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Autore: past_zonk    24/02/2014    10 recensioni
"Signor Holmes, la sua vita è una bugia."
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Quando Sherlock si volta a guardarlo, per vedere che espressione ha dipinta sul volto, è il terrore che gli si dispiega davanti.
Non c'è nulla.
Nulla, sul volto di John Watson. Un volto indistinto, come pixellato, un'immagine sfocata e spaventosa.
E, "John!" urla, perché non può sopportare che stia penetrando anche nel suo bozzolo felice, non può sopportare che dopo aver espugnato il suo Mind Palace stia passando anche a conquistare John, lui e John, Sherlock e John, quello che hanno. Non può sopportarlo, quindi chiude gli occhi e inizia a pregare. Non sa cosa, non sa come, non conosce nessuna preghiera, sono solo silenziosi susseguirsi di "John, John, John" e tanti, tanti respiri, più del normale, più del concesso.
Quando si risveglia da quest'incubo, è John che lo sta scuotendo, che cerca una scintilla di razionalità negli occhi di Sherlock, che lo abbraccia e gli dice che tutto va bene.
Per la prima volta, nonostante le braccia di John, Sherlock sente chiaramente che non va bene, no, che niente andrà bene, che non servirà a molto pregare.
Genere: Angst, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Spazio dell'autrice: Ultima parte.
E' stata un'emozione scrivere questa fanfiction. Un gran bel viaggio. Ringrazio chiunque l'abbia percorso con me. E, chissà, magari ci rivredremo con qualche altro lavoro ;) eheh. Vi lascio alla lettura, grazie come al solito a chi recensisce e mette fra i seguiti/preferiti/ricordati. Siete l'amore, and you make my life an happy one, per dirla a là Sherlock!
eveyzonk.







3/3 parte tre di tre: illusion.



“Signor Holmes...signor Holmes”
Quando riapre gli occhi, le palpebre sono molto più pesanti. Sherlock nota di essere stato portato in un’altra stanza, più luminosa, più arredata. Uno studio, probabilmente quello del dottore che, ancora una volta, gli sta di fronte.
“Signor Holmes, come si sente?”
Nauseato, vorrebbe rispondere, ma non si fida, così rimane in silenzio, osservando con sguardo perso le carte ammucchiate sulla scrivania che gli si para di fronte. L’hanno fatto accomodare su una poltroncina prima che riprendesse coscienza, di modo che non ponesse resistenza.
“Non vuole parlarmi, capisco. Ma lei deve comprendere che io devo sfruttare questo suo stato di lucidità per cercare di capire. Non sono tanti i momenti come questi,” continua l’altro, con tono serio.
“Sono l’uomo più lucido di Londra,” risponde Sherlock, irritato dal fare del medico. Non capisce.
Quello alza un lembo della bocca, ironico “Già. Quando vuole lo sa davvero essere, Sherlock. Posso chiamarla per nome, vero?”
“No. Cosa intende.”
Il dottore sospira pesantemente, unendo le mani in una posizione pensierosa e alzando gli occhietti da roditore al suo volto. Per una volta, è Sherlock Holmes a sentirsi studiato e a non riuscire a fare il contrario; attribuisce questa incapacità a qualche sedativo che gli avranno somministrato, e rimane in silenzio, aspettando qualche delucidazione.
“Signor Holmes, come descriverebbe la sua vita?”
“Le ho fatto una domanda, dottor…”
“Symons.”
“Le ho fatto una domanda, dottor Symons. Non può rispondere con un’altra domanda.” La situazione lo irrita.
“Si fidi, signor Holmes, la mia è una domanda del tutto pertinente. Come descriverebbe la sua vita?”
“Inusuale.”
“Cosa fa per vivere?”
Sherlock sbuffa, gli occhi chiari che volano a osservare il soffitto “Consulente investigatore, ma non si aspetti che ve lo spieghi”
“No, certo che no. Conosco bene, in realtà, la sua vita, signor Holmes…”
“Ovviamente. O non mi avrebbe sequestrato,” sbuffa il moro.
Il dottore non risponde, inizia a frugare, cercando qualcosa in un cassetto della sua scrivania scura di mogano. Estrae un fascicolo di documenti, e inizia a sfogliarli; si ferma per qualche secondo in più su un dato documento, poi glielo porge, aggrottando le sopracciglia.
Sherlock prende fra le mani il foglio bianco e strizza gli occhi una, due volte; ancora non riesce a vedere perfettamente, quindi aspetta di mettere a fuoco e poi inizia a leggere.
Sembra essere un certificato, o forse un contratto.
Il paziente William Sherlock Scott Holmes, inizia la cura nell’ospedale St. Petyr di Cardiff di sua spontanea volontà, accettando la politica interna dell’ospedale e del suo reparto psichiatrico, il giorno Tredici Febbraio dell’anno 2000.
Firma del paziente - W.S.S. Holmes.
Firma di un familiare/tutore: Mycroft Holmes.

