Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: holls    26/02/2014    8 recensioni
Un investigatore privato, solo e tormentato; il suo ex fidanzato, in coppia professionale con un tipo un po' sboccato per un lavoro lontano dalla luce del sole; il barista del Naughty Blu, custode dei drammi sentimentali dei suoi clienti; una ragazza, pianista quasi per forza, fotografa per passione; e un poliziotto un po' troppo galante, ma con una bella parlantina.
Personaggi che si incontrano, si dividono, si scontrano, si rincorrono, sullo sfondo di una caotica New York.
Ma proprio quando l'equilibrio sembra raggiunto, dopo incomprensioni, rimorsi, gelosie, silenzi colpevoli e segreti inconfessati, una serie di omicidi sopraggiungerà a sconvolgere la città: nulla di anormale, se non fosse che i delitti sembrano essere legati in qualche modo alle storie dei protagonisti.
Chi sta tentando di mettere a soqquadro le loro vite? Ma soprattutto, perché?
[Attenzione: le recensioni contengono spoiler!]
Genere: Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
27. Corsa contro il tempo
 
 
26 gennaio 2005.
La canna gelida scivolava lentamente sul suo collo.
Ogni momento poteva essere l’ultimo, ogni centimetro in più era un attimo di vita concesso.
Ebbe paura di non fare in tempo a ricordare tutte le persone che gli erano care, prima che il grilletto fosse premuto.
Il suo primo pensiero andò ad Alan, a tutto ciò che li aveva separati e che li aveva uniti. A quei momenti in cui erano stati distanti, quelli in cui si erano odiati, quelli in cui si erano amati.
E a quel maledetto sms dove lo avvertiva che sarebbe rientrato più tardi.
Destino infame.
Di fronte a lui, Jack ghignava e sorrideva, consapevole di averlo in pugno.
No, non voleva che il volto di quel ragazzo fosse la sua ultima immagine. Provò a pensare nuovamente ad Alan, a suo fratello, ai suoi genitori, a Hank, ma troppe immagini si accatastarono nella sua mente, trasformandosi in una nebulosa confusa che aveva gli occhi di uno e la bocca di un altro.
Jack gli puntò la canna sotto il mento e ogni pensiero svanì.
« Ci pensi? Basterebbe premere il grilletto e tu non esisteresti più. Non è grandioso? »
Nathan deglutì a fatica. Sentiva il cuore pulsargli nella testa e la mente era sempre più annebbiata, confusa tra i ricordi sfocati di quei volti e un possibile scenario dove si salvava. Doveva cercare una scappatoia, doveva bluffare.
La gola era completamente riarsa e inumidirla non era facile, in quella posizione. Provò a parlare, fissando lo stipite superiore della porta.
« Alan tornerà da un momento all’altro. Fossi in te, me ne andrei. »
Jack sghignazzò ancora e Nathan sentì la pistola muoversi su e giù, seguendo il ritmo della risata.
« Allora dovrò ucciderti subito. Non posso certo correre il rischio che mi trovi. »
La pistola si allontanò dal suo mento e Nathan abbassò leggermente il capo. Se la ritrovò davanti agli occhi.
« Sei proprio sicuro che stia per tornare? »
Tremò e strinse le labbra. Poi, d’istinto, scosse il capo.
Jack sogghignò.
« Lo sapevo. »
Fregato. Doveva pensare ad altro, e in fretta. Temporeggiare non sarebbe servito: Alan sarebbe rincasato al minimo tra un’ora e, di certo, Jack non sarebbe rimasto lì tutto quel tempo. Provò a giocare un’altra carta.
« Non penso che tu sia davvero in grado di uccidere una persona. »
Jack ridacchiò ancora, poi lo fissò con uno sguardo malizioso.
« L’ho già fatto. »
Il respiro di Nathan si fece sempre più affannato, tanto che, ormai, era facilmente udibile. La risposta di Jack dovette mettersi in coda dietro agli altri mille pensieri che affollavano la mente di Nathan. E, quando arrivò il suo turno, spalancò gli occhi, incredulo, mentre le sue labbra erano incapaci di dar vita a quella sensazione di stupore e terrore.
Jack scosse il capo, divertito.
« Quanto sei ingenuo, Nathan. Mi scoccia davvero dovermi sporcare le mani con te. Ma, almeno, quello stronzetto avrà la punizione che si merita. »
Il rimbombare del battito del suo cuore gli aveva fatto entrare un gran mal di testa. Pensando a cosa sarebbe potuto accadere se solo avesse commesso un suo passo falso, sentì il respiro ingrossarsi ancora di più, la testa nel panico, le mani umide.
