compresi). Puro spirito di masochismo, temo.

 

Angolo di Akita xD:

Per Carlos Olivera: il mio primo commentatore *_______* ohh, che bello xD sai, sono contenta, molto, che ti sia piaciuta la storia xD lo so, l'impaginazione fa a dir poco schifo ._. e lo dico da sola .___. Non ho la pazienza necessaria per scaricare i programmi html, quindi mi arrangio un po' con Word ._. e, diciamocelo con chiarezza, non è che sono poi una cima... per pubblicare questa storia mi ci è voluto un mese buono ._. salvo poi ricordarmi che sbagliavo la procedura d'impaginazione ._. sono un genio, io ù.ù cooomunque...spero che continuerai a seguire, ed a recensire xD adoro sentire i pareri degli altri xD ah, ps: ho aumentato la scrittura <.< così almeno sembra di leggere qualcosa in più xD purtroppo, mi sono accorta che, più vado avanti, più certi capitoli crucilai si "gargantuizzano"xD sacré bleu!!!

See you soon xD

 

  
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