Sherlock alza entrambe le sopracciglia, poi ridacchia, roco, gli occhi persi e sconcertati “A che gioco sta-”
“Signor Holmes,” lo interrompe l’altro “quelli sono i documenti che accertano la vostra permanenza in quest’ospedale; vi assicuro la loro veridicità, anche se, conoscendovi, non mi crederete; neanche stavolta.”
Neanche stavolta? Il detective alza un sopracciglio.
“Non è la prima volta che abbiamo questa conversazione, anzi, posso dire di essere ferrato, ormai. So esattamente cosa dire, cosa le farà perdere la pazienza, cosa la spaventerà a morte. Devo dire che questa volta speravo di ritrovarla meno sperduto, ma la vedo anzi più confuso di qualche volta fa.”
“Si spieghi.”
Le dita di Sherlock sono nervose; comincia a tamburellarle sul bracciolo della poltrona nera, osservando quei documenti assurdi. Cosa sta succedendo? Non doveva essere morto? Com’è sopravvissuto alla caduta?
Cosa starà facendo ora John? Conoscendolo, starà mettendo a fare un tè. O forse starà riflettendo, sulla sua poltrona a Baker Street. Ma dev’essere a Baker Street, perché l’idea che non sia lì semplicemente lo ferisce.
“E’ difficile, davvero, signor Holmes, ma sarò il più diretto possibile. Ogni qual volta ho cercato di procrastinarle la verità, lei è diventato sempre più irritabile e s’è richiuso in se stesso, quindi questa volta cercherò di essere il quanto più sincero,” c’è una piccola pausa, in cui sembra stia soppesando le parole da usare, poi: “La sua vita è una bugia.”
La sua vita è una bugia.
Le parole colpiscono Sherlock allo stomaco, anche se sa, con tutto se stesso, che l’unica bugia è quella appena uscita dalla bocca del dottor Symons. Cosa vuol dire ‘la sua vita è una bugia’? Non ha neanche un senso logico. Sherlock esordisce con un mezzo sorrisetto perché è così che reagisce quando non sa come dovrebbe sentirsi. Resta in silenzio, aspettando altre assurde delucidazioni.
“Lei è affetto da un derivato del disturbo istrionico della personalità, un grave e amplificato disturbo narcisistico che l’ha portato, negli anni dell’adolescenza, a ricrearsi un’altra vita. Negli ultimi quindici anni, a causa di vari accadimenti dispiacevoli, la sua condizione è andata peggiorando, portandola ad uno stato di semi-incoscienza dal quale non riusciamo a scuoterla il più delle volte. Fortunatamente, ora è fra noi.”
Sherlock batte le palpebre tre volte di seguito, velocemente.
Ovviamente tutto quello che sta ascoltando non è vero, ma ne è comunque terrorizzato. Sa che è una tattica di qualche nemico, di qualcuno che vuole distruggerlo fin dalle radici; Moriarty c’ha già provato, ma lui aveva vinto, John era salvo, e…
Ed ora è lì, ma non importa. John stava bene, da qualche parte a Londra, e lui era in mano a qualche altro pazzo furioso che cercava di farlo fuori con mezzi poco convenzionali. Era la sua vita, ed era così che andava.
“Molto interessante, dottor Symons, davvero. Non avevo mai subito direttamente questi metodi. Sarà un’occasione per studiarli. Ma mi dica di più, chi sarei io?” dice, con un sorrisetto che dovrebbe far trasparire sicurezza, anche se non ne è del tutto certo.
Il francese sospira ed annuisce, “William Sherlock Scott Holmes. Nato a Londra nel 1976, entrambi i genitori in vita fino all’adolescenza, un fratello maggiore, Mycroft, una famiglia alquanto puritana. Suo fratello sviluppa fin da bambino una particolare intelligenza che lo porta ad eccellere in tutte le discipline scolastiche, e ad essere continuamente elogiato in famiglia. Lei cresce con questo imponente termine di paragone e sviluppa un senso di inadeguatezza che, unito alla naturale ritrosia caratteriale, la porta ad estraniarsi sia in casa sia in termini extra-famigliari. Ha subito atti di bullismo, anche abbastanza gravi, dai dodici anni in poi. A diciassette anni si avvicina all’eroina, ne diventa dipendente; a diciannove anni ha già scritto tre libri dove narra le avventure dell’alter-ego che predilige e sul quale fa ricadere tutto ciò che lei non possiede: Sherlock Holmes, per l’appunto. La morte di sua madre lo fa cadere in un trauma atarassico per circa un anno, poi ne esce, ma solo per ripiombarci quando suo fratello viene arrestato per associazione a delinquere. Un punto di riferimento che crolla, lei si chiude definitivamente nel suo mondo di casi e investigazioni, e ci rimane fino a…ora, praticamente.” Il discorso dello psichiatra è permeato da un tono quasi annoiato, come se lo ripetesse ogni giorno allo specchio. Non ha davvero bisogno di leggerlo dalle carte, sembra farlo per convenzione, per quanto dia l’impressione di conoscere per davvero a memoria la storiella.
Sherlock sente qualcosa alla base dello stomaco tremargli.
“Bene. Vada più a fondo, sono estasiato.”
“Sapevo avrebbe reagito così. Bene, Sherlock-“
“Signor Holmes”
“Bene, Signor Holmes. Sono quindici anni che lei è qui al St.Petyr, quindici anni che vari esperti la studiano e cercano di scuoterla da questo stato di catalessi in cui si trova per la maggior parte del suo tempo trascorso. Vede, la sua mente è quasi sempre nell’altro universo, nell’altra Londra. E’ il suo bozzolo, la sua copertura. Si rifiuta di uscirne, se non quando – evidentemente – succede qualcosa di dispiacevole anche lì. Le andrebbe di raccontarmi cosa è successo questa volta? Se ricordo bene, l’ultima occasione che ho avuto di parlare con lei, poco più che sei mesi fa, era appena uscito da un caso che l’aveva molto turbato. Il caso del violinista, che era poi morto, e nel quale si rivedeva terribilmente. Prego.”