Chiuse gli occhi e tentò di ritrovare la calma. Come li riaprì, vide ancora il volto di Jack diviso in due dalla facciata della pistola. Cercò di prendere tempo.
« Di che parli? »
« Parlo del tuo ragazzo. Sai, all’inizio volevo sbarazzarmi di te per avere campo libero, ma adesso voglio solo eliminarti per vederlo patire le pene dell’inferno. »
Alan.
La sua immagine sfrecciò nuovamente tra i suoi pensieri.
Alternava presagi di morte, volti conosciuti e azioni che avrebbe potuto realizzare, se solo non avesse avuto i piedi incollati al pavimento.
Elaborò le parole di Jack. E tutto cominciò a prendere forma. Quasi inconsapevolmente, spalancò la bocca per lo stupore.
« Sánchez…! »
Jack gli batté lo spigolo della canna sulla fronte un paio di volte.
« Sei astuto, eh? »
Buttò giù la poca saliva che riusciva a produrre, pagando l’attrito della sua bocca secca. E poi, capì.
Sánchez non era morto per questioni di droga, né per affari sessuali. Era morto solo perché qualcuno potesse accusarlo di quell’omicidio. Qualcuno come Jack, per esempio: se fosse riuscito a farlo incriminare, avrebbe avuto campo libero con Alan.
« Proprio una brutta storia, vero? E non è nemmeno andata come volevo. Esattamente come quella del tuo amico Ashton, d’altronde. » Jack schioccò la lingua. « Tsè, ho parlato fin troppo. »
Nathan spalancò la bocca, incredulo.
« Ash? Ma perché… ? »
« Sapeva un po’ troppe cose. Come te, del resto. Motivo per il quale ti conviene recitare la tua ultima preghiera. » Un sorriso sinistro si dipinse sul volto di Jack. « Addio. »
Uno sparo.
Il nulla.
Eppure percepiva una sorta di realtà. Appannata, distorta, confusa.
Nathan riaprì gli occhi, il tempo necessario per capire che si era davvero avventato contro Jack e lo aveva buttato a terra.
E il colpo era andato al soffitto.
Ebbe solo un manciata di attimi, giusto per capire se fosse vivo o morto, prima che Jack lo spintonasse via con un colpo poderoso.
Barcollò all’indietro, mentre Jack, recuperata la pistola, già la puntava verso la sua vittima.
Nathan appoggiò una mano sul materasso e fece leva per rialzarsi, poi si buttò sul suo aggressore, prima che potesse sparare un altro colpo. Lo colpì al ventre, facendo perdere a Jack ogni equilibrio, e si ritrovarono nuovamente uno sopra l’altro. Unì i polsi di Jack e li bloccò con una mano, mentre con l’altra tentò di prendere la pistola sfuggita alle mani del suo aggressore; ma, a un passo dalla meta, Jack riuscì a liberare un braccio e strinse il polso di Nathan con una presa decisa, bloccando i suoi movimenti.
Pensò rapidamente a cosa fare, a come recuperare la pistola e puntarla addosso a Jack; ma una tremenda fitta allo stomaco interruppe ogni pensiero e capì di essere stato colpito con una ginocchiata. L’istinto di rannicchiarsi permise al suo aggressore di recuperare la pistola e rimettersi in piedi, ancora una volta.
E, come alzò lo sguardo, se la ritrovò di nuovo puntata davanti al viso.
È finita.
Recitò davvero la sua ultima preghiera.
Chiuse gli occhi e li strizzò, perché la sua ultima immagine fosse il buio, riscaldata da quelle lacrime di terrore e desolazione. Cercava di memorizzare qualsiasi informazione proveniente dai suoi sensi, ma tutto ciò che aveva era il buio e un rumore martellante per la testa. Desiderò che fosse solo un brutto sogno, una brutta avventura che no, non poteva capitare a lui, perché certe cose le leggi solo nei libri, le vedi solo nei film. Certe cose capitano agli altri, non a te.
Ma la sua preghiera, in qualche modo, arrivò a destinazione.
Il campanello suonò, seguito da quattro colpi di nocche.
