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Autore: khyhan    26/02/2014    2 recensioni
– Ci ritroveremo. – urlò. – E ti amerò di nuovo, te lo prometto. Nella prossima vita. In cento prossime vite. Ogni volta mi innamorerò di nuovo di te. Tu sei mia e il mio cuore è tuo.
Settantotto sono le carte dei Tarocchi, settantotto sono le persone che in tempi antichi hanno ricevuto dono di una magia che è insieme una benedizione e una maledizione, perché con il potere cresce anche il seme della follia.
Nel momento in cui Verity abbandona Roma per seguire un misterioso biglietto trovato accanto a cadavere del suo ragazzo non sapeva che ad attenderla ci sarebbe stato il suo destino. Michael è un ladro che non crede in nessuno a parte se stesso ed è perseguitato dal ricordo del suo amore che ha perduto mille volte. Christian è un medico che ha trovato il senso della vita tra i bassifondi di Calcutta ed è costretto ad abbandonare i suoi principi per salvare centinaia di vite.
La follia e il destino hanno voluto che si incontrassero e finissero ciò che era cominciato più di duemila anni prima. Vendetta e potere scorrono nelle loro vene.
La tragedia e l'amore si intrecciano tra passato e futuro.
E il cerchio sta per chiudersi.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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1.2 Il Mago - I segreti della città

I – Il Mago

I segreti della città

 

Parigi. 14 Luglio 2011

 

Michael aprì la porta del locale sovraffollato a sua sorella e si guardò intorno alla ricerca di un tavolino libero. – Angie? – chiamò prendendole la mano – Vieni, andiamo a sederci. – Le spostò la sedia da bar e la aiutò a salire e a mettersi comoda. – Hai guardato fuori il menu? Hai scelto cosa vuoi?

Angéline scosse la testa e si guardò intorno incuriosita. – C’è davvero tanta gente. È così buono il cibo qui?

– Io non direi buono, ma lo assaggerai. – rispose enigmatico. – Cosa vuoi mangiare?

Lei appoggiò il mento sulla mano. – Fai tu, non ho preferenze.

Michael si avviò verso il bancone tenendo sempre sott’occhio sua sorella che ora guardava incuriosita una coppia seduta al tavolino accanto a loro.

Si allungò verso di loro e disse qualcosa che Michael non poté sentire, ma a giudicare dalle facce scandalizzate dei ragazzi, Angéline doveva aver fatto una delle sue solite domande.

– Ciao, cosa prendi? – la sua attenzione venne catturata dalla cassiera e si affrettò ad ordinare il suo solito menu e qualcosa di non troppo stravagante per sua sorella.

Mentre aspettava che i panini fossero pronti, la fila accanto alla sua si allungò e lui perse di vista Angéline. Iniziò a spostare il peso da un piede  all’altro e aspettava che la ragazza finisse di preparare il suo ordine. Come fu pronto, Michael lo prese senza tanti complimenti e tornò da Angéline. Si bloccò a metà strada quando la vide parlare con un ragazzo che lui conosceva bene.

– Claude. – disse gelido resistendo alla tentazione di spaccargli il vassoio in testa. – Che ci fai qui?

– Passavo per caso e ho visto quest’angelo caduto solo soletto. Mi sono chiesto se per caso avesse bisogno di compagnia.

Michael posò il vassoio davanti ad Angéline e guardò male Claude. – Mia sorella, – disse rigido – voleva provare il McDonald. – conosceva Claude e sapeva a che tipo di compagnia si riferisse. Se avesse provato ad alzare un dito su sua sorella glielo avrebbe spezzato davanti a tutti.

– Tua sorella. – lo sguardo di Claude corse da Michael ad Angéline che in quel momento punzecchiava una patatina molliccia con un cannuccia. – In effetti noto una certa somiglianza, avete gli stessi occhi. Chissà se avete anche altre cose in comune. – Michael ci mise meno di un secondo a capire dove stesse andando a parare Claude e strinse i pugni. – No, – disse cercando di trattenere la rabbia. – Io e Angéline abbiamo gusti completamente diversi e poi dopodomani lei parte per il mare. Vero, Angie?