Il dottore inforca un paio di occhiali semi-trasparenti e lo fissa con interesse.
Sherlock alza un sopracciglio e ridacchia “E’ interessato alla faccenda di Moriarty, vero? Era in affari con lui, per caso?” Sherlock cerca di trarre a suo vantaggio la situazione; se l’impostore cerca di trarre informazioni, si sbaglia di grosso: tutt’al più sarà lui ad estrargli qualcosa.
Il dottore sorride, “Il collega Moriarty è di certo in affari con me, signor Holmes, ma non credo nel senso in cui lei intende. E’ stato trasferito in un ospedale scozzese, se le interessa.”
Per un momento quasi ci crede, aggrotta le sopracciglia. Poi si scuote. Nella sua testa, è la voce di John a richiamarlo alla realtà.
“Le ho fatto una domanda, Signor Holmes. Cosa le è successo, ultimamente?”
Sherlock lo guarda in cagnesco. La situazione sta cominciando a turbarlo, così chiude gli occhi e inizia a pensare ad altro.
John. John che fa quel suono strano quando gli prude la gola, perché d’estate è sempre allergico. John che si annoia di portare un ombrello con sé, e lui che proprio non riesce a capire come abbia vissuto in Inghilterra per una vita intera senza mai acquistarne uno tutto suo. John che fa il verso a Lestrade mentre il dato investigatore è troppo impegnato a balbettare dall’imbarazzo per averli colti a baciarsi.
John. Chissà se lo starà bevendo sul serio, quel tè.
“Signor Holmes, lei non mi crede.”
“Come potrei,” sorride Sherlock “lei è davvero un cattivo attore, dottor Symons”
“Naturalmente,” alza un sopracciglio l’uomo olivastro, la voce permeata da quell’acidità tipica del popolo francese, “le sue doti deduttive non sono brillanti come crede, qui
Sherlock rimane in silenzio, stringe i denti e guarda di lato.
“In realtà c’è un pattern alquanto brillante, nella creazione del suo universo. Lei non inventa i personaggi, no, lei è meglio di così. Lei trasfigura le persone che hanno avuto una qualche importanza nella sua vita, e le fa diventare un nemico acerrimo o un qualche sospettato. Se sono persone che stima, diventano aiutanti, in qualche modo. Il vecchio capitano di nave del Missouri, ad esempio; il signor Gregory Lestrade. A quanto pare è colui che dall’altra parte le procura i casi, vero?”
Ancora silenzio.
Il dottore strizza gli occhi da dietro le lenti e continua a leggere “La signorina Molly Hooper, una schizofrenica pura nella realtà, nel suo mondo lavora in obitorio – sì, questa mi ha sempre divertito. La signora Hudson era una sua vecchia insegnante; suo fratello mi disse che aveva la strana abitudine di passare sigarette di contrabbando ai suoi studenti. Irene Adler. Interessante, questa. Frequentava il primo anno di università con lei. Morta per strangolamento, una storia molto triste; c’è scritto che non le rivolse mai la parola; forse provava qualcosa? E infine il dottor Moriarty, il suo primo psicanalista. Non capisco perché l’odio nei suoi confronti si spinga a tal punto da renderlo il suo nemico numero uno, non mi ha mai parlato delle vostre sedute...segreto professionale, ovviamente.”
Sherlock ha quasi paura di porre la domanda. La gola gli pizzica, ma dopo un minuto di silenzio, prende coraggio e chiede, quasi per curiosità: “Cosa mi dice di John Watson?”
Il dottore deglutisce. Sembra preoccupato. Per un attimo rimane in silenzio, si gratta la nuca e i capelli radi.
“Signor Holmes…”
“John Watson, dottor Symon. Si concentri” gli occhi di Sherlock sono un azzurro in tempesta. Il cuore gli batte, lo sente nelle orecchie, la vista è ancora instabile, si sente, d’un tratto, stanco.
“Sherlock, non esiste nessun John Watson.”
Gli occhi di Sherlock si spalancano.
Nella sua mente rielabora le parole più e più volte, riascoltandole come un nastro registrato. Come può anche solo esistere una possibile vita in cui non ci sia il nome John affianco a quello di Sherlock?
Deve mantenere la calma. E’ ovviamente tutta una bugia per indebolirlo, per usarlo, per distruggerlo; tanti ci hanno provato, pochi si sono avvicinati all’obiettivo, nessuno c’è riuscito completamente. Ma ora, evidentemente, ha un punto debole, e ciò lo porta ad essere una vittima di certo più facile. L’amore è uno svantaggio pericoloso. Gli offusca il cervello, quel concetto.
Il dottore lo osserva in silenzio mentre inizia a mordersi un labbro, a tremare. A ricordare. Il nulla che ultimamente permeava la sua vita, che penetrava all’improvviso, che quella notte gli aveva portato via anche John per qualche minuto. Per un attimo valuta che le parole dello psichiatra siano vere.
Per un secondo.
Un istante così insignificante da non dover comportare nulla ma, allo stesso tempo, abbastanza pesante da fargli mancare l’aria, come un pugno alla bocca dello stomaco.
Su quei regali c’era scritto “Da John e Sherlock”, e niente poteva – doveva – cambiare quella verità.
Sherlock batte i denti un paio di volte, nervoso, poi s’alza in piedi, guarda dritto il dottore negli occhi, cercando una traccia di bluff, una crepa in quella maschera. Quando non ne trova alcuna, la testa comincia a pulsargli, la vista ad annebbiarsi, le gambe a formicolare.
Sherlock sviene lì, cade al suolo per l’ennesima volta.