Nathan riaprì gli occhi, forse per riacquisire un contatto con la realtà. Teneva lo sguardo basso, ma fu sufficiente per vedere Jack indietreggiare di qualche passo, senza mai abbandonare la stanza.
Sentì una voce in lontananza.
« Tutto bene, là dentro? »
Riconobbe la voce della vicina del secondo piano, ma né lui né Jack risposero. Nathan teneva ancora gli occhi rivolti verso il pavimento, rannicchiato il più possibile in posizione fetale. Tremava.
Sperò che la signora bussasse ancora, che si impensierisse maggiormente, che, spinta da un eccesso di preoccupazione, chiamasse comunque la polizia. E invece i suoi passi si fecero sempre più lontani, fino a che non scomparvero.
Si rese conto che quello non era il film a cui sperava di assistere, dove alla fine il bene trionfa, la vittima viene salvata e il colpevole arrestato.
Quella era la realtà, dove tutto sarebbe finito davvero.
E lui e Jack erano di nuovo soli.        
Si aggrappò alla trapunta del letto e si domandò se sarebbe stata quella l’ultima cosa che avrebbe visto. Le lacrime, poi, offuscarono ogni immagine.
« A quanto pare dovrò rivedere i miei piani. »
Alzò lo sguardo quel poco che gli bastò per vedere che Jack aveva abbassato la pistola; e così, in un moto istintivo, si rizzò in piedi.
Era la sua ultima occasione.
Si avventò su di lui, puntando le braccia verso il suo collo, senza una strategia ben precisa. Era un animale, guidato solo dall’istinto di sopravvivenza. Tutto, pur di non morire.
Gesti incoscienti, gesti aggressivi.
Gesti inutili.
Il volto di Jack si contorse in un’espressione di sforzo, e Nathan fece appena in tempo a vedere l’impugnatura della pistola puntata dritta sulla sua tempia. Quel colpo lo fece barcollare e perse rovinosamente l’equilibrio. Il capo sbatté contro l’armadio di legno massello che si trovava proprio alla sua destra, e una scia di dolore prese rapidamente campo in tutta la sua testa. Sentì la realtà distaccarsi completamente dal suo corpo, che perse ogni forza di sostentamento e si accasciò a terra.
E la faccia del suo aggressore fu l’ultima cosa che vide.
 
***
 
Aveva corso più che poteva, ma il traffico non era stato clemente nei suoi confronti. Non aveva nessuna certezza che Nathan fosse in pericolo, ma il suo sesto senso gli diceva che doveva tornare velocemente a casa, quantomeno per avvisare il suo ragazzo della situazione.
Fermo a quel semaforo rosso, dondolava impaziente il piede sul freno e sporgeva la testa a destra e a sinistra, nella speranza di velocizzare il traffico. Procedevano a passo di lumaca e, ormai, si erano fatte le sei di sera. Gli ospiti non avrebbero tardato ad arrivare alla loro festa e lui sperò solo che Nathan ci sarebbe stato per accoglierli.
Buttò un’ultima occhiata alle auto ferme davanti a lui, poi prese il cellulare e compose il numero di casa. Per un attimo il respiro gli tremò, colto da una paura irrazionale di un pericolo imminente.
Il telefono squillava.
Il semaforo diventò verde, ma questo non implicò il diluirsi di quella coda infinita.
Squillava ancora.
Fece pochi metri, per poi fermarsi nuovamente.
Nessuna risposta.
Lasciò che la chiamata cadesse e riattaccò.
Non si diede per vinto e tentò di raggiungerlo anche al cellulare, ma l’unica risposta che ebbe fu il suono di linea libera, seguito dalla voce dell’operatore che Alan troncò bruscamente. Sapeva di non avere in mano alcuna certezza, che le sue preoccupazioni rasentavano la paranoia e che Nathan poteva aver avuto mille motivi per non rispondere.
Ma perché era così irreperibile?
Incurante delle altre macchine, mise il lampeggiatore e schizzò fuori dalla lunga coda, facendo un’azzardata inversione a U.
Avrebbe preso un’altra strada.
 
Aveva schiacciato parecchio l’acceleratore, ma almeno era arrivato. Aveva appena svoltato nella via di casa, quando, davanti ai suoi occhi, si materializzarono le paure che lo avevano attanagliato in quelle ultime ore.
Un piccolo nugolo di persone, infatti, era fermo ad aspettare sotto casa sua e, tra quelle, riconobbe la chioma bionda di Madison.