Tre giorni. Tre giorni, cinque ore e tre minuti dal suo risveglio nell’ospedale. Tre giorni di schiena contro il muro, e silenzio, e ascoltare ipotesi meschine. Tre giorni che cercano di convincerlo raccontandogli quella che loro chiamano verità, ma che per lui non è altro che una stupida bugia senza fondamenti.
La stanza è più fredda del solito; Sherlock osserva il soffitto con sguardo perso e non fa che vederci il parato gotico di Baker Street. Non fa che pensare all’uscio bagnato costantemente dalla pioggia, al suo giaccone che insiste a cadere dall’appendiabiti, alla poltrona di John alla quale pensava addirittura di dare un nome. Pensa ai mille registri con le informazioni su casi chiusi da esaminare, la sua versione in giallo dei cruciverba, con lo scopo di scoprire le definizioni di tanti assassinii e rapimenti. Pensa a Londra, a Scotland Yard, alla signora in rosa e all’obitorio del St.Bart’s.
“A cosa sta pensando, Signor Holmes?”
Sherlock si scuote dai suoi pensieri, violentemente, sconvolto di non essersi accorto prima della presenza del dottor Symons.
Non risponde alla domanda, inoltre, e la cosa lascia campo libero alle dissertazioni dello psicologo. In un attimo, sta analizzando il comportamento di Sherlock durante questi tre giorni di apatia, buttando qui e lì una diagnosi tecnica degna di un idiota. Sherlock non lo sopporta, non sopporta ciò che rappresenta e sicuramente non sopporterà ciò che sta per dirgli, qualsiasi cosa sia.
“Le piacerebbe vedere quello che ha prodotto durante questi anni di...cure?”
Prigionia, definirebbe il suo stato attuale, oltre che con l’esclamazione ‘vaffanculo Lestrade vienimi a prendere.’
“Perché sa, durante questi lunghi anni, lei ha effettivamente esternato quello che ha dentro. Ogni volta che si sveglia cerco di mostrarglielo, e lei declina sempre.”
“Mi faccia vedere,” mormora, senza alcun tono nella voce bassa.
Il dottore sgrana per un secondo gli occhi, sorpreso dalla piega degli eventi, e si alza, pronto a chiedere il materiale all’infermiere di guardia alla porta.
Passano in silenzio, i minuti di attesa, e Sherlock non può che esserne felice. Quando infine il ragazzo col camice fa ritorno, Sherlock fa finta di non essere interessato a ciò che porta con sé; osserva con la coda dell’occhio i fogli che tende al dottor Symons, ne sente l’odore e sa che sono disegni. La pittura è tangibile nell’aria. Il dottore si schiarisce la voce, tendendogli il malloppo silenziosamente, attento a non cambiare l’umore del paziente con qualche parola improvvisa.
Sherlock, in risposta, continua a fissare l’altro capo della stanza, anche se la sua mano raggiunge ciò che il medico gli sta porgendo. Infine, quando il dottore si alza e gli da le spalle, probabilmente intuendo lo stato d’animo del moro, riluttante ad osservare quelle prove contraffatte sotto lo sguardo clinico dello psichiatra, Sherlock si permette di lanciare un’occhiata a ciò che tiene tra le mani. Disegni, per l’appunto. China e acrilico, su fogli di carta ingialliti dal tempo - o, per quanto gli riguarda, probabilmente da un trucco fasullo.
Osserva il primo: Londra. Londra di notte. Un lampione solitario in Glentworth Street, la strada opposta a Baker Street, in una nottata senza pioggia. Sherlock passa le dita sul disegno, su ogni cosciente sbavatura, sulla perfetta quadratura del palazzo antecedente la strada, e, infine, con un brivido freddo, sulla firma, posta alla base del dipinto. E’ fin troppo spaventoso osservarla: non riesce a trovare nessuna incongruenza con la sua vera firma, nessuna esitazione nel premere la stilografica su quel foglio, nello scrivere, con la sua stessa maniera un po’ trasandata, il suo nome. Non per intero, ma non una sigla; un semplice, nero, slanciato, “Sherlock Holmes”.
Deglutisce, poi passa a quello dopo.
E’ Molly Hooper. Si porta una ciocca di capelli dietro l’orecchio e guarda per terra, in un’espressione così quotidiana da rallegrarlo, quasi. La bocca gli sembra tremula mentre si alza in un accenno di sorriso.
E così via, procedono le illustrazioni. Lestrade che beve un caffè con espressione stizzita, Angelo che si strofina le mani sporche di salsa, Mycroft che alza gli occhi al cielo. Alcune sembrano più vecchie: un gatto sul ciglio della strada, un cadavere da sezionare sul tavolo dell’università, Victor Trevor che mastica una matita con aria annoiata, il piede dello stesso Sherlock, sullo sfondo una finestra mostrante la campagna inglese della loro casa di famiglia sulle Cotswolds Hills. E’ tutto fin troppo vivido, tutto fin troppo aderente ai suoi ricordi personali, tutto indicibilmente e terribilmente suo.
Alla fine del lungo fascicolo, divisa dal resto, c’è una cartellina rovinata; sul davanti non c’è scritto niente, è solo di un blu spento e sbiadito. Sherlock cerca di aprirla con dita tremanti, poi si prende una pausa. Sa benissimo cosa ci troverà dentro, gli sembra quasi ovvio e scontato: il colpo di grazia alle sue convinzioni. Ciò che loro credono lo farà arrendere dall’urlare è tutta una bugia ogni volta. Nonostante la consapevolezza, non riesce a fermare la mano che va a sollevare la copertina e a mostrare il primo schizzo.
E’ a china, senza alcun colore, un’illustrazione veloce presa quasi con fretta, di John Watson. Dorme sul divano di Baker Street con un libro poggiato sul petto, la bocca leggermente schiusa e un braccio cadente verso il pavimento, in una posizione tragica che quasi ricorda quella di Marat nella vasca o del Cristo della Pietà di Michelangelo. Sherlock strizza gli occhi nell’osservarla. Beve con avidità ogni stilla di quell’immagine, per imprimerla a fuoco in una mente che è in decadimento. Pensa alle circostanze, alla reticenza nel dipingerla, ai soffici respiri di John mentre dorme, al tratto veloce e ansioso. Poi, infine, passa al prossimo disegno.
John Watson, ovviamente. Questa volta i tratti sono più definiti, ma manca ancora di colore. E’ inginocchiato accanto a un bambino che piange per un ginocchio sbucciato; sono al parco, ai grandissimi Paddington Street Gardens, e Sherlock ricorda quel giorno. Il bambino era solo, senza la madre, ed era caduto proprio di fronte la panchina dove John e Sherlock stavano animatamente discutendo di uno scandalo politico; Sherlock non sapeva cosa fare, se non guardare il volto del bambino trasformarsi in una maschera di dolore e rigarsi di lacrime. Ma John sì, oh John era bravo con questo genere di cose. Si era avvicinato al bambino e aveva cominciato a parlargli, non fa così male, vedi? Sei un ometto, non puoi piangere per queste sciocchezze; su rialziamoci ora, prendi il fazzoletto; la tua mamma non c’è?, e così via, fin quando il bambino non gli aveva offerto un sorriso - mancante di un paio di denti - ed era scappato via, continuando a scorrazzare nel parco. Sherlock aveva immortalato il momento con dedizione, con gli occhi di un devoto, con righe forti e inchiostro scuro, e aveva osservato il profilo di John Watson con un trasporto tale da fargli capire, in quel solo momento, quello che stava nascondendo a se stesso da mesi: amava quell’uomo.
Poche persone potevano dire di avere una prova con sé del momento in cui si innamora per la prima volta, e Sherlock Holmes era fra quelle.
Il fatto che quella prova fosse ora fra le sue mani lo rendeva inquieto e angosciato. Sfiorò il volto del biondo con un polpastrello, e passò a scorrere il resto del fascicolo. Era un’evoluzione del suo rapporto con John. La maggior parte dei disegni non ricordava di averli fatti, anche se riusciva a ricordare i momenti in cui s’erano svolte quelle scene: John che, corrucciato, sottolinea qualcosa su un vecchio libro, John che beve il tè guardando fuori, in una giornata noiosa, piovosa e malinconica, John, infine a colori, che lo osserva, dall’altro lato del letto, e gli sorride, ed ha una mano sotto la guancia e l’altra sul cuscino. Ha lo sguardo semi-presente, come se fosse molto addormentato, molto stupido o molto innamorato - probabilmente tutte e tre le cose.
E’ l’ultimo disegno.
L’ultima prova che i suoi secondini vogliono mostrargli.
Sherlock non ci crede. Non vuole credere a niente che non sia quello che ha vissuto. E’ spaventato, terrorizzato, fino al midollo, un brivido gli percorre la schiena mentre le mani pallide, fredde e nodose chiudono il fascicolo e si alzano a toccargli il collo, come per aiutarlo a respirare meglio. Il dottor Symons si volta a guardarlo, “Sherlock…”
“Signor Holmes, mi chiami…” la voce gli si spezza mentre osserva il pavimento “mi chiami Signor Holmes. E se ne vada,” ora è solo un sussurro “se ne vada.”
L’attimo in cui il dottore chiude la porta della sua stanza, il petto di Sherlock si contrae e le lacrime cominciano a rigargli il volto. Guarda il vuoto con orrore, cerca conforto nel pensiero di casa sua, perché è da così tanto che non si stende sul divano e comincia a lamentarsi di tutto, perché gli manca così tanto sentirsi a casa, perché si sente un bambino spaventato.

Un mese di silenzio.
Un mese di semi-digiuno e niente pensieri. La testa di Sherlock sembra essersi svuotata, forse a causa dei sedativi che forzatamente gli somministrano - quando inizia a dibattersi, a urlare di lasciarlo andare -, forse semplicemente perché pensare è diventato troppo stancante e doloroso. Il dottor Symons gli ha chiesto se gli sarebbe piaciuto uscire dalla sua stanza e vedere il reparto, ma lui ha semplicemente scosso la testa alla terza volta in cui gliel’aveva domandato. Passa le sue giornate osservando il soffitto e sbadigliando. I disegni sono abbandonati in un angolo della stanza; non ha osato aprirli dopo la prima volta.
La finestra è alle sue spalle. Sherlock preferisce non guardare fuori; la bellezza della campagna inglese lo rattrista. Quando piove, poi, la lascia aperta, restando immobile mentre le gocce d’acqua gli bagnano il volto ceruleo e i capelli sconvolti.
Un mese di silenzio, e così tante parole strozzate da poterci affogare.

La prima volta che mette piede fuori dalla sua stanza è perché sono sei giorni che non tocca cibo - sei giorni che lo nasconde sotto il materasso - ed è svenuto, troppo debole anche solo per arrivare al letto e stendersi, liscio sul pavimento freddo, la camicia bianca troppo larga sul suo busto cadaverico. Due infermieri accorrono appena se ne accorgono, anche se ne basterebbe anche solo uno per sollevare quello che rimane di lui. Viene spostato in una stanza attrezzata, gli viene somministrata una flebo, e quando le sue palpebre si alzano, la prima cosa che vedè è il tramonto illuminare quella nuova stanza di arancione; poi riconosce il volto topino dello psicologo Symons, in piedi accanto al suo letto.
“Lei non ha mangiato niente, Signor Holmes. Per sei giorni. Vuole per caso morire?”
E’ la prima volta in un mese e mezzo che Sherlock da segni d’attività, con un mezzo sorrisetto sardonico. Morire? Lui?
“Comunque,” continua lo psichiatra, guardando per un attimo in basso “c’è qualcuno qui per lei, che vuole vederla.”
Il cuore di Sherlock perde un paio di battiti, pensando a chi possa essere; quando la porta si apre, ci sono due persone sulla soglia, indecise se entrare o meno. Una è una donna, capelli leggermente più corti di quanto ricordasse, l’altro è un uomo, e sembra sempre lo stesso.
Sherlock salta seduto sulle lenzuola, tirando i tubi e l’ago che lo tengono fermo, gli occhi sgranati “Lestrade! Molly!” è un urlo istantaneo, e sembra essergli tornata la verve d’un tempo. Sono qui per lui, sono qui per lui, per portarlo a casa.
“Lestrade! M-Molly!” gli occhi chiari gli si riempiono di lacrime, la gola gli si chiude, inizia a tremare.
Il dottor Symons esce dalla stanza, lasciandolo solo con i due che si avvicinano imbarazzati al suo letto.
“A-abbiamo sentito che sei stato male,” inizia Molly, a voce bassa. Anche gli occhi sono bassi verso il pavimento.
“Non immaginate” bisbiglia.
Lestrade rimane in silenzio. Lo guarda, invece, con sguardo vacuo.
C’è un attimo di silenzio, dopodiché Molly ricomincia a parlare “Non si parla altro che di te, nel reparto, sai”
“Dì all’intero Bart’s che sto tornando, cara, cara Molly” sussurra il moro, con un l’inizio di un sorriso.
Un sorriso, purtroppo, interrotto dall’espressione della donna. Molly lo guarda con compassione, tristezza e pietà.
“Sherlock...io non lavoro al Bart’s” dice, scuotendo la testa.
“Cos- Perché?”
“Non ho mai lavorato al Bart’s, non sono un medico.”
Lestrade continua a fissarlo in silenzio. Sherlock poggia di nuovo la schiena contro i cuscini, lo sguardo di nuovo vacuo e spento. Non ha intenzione di replicare. Dentro di lui, li sente: i mille frammenti della sua sanità infilzarsi nel cuore, nei polmoni, nel fegato; sente gli organi interni disgregarsi, un procinto di vomito farsi vivo, un malessere forte, un pugno allo stomaco. Non parla. Non li guarda.
“Sono Molly Hooper; siamo stati amici, durante questi quindici anni, quando sei stato cosciente. E’ la prima volta che mi permettono di parlarti dopo il 2006.”
“Cosa è successo nel 2006?” chiede distaccatamente Sherlock, come se non fosse più se stesso.
Molly sorride, imbarazzata “H-hai cercato di...di farmi del male,” sembra spaventata dal ricordo “Ma! Ma lo so che non eri in te, insomma lo eri, ma...ecco, eri sconvolto. Capisco come ci si sente. Sono stata dismessa solo due anni fa, quindi ricordo ancora vividamente come ci si sente. Ogni tanto ho paura ritorni, ma scaccio via quei pensieri.”
E Sherlock vorrebbe dirlo, a chiunque sia la donna che gli si para dinanzi, che non sa assolutamente come ci si sente, che non può immaginarlo, che se anche fosse vero tutto quello che gli hanno detto, lui non desidererebbe altro che tornare, tornare, nel suo mondo, tornare al sicuro e lontano da tutto quel dolore. Il suo corpo è un tempio di disperazione, le sue vene risucchiate di ogni goccia di sangue, i suoi occhi stanchi di svegliarsi sempre nella stessa realtà, la sua mente stanca di non sapere più chi essere.
“Che è venuto a fare, quell’altro?” chiede annoiato Sherlock.
“Greg? Greg non parla,” Molly lancia uno sguardo veloce all’uomo, uno sguardo di tenerezza, di amore. Sherlock brucia di invidia nel vedere che condividono ciò che lui ha perso “Greg ascolta. E’ guarito anche lui anni fa, ma ha mantenuto questa accezione.”
“Beh, non c’è niente da ascoltare. Niente di niente.”
Sono le ultime parole che Sherlock pronuncia.
Quando Molly Hooper si rende conto che non aprirà più bocca, prende l’uomo al suo fianco per mano, ed insieme escono dalla stanza, lasciandolo solo a se stesso.