Perché stavano aspettando là sotto? Perché non erano stati accolti in casa?
Inchiodò all’improvviso, non appena vide qualcosa di simile a un posto libero. Fece qualche manovra alla meno peggio e scese di macchina in tutta fretta, tanto che quasi si scordò di chiuderla. Aggirò il muso dell’auto e corse verso gli altri.
Come aveva visto, c’erano Madison e Ashton, che ancora portava il gesso, più un altro ragazzo che non conosceva – o riconosceva, perché era sicuro di averlo già visto altrove.
Sentì crescere, dentro di sé, un innaturale senso di inquietudine. Ashton lo guardò stupito.
« Alan, finalmente sei arrivato! È da dieci minuti che stiamo suonando, ma non apre nessuno. »
Battito accelerato. Groppo in gola difficile da digerire.
« Nathan non è in casa? »
Ashton fece spallucce.
Buttò un’occhiata anche agli altri invitati, nella speranza che avessero qualche risposta per lui. E, invece, l’unica informazione che ottenne era che l’altro ragazzo era un amico di Nathan e si chiamava Hank.
Completò il giro di sguardi, più smarrito di prima. Aveva paura di sentirsi sciocco, nel preoccuparsi di qualcosa che, probabilmente, esisteva solo nella sua testa; ma, alla fine, l’istinto prevalse.
Alan frugò tra le tasche e si avventò sul portone, estraendo le chiavi più in fretta che poté.
« Alan, tutto bene? Che succede? »
Per la prima volta, lo capì, aveva paura. Spesso aveva affrontato casi difficili e che richiedevano sangue freddo, ma l’unica emozione a caratterizzare quegli attimi era l’adrenalina, quasi una sorta di eccitazione.
In quel momento, invece, era terrorizzato. E, come fece scattare la serratura, sentì il coraggio venirgli meno. Avrebbe dovuto correre verso il suo appartamento, ma, ad ogni passo, si sentiva sempre più debole. Si voltò verso Ashton, in cerca di aiuto.
L’altro scosse il capo, senza capire, salvo poi andare dietro ad Alan quando questi lo invitò con un cenno del capo. Madison e Hank lo seguirono, lanciandosi occhiate dubbiose. Non si rendevano conto della situazione.
Alan salì i gradini due a due, finché non arrivò davanti al portone. Il suo collega lo raggiunse e Alan si voltò verso di lui.
« Ash, tieniti pronto a intervenire. »
L’altro aggrottò la fronte.
« Ma cosa…? »
« Fa’ come ti dico e basta. Voi due, » disse, rivolgendosi a Madison e Hank « state attenti e rimanete indietro. »
Alan infilò le chiavi nella serratura. Le girò piano, cercando di fare meno rumore possibile. Estrasse la pistola dalla fondina e la puntò dritta davanti a sé; poi aprì lentamente il portone, ma senza spalancarlo.
Infilò la bocca dell’arma nella fenditura che si era creata, pronta a sparare a un eventuale aggressore; Alan scattò verso il retro della porta, preceduto dalla pistola.
Non c’era nessuno.
Si girò verso Ashton e gli fece un cenno silenzioso.
Alan aprì la porta completamente ed entrò in casa, seguito dal suo collega. Buttò un’occhiata ai possibili nascondigli del suo salotto, ma appurò che non vi era nessuno. Indicò ad Ashton la cucina, alla sua destra; l’altro tirò fuori la pistola di servizio e si accostò al muro. Strisciò quel poco che bastò per avere una prima visuale della stanza; come Alan prima di lui, scattò verso l’interno della cucina, ma, anche lì, non c’era anima viva.
Constatato che quella parte della casa era al sicuro, fecero entrare Madison e Hank, che si rintanarono nell’angolo dell’ingresso, coperti da un mobiletto.
Gli altri due proseguirono la loro perlustrazione, sempre in rigoroso silenzio e con passo felpato.
Percorsero il piccolo corridoio che portava alla camera. Alan era già pronto a eseguire le azioni di rito, ma ciò che trovò gli bloccò il respiro.
I suoi occhi erano sbarrati, intenti a fissare un punto circoscritto del pavimento.
Sangue.
Poche tracce, non molto evidenti, ma che a lui non erano sfuggite.
Con imprudenza, entrò nella stanza, senza mai distogliere lo sguardo da quelle macchie. Si acquattò per osservarle meglio, e non poté non notare che alcune avevano una forma allungata, come se qualcuno fosse stato trascinato. Si rese conto che la quantità era troppo esigua per poter pensare a una ferita di grave entità, ma, nonostante questo, non riusciva a stare tranquillo.