La volta dopo che esce dalla sua stanza è un pomeriggio, e non è costretto da nessuno. Sono passati cinque mesi dal suo “arrivo” in ospedale. Un’infermiera nuova, di nome Sylvia, gli ha detto che c’è una grande biblioteca, lì. Che durante i turni liberi ci va spesso, e che se proprio non vuole uscire gli potrebbe portare lei qualche romanzo. Sherlock reclama di disprezzare ogni forma di conversazione, dice che farebbe bene a stare zitta mentre pulisce la camera, ma la ragazza insiste. Eventualmente, le da retta. Le chiede di condurlo lì, quel pomeriggio, e lei ne è ben contenta. Chiama un altro infermiere - per sicurezza - e lo guida fuori dalla sua stanza.
Camminare per i corridoi è difficile. Sylvia gli suggerisce di non fermarsi troppo ad osservare gli altri, di procedere con calma. Sherlock è ansioso; se non sapeva rapportarsi alla folla nella sua Londra, figurarsi in questo covo di maniaci. La sua mente si estranea fin quando l’infermiera non gli segnala il loro arrivo.
La biblioteca è grande, ariosa, con enormi vetrate dalle quali entra la luce del sole. Per la prima volta in cinque mesi si sente quasi sollevato da qualcosa. Il suo approccio al luogo è dapprima timido, si guarda intorno circospetto. Poi, quando Sylvia e l’infermiere si allontanano - il giusto da osservarlo senza farsi troppo vedere, ne è sicuro - comincia ad esplorare gli scaffali, a prendere tomi a caso, a sfogliarli. Sherlock perde la cognizione del tempo, e passa lì dentro circa quattro ore. Quando infine è troppo buio per continuare a leggere - un manualetto sull’idrolisi -, Sylvia lo viene a scuotere gentilmente e ad avvisarlo che è tempo di tornare in camera.
Quella notte, esausto, s’addormenta senza troppi pensieri. E’ una giornata di prime volte, e un po’, in un angolino della sua anima, ha paura di abituarsi a questa vita.

Stranamente, sembra davvero tranquillizzarsi; anche se, più che tranquillità, gli sembra una resa silenziosa. Di Sherlock Holmes rimane ben poco; un fantasma smagrito e pallido, uno sguardo non più acceso da tutta quella curiosità di un tempo, un animale domato e silenziosamente calmo. Accetta i sedativi con disinteresse, mangia solo se necessario, legge di tutto e per ore. Saltuariamente, addirittura, rivolge la parola all’infermiera Sylvia. In qualche modo, glielo deve per avergli mostrato la biblioteca.
Ma le provocazioni sono scomparse, le urla notturne pure, e con loro ogni voglia di lottare. Non riesce a tornare alla sua vecchia vita, non riesce a credere che sia stata tutta una sua macchinazione, e allo stesso tempo pensa a Molly Hooper, a Greg Lestrade, ai disegni, ai documenti.
Le settimane passano in una calma bianca e letargica. Come un lungo sonno senza sogni.

Una mattina si sveglia per ritrovarsi quello che sembra suo fratello maggiore seduto alla sua scrivania, il disegno di Victor Trevor in mano, la solita posizione distinta, anche se diversa, in qualche modo. E’ vestito con un semplice cardigan su un pantalone di velluto beige a coste, uno stile che non gli si addice per nulla. Ancora prima che suo fratello apri bocca, Sherlock già sa. O non è lui, o tutto ciò che gli stanno ripetendo da mesi è la verità, perché l’uomo che gli si para davanti non è, per nessun motivo, Mycroft Holmes.
“Che lavoro fai?” chiede Sherlock, guardando fuori dalla finestra.
“Ora o prima?”
“Ora.”
“Niente. Non c’è un posto nella società per un pregiudicato come me.”
Sherlock deglutisce un paio di volte, solo per dire, vagamente, “Tu non sei mio fratello.”
“Non ho mai cercato di esserlo.”
Quel pomeriggio rifiuta l’offerta di Sylvia di recarsi in biblioteca. Invece, rimane tutto il giorno ad osservare la campagna soleggiata dalla finestra.
Passa una settimana senza andarci. Una settimana a riflettere. Eventualmente, inizia a valutare l’idea che sia tutto vero. Mycroft.
Chi avrebbe potuto corrompere Mycroft?
E Molly Hooper. La dolce Molly Hooper che era tanto innamorata di lui.
Greg Lestrade, un uomo giusto.
L’ultimo nome aleggia sulle sue labbra, ma non ci pensa. Non ci pensa da molto tempo, ormai. Sa che cadrebbe in pezzi su quel pavimento, altrimenti.

Lights will guide you home.
And ignite your bones.
And I will try to fix you.

L’equilibrio si spezza al nono mese, una notte. In un sogno.
Sherlock chiude gli occhi e si ritrova al numero 221b di Baker Street. Per un attimo gli sembra di esserci riuscito, a ritornare a casa. Salta due gradini alla volta, una leggerezza nel cuore tutta nuova, poggia entrambi i palmi sulla porta scura e fa irruzione nel loro appartamento. Sente già l’odore di caldo e casa.
Quando scorge la figura di John addormentata sul divano si ferma; immobile, respira, lo osserva, poi trema e si lascia scuotere da silenziosi singhiozzi senza lacrime.
Nella sua mente volteggia la voce del Dottor Symons, non è vero, Sherlock, tutto questo non è reale, ma nonostante questo non riesce a non commuoversi, a non gioire. Perché se anche non è vero, anche se è solo una tragedia della sua mente, anche se durerà per soli due secondi e poi riscomparirà, in ogni universo, in ogni secondo della sua insanità o della sua chiarezza, Sherlock ama John e non c’è altra variabile possibile o contemplabile. Perché una vita vera non varrebbe mille e mille sogni insieme a quell’uomo.
Sherlock lo osserva, gli si avvicina, si accascia accanto a lui, e piange, piange forte e John non si scuote, non lo sente. Sherlock gli tiene la mano e si sente dilaniato da un dolore indicibile, mentre l’altro non si sveglia, perché non può sentirlo, perché non c’è, perché è falso, così irreale e intangibile, e Sherlock sta cominciando a dimenticare persino il suo odore, ed è triste, davvero, davvero triste. Sherlock abbraccia un uomo senza neanche un volto definito, ma sa che nel suo cuore sarà per sempre John Watson, il suo verissimo e caldissimo John Watson, più che un sogno.
Quando si sveglia osserva un’alba chiarissima. E’ un risveglio calmo, il suo. Lento e graduale. Nella sua testa c’è un ordine e una chiarezza tale da farlo sentire quasi in pace.
Guarda dalla finestra gli alberi stiracchiarsi sotto i primi raggi del sole, passa con lo sguardo per le strade sterrate e i campi di fiori, vola oltre ciò che non può vedere e sogna di essere libero. Libero, da ogni cosa. E’ così stanco, Sherlock Holmes. Stanco di non provare nulla o di provare tutto.
Sorride all’alba.

Due ore dopo arrivano giusto in tempo, Sylvia e gli altri infermieri. Giusto in tempo per salvare un uomo sorridente steso sul letto, con il volto ancora bellissimo illuminato dalla luce del giorno, a prima occhiata addormentato, ma dopo vari controlli con un polso inesistente e una pupilla pressoché iper-dilatata e opaca.
Diagnosi: suicidio.
Causa: pillole e sedativi, nascosti in un buco nel parato dietro il letto.
Situazione attuale: coma indotto da barbiturici, tranquillanti e oppiacei. Situazione stabilizzata.



Non voleva davvero morire, o forse sì. L’unica consapevolezza che ha è che, per un secondo, ha pensato che se era tornato alla realtà “morendo” nell’altro mondo, sarebbe potuto tornare lì facendo lo stesso. Un pensiero stupido, forse, ma il calore del corpo indistinto di John e di Baker Street gli aveva fatto compagnia tutta la notte. Era stanco, tutto qui. Anche questa volta, comunque, la sua pellaccia aveva resistito e, nonostante tutto, continuato a vivere.

Sherlock Holmes si sveglia dal coma autoindotto e si rende conto che non c’è più nulla da fare.
In qualche modo, accetta la sua condizione.
Sylvia ogni giorno gli porta una buon tazza di tè e cerca di fare conversazione. Le sedute dal dottor Symons aumentano. Sono tutti spaventati che riproverà a fare un gesto folle come l’ultimo, anche se lui li tranquillizza dicendo chiaramente di non averne nessuna intenzione. Nella sua testa, quasi accetta la voce di John che ogni tanto gli fa compagnia. Non gli risponde ad alta voce, sa quanto sia finta, ma la tiene in disparte come qualcosa di molto bello e molto prezioso.
I mesi passano, le giornate belle si avvicendano. Sherlock Holmes non è quello di un tempo, comincia a plasmarsi, a cambiare, a divenire quasi un’altra persona. Le ferite di quel lungo anno sono ancora fresche dentro sé, ma in qualche modo riesce ad andare avanti, meglio di prima.
Tutti si chiedono cosa sia successo nella sua mente.
Alcuni dottori mormorano sia tornato nel suo mondo per lasciarlo definitivamente, altri che non ha intenzione di vivere per davvero, altri ancora sostengono che in realtà raggiunge il suo mondo nel sonno, e che per questo può sopportare il peso di una realtà; dopotutto, non recuperi in un anno una vita di quindici anni.
Ed è vero. Sherlock lo ammette. Non si sente per nulla recuperato, il dolore nel suo cuore non è rientrato nei margini di quel fiume che è la sua anima, no. Ma c’è qualche altra cosa che ha preso il posto del dolore cieco: la calma e lenta accettazione.
Inoltre, non lo dice a nessuno, non lo racconta, a nessuno, neanche nelle sedute più sincere, che John gli ha fatto visita per ogni giorno dei due mesi di coma. Che gli ha portato ogni giorno bellissimi fiori, che s’è seduto con lui sulle lenzuola azzurrine a giocare a Trivial, che era corso al distributore automatico a prendergli tutti i maltesers che voleva, che era stato lì, proprio vicino al suo letto ogni notte in cui Sherlock non si sentiva ancora pronto a svegliarsi.
Nessuno lo sa, ma in silenzio, hanno avuto gli ultimi momenti che il mondo poteva loro concedere. E si sono salutati, non come in una tragedia, ma come in una ingiallita pagina di romanzo lasciata a fluttuare sulle acque di un lago verde di ninfee. Si sono salutati sfiorandosi la pelle e odorandosi e guardandosi come fossero entrambi da un lato di uno specchio, toccandosi i palmi e sorridendosi.
E’ ora di andare, gli aveva detto John. Ed era così che era finita. Così che la sua vita aveva ricominciato a scorrere.



Epilogo.