Sentì la voce di Ashton sopra le sue spalle.
« In bagno non c’è nessuno. La casa è vuota. »
All’improvviso, anche l’altro si accovacciò accanto a lui.
« Ma questo è… sangue! Oddio, ma che è successo…? »
Solo in quel momento, Alan si accorse che le tende della finestra sventolavano, sospinte dalla forza del vento.
Qualcuno aveva usato quell’uscita, che conduceva alle scale di emergenza, sul retro dell’edificio.
Alan si rialzò repentino, seguito dal suo collega.
Si sentì tremare come mai in vita sua. Sentiva di non riuscire più a tenere a freno le emozioni, di non riuscire più a essere razionale. Nella sua testa c’era solo Nathan, Nathan e poi Nathan.
E il sangue.
Ma un grido soffocò ogni pensiero.
Alan si voltò e vide Madison con gli occhi sbarrati, col dito puntato su qualcosa davanti a lei. Seguì la traiettoria indicata, finché lo sguardo non gli cadde su un piccolo oggetto luccicante. Provò ad avvicinarsi, facendo attenzione a non pestare le tracce di sangue.
Era un piccolo ciondolo dalla forma romboidale, di colore rosso, con all’interno un altro pendaglio più piccolo, incastonato, di colore bianco.
Non appena lo prese tra le mani, un ricordo gli attraversò la mente.
Non era un ciondolo qualsiasi.
Era quel ciondolo.
Ricordò l’escursione di un mese prima e di come quel pendaglio lo avesse salvato da un imminente bacio. Ma non fece in tempo a ripercorrere tutta la scena, che Madison si portò le mani al viso, in un’espressione disperata.
« È di Jack! È di Jack! » Madison si avvicinò ad Ashton, strattonandolo per la giacca. « Che cosa ci fa il ciondolo di Jack laggiù? »
Ashton lo guardò.
« Alan, che sta succedendo? »
Alan si mordicchiò il labbro inferiore, poi si voltò verso il collega.
« Ash, ti ricordi cosa mi hai detto in ospedale? Del fatto che, probabilmente, eravamo tutti in pericolo? »
L’altro ci pensò un attimo.
« L’assassino di Sánchez? Alan, non dirmi che… »
Annuì lentamente, poi emise un respiro profondo.
« Penso proprio di sapere chi ci sia dietro a tutto questo. »
Madison smise improvvisamente di strattonare Ashton e abbandonò le braccia a peso morto. L’altro spalancò la bocca, attonito, poi si portò una mano sulla fronte.
« O mio Dio, non riesco a crederci! Alan, dove potrebbe averlo portato? Hai un’idea? »
Alan scosse il capo, mentre, con la mente, cominciò a ripercorrere tutta la sua storia con Jack, alla ricerca di un posto dove cominciare a cercarlo. Doveva pensare in fretta, perché se Jack avesse seguito le stesse dinamiche di Sánchez, avrebbe caricato Nathan in auto e trascinato altrove per ucciderlo.
Sì, ma dove?
Si disperò, nel vano tentativo di scartare una lista di luoghi improbabili dall’elenco immaginario che aveva stilato.
Poi, però, una frase gli tornò alla mente. Sulla spiaggia, al chiaro di luna, cullati dal rumore delle onde che si infrangono sulla spiaggia.
« Penso che mi piacerebbe morire qui. »
Doveva correre a Coney Island.

 

Salve a tutti! Innanzitutto mi scuso per questo piccolo ritardo, purtroppo ieri sera avevo un impegno e non ho potuto mettere il capitolo! 
In ogni caso, eccoci qui. I nostri eroi arriveranno in tempo oppure sarà troppo tardi? Qualcuno ci rimetterà le penne? Chissà, chissà...
Ringrazio come sempre Silvia, che mi ha aiutato a far filare liscio questo capitolo anche nei punti più rognosi e ringrazio voi lettori per il vostro sostegno appassionato *___* Ormai mancano solo tre capitoli, non vedo l'ora! Anche se mi dispiacerà lasciare questa storia ç___ç
A presto, allora ^^

ps. Silvia, ho fatto una ricerca e il dizionario mi ha approvato "lampeggiatore" XDD
   
 
Leggi le 8 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: holls