E’ una mattina luminosa all’ospedale. Sono passati ventiquattro mesi da quando s’è risvegliato. Ora gli permettono di uscire nel piccolo parco della struttura, di sedersi sulle panchine e osserva le anatre del laghetto. Non sono molti i pazienti a cui lo permettono, ma lui è ora fra quelli. Sono stati due anni di lunghe sedute, di lunghi silenzi, di lunghe giornate senza la luce del sole. Sherlock è grato di potersene beare, ora. Di poter disegnare, con una penna stilografica e un foglio di carta di riso, sulle rive di quel laghetto personale. A Sherlock piacciono le anatre: hanno movimenti sinuosi, mentre si immergono a prendere un pesce e riemergono spennacchiate. Ci sono molti disegni, delle anatre, fra i suoi fascicoli. Il resto dei disegni rappresentano persone del suo reparto, gli infermieri che gli sorridono, i suoi amici pazienti, il portantino di nome Brad che gli passa sempre il telecomando della televisione comune, a patto che non veda solo documentari sulla chimica.
Una leggera brezza scuote le fronde degli alberi, e Sherlock sente un po’ di freddo mentre accavalla le gambe e continua a disegnare.
Questo è un disegno diverso dagli altri, perché, come Sherlock sa bene, è un disegno d’addio. Ogni artista ha il suo testamento spirituale, e questa mattina Sherlock osserva il cielo terso e sa che è giunto il momento. Le linee si susseguono con dedizione e malinconia - Sherlock disegna una panchina, quella di fronte a quella su cui al momento è seduto, disegna il laghetto, le anatre.
John Watson, seduto sulla panchina, lo osserva con un piccolo sorriso, di quelli suoi, di quelli timidi e un po’ reticenti; quei suoi sorrisi tremuli. La mano di Sherlock trema nel delineare i tratti dell’uomo che, nel suo cuore e nella sua testa, ha amato così tanto. Tutti i loro momenti, tutti quei piccoli istanti, sembravano così perfetti, forse anche troppo; Sherlock doveva immaginarlo. Era stato un sogno troppo ovvio, una storia incastonata in uno scenario fantastico; le corse mozzafiato fra le strade di Londra, prendi la mia mano, i casi, i pericoli, le ferite, compra il latte prima di tornare a casa, i piccoli segreti sussurrati fra le coperte, coprire i dolori dell’altro, il Natale a Baker Street, lui che suona il violino e John che sorseggia il tè, i bigliettini sul tavolo, i litigi, le parole sprecate, la quotidianità, gli inseguimenti in taxi, il modo in cui John aggrottava le sopracciglia, i bisogni, i film, gli esperimenti, il disordine, farlo nei posti più strani, il blog, le sue dita, il modo in cui si doveva alzare sulle punte per baciarlo, le sue labbra incastrarsi perfettamente con le sue, le accuse, gli schiaffi, i pianti, le deduzioni, le insicurezze, i suoi capelli biondi, l’amore.
John Watson lo osserva dall’altro lato del laghetto e gli dice addio, questa volta davvero per sempre, con un silenzioso e lento labiale, con un sorriso, con la pace negli occhi.
Sherlock carezza il foglio per un attimo, un ultimo sguardo agli occhi del dottore, un ultimo flash dei momenti più felici della sua vita (perché nonostante tutto, lo è stata, vita, falsa o vera che sia), poi chiude il taccuino.
Mentre s’accovaccia per dare un po’ di pane alle anatre, la luce del sole è così forte da farlo lacrimare. Da farlo accasciare leggermente al terreno e scuotergli la schiena in leggeri singhiozzi.

Sylvia gli regala una sciarpa il giorno in cui lo dimettono. Ha fatto tanto per lui.
Molly e Greg sono lì, anche, e lui addirittura gli sorride. Circa.
Suo fratello lo viene a prendere al tramonto.
Si lascia persino scappare una lacrima, piccola e tonda, prima di prendere i bagagli e uscire dall’ospedale, nel vero mondo.


Era stato strano ritrovarsi in una casa tutta sua. Una casa della quale non ricordava niente, né conosceva i corridoi o la posizione degli interruttori. Ora si era abituato, circa, e cercava di condurre una vita quanto il più normale possibile. Di giorno mangiava ciò che gli andava, e prendeva le sue due pillole giornaliere, leggeva un libro ed aveva persino un gatto. Si chiamava Black.
Proseguiva, così, con tranquillità, con colori pastello e silenzi scossi dal vento, la sua esistenza.
Qualcosa gli mancava, in fondo al suo essere, ma dopotutto non era la stessa persona di un tempo. Non aveva bisogno di casi o di utilizzare un’intelligenza superiore che forse, alla fine, non possedeva neanche.
Così i giorni passavano.

Una settimana dopo il suo rilascio, abbastanza perché Mycroft aveva smesso di portargli la spesa a casa, scende per la prima a volta a fare compere. E’ nervoso, all’idea di dover scegliere da sé cosa prendere, chiedere, e pagare, e fare tutte quelle piccole azioni che insieme l’avrebbero reso un cittadino come gli altri, ma non per questo si impedisce l’opportunità di tornare a vivere.
E’ una bella giornata. Il sole gli scalda la pelle bianchissima e rende i suoi occhi ancora più chiari. C’è una leggera brezza, freddina, anche, che gli rende il naso rosso e i capelli ancora più arricciati e lucidi.
Compie le sue spese con meticolosa calma, attraversando i reparti del supermercato lentamente, prendendosi tutto il tempo che gli serve. In un’altra vita, non sarebbe mai stato così paziente, ma ora sì. Ora l’aveva promesso, e sapeva che non faceva che giovargli.
Le buste non pesano molto, così, invece che prendere un taxi, decide di camminare fino a casa.
Sulla via di ritorno, poco lontano da casa sua, tuttavia, è un odore dolce che gli cattura l’olfatto. Pane, impasto. Croissants.
Si volta giusto il necessario per occhieggiare la panetteria dall’altro lato della strada, un negozio modesto, che pare chiamarlo. Gli sembra familiare; gli ricorda qualcosa che non sa definire.
Osserva per un paio di minuti la struttura dall’esterno, indeciso se entrare o meno. Alla fine opta per un sì, ed entra, deciso.
Allo smuoversi della porta un campanello suona avvisando della sua presenza nel negozio; tutto intorno c’è un calore e un odore che lo avvolgono totalmente.
Sherlock si guarda intorno, poi punta gli occhi al bancone, osservando i croissant lucidi e perfetti. Sorride, rapito.
“Le piacciono i croissants?”
“Sì, molt-”- è uno sguardo.
Sherlock alza gli occhi verso il commesso dietro il bancone. Rimane fermo per un po’ ad osservarlo, sente il labbro inferiore tremargli.
“Si sente bene?”
Muove le labbra ma non riesce a rispondergli. Gli occhi gli si riempiono di lacrime, ma cerca di non mostrarlo, strizzando gli occhi e cominciando a sorridere.
“S-sì” risponde, piano, eventualmente.
La luce del sole illumina il volto di John Watson mentre, con un sorriso stranito, dice, divertito “Deve volere davvero molto quei croissant.”
“Sì.” risponde Sherlock, un sorriso stupido, anzi stupidissimo, stupido molto davvero stupido sulle labbra, “Sì. Non ne ha idea.
Non ne ha idea.”



FINE.








ps. ciao a tutti, sto valutando se continuarla, in qualche modo, in uno spin-off ~ ci penserò, sì sì. Intanto grazie per essere arrivati fin qui! ~~ fatemi sapere cosa ne pensate, ahah!
   
 
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