– Uh? – sua sorella li guardò con un sorriso. – Michael, possiamo mangiare? Muoio di fame.

– Se tua sorella parte per le vacanze non può perdersi una serata a divertirsi con noi a Montmartre. – propose Claude senza demordere. Aveva puntato Angéline e non se la sarebbe lasciata sfuggire.

Angéline annuì e afferrò la mano di Michael. – Ci andiamo?

Lui fece finta di pensarci qualche secondo. Montmartre era il suo territorio di caccia insieme a quello stronzo di Claude che ci stava provando con sua sorella.

Se lei avesse visto com’era in realtà ne sarebbe rimasta disgustata. – Angie, ho promesso a mamma di prendermi cura di te e ti ho detto cosa penso di Montmartre. La gente che ci gira, – fissò glaciale Claude, che fece un mezzo passo indietro sotto il suo sguardo. – Non è della migliore.

Claude ghignò. – Non la porti nemmeno se ci sarai tu a proteggerla da gente simile?

– No, e gente simile dovrebbe sparire dalla mia vista. – si sedette davanti ad Angéline, ignorando Claude. – Dai mangiamo, se diventa freddo fa schifo.

– Ma il tuo amico? – chiese Angéline. – Non mangia con noi?

Claude scosse la testa. – Mi dispiace angelo, tra poco ho un appuntamento a cui non posso mancare. Ci vediamo in giro, Michael.

Come Claude sparì oltre la porta gli mandò un veloce messaggio: ‘chiama di nuovo angelo mia sorella e ti affogo.’

– Mangiamo Angie. Nella scatoletta chiusa trovi il pollo fritto, qui c’è il ketchup e la maionese e, – prese un’altra vaschetta chiusa e la esaminò – questa non riesco ad identificarla, quindi la lascerei perdere.

– Perché?

Michael sospirò. – Mangia solo quello che riesci a riconoscere. Fidati. – afferrò il suo menù e scartò il panino, ma si bloccò con la cena a metà strada dalla bocca. Sua sorella lo stava fissando senza toccare cibo. – Cosa c’è? Non ti piace?

– Cos’è quello? – chiese lei indicando il panino di Michael.

– Uhm...Hamburger, bacon, cipolla, non mi ricordo che salsa, insalata e formaggio. Perché?

Gli occhi di Angéline si illuminarono. – Posso assaggiarlo?

Michael annuì e Angéline si allungò sopra il tavolo per requisirgli il panino. – È buono. – commentò dopo il primo boccone. – Un po’ piccante, ma buono.

– A proposito, prima cosa hai chiesto a quei due ragazzi dietro di te?

– Perché mangiavano con le mani. – rispose lei continuando a mangiarsi la cena di Michael soprapensiero. – È carina l’idea di mangiare senza posate, dovrei farlo più spesso.

Michael alzò gli occhi al cielo constatando quanto poco lei sapesse del mondo, poi si accorse che sua sorella stava continuando a mangiare la sua cena. – Angie…

– Si? – chiese continuando a mangiare.

Lui scosse la testa con un sorriso. – A volte mi dimentico che mangi tutto quello che ti capita a tiro. Mi prendo il tuo pollo.

– Me ne lasci uno? Tanto per assaggiarlo. Devo portare qui mamma. – aprì  la vaschetta contenente la maionese, leccandosi l’indice che si era sporcata con un gesto innocente. – Ti immagini la sua faccia quando cercherà la forchetta?

Sì, Michael riusciva a immaginarlo e la cosa non gli piaceva. – Mi scuoierebbe vivo se mai dovesse saperlo.

– Allora sarà il nostro segreto. –  intinse le patatine nella maionese e le assaggiò per poi fissarle con una smorfia. – Queste patatine sanno di olio e sono mollicce.

Michael gliene rubò una beccandosi un’occhiataccia dalla sorella. – Ho detto che mangiare qui è veloce e semplice, non ho mai detto che fosse anche sano. Finiamo e poi torniamo alla macchina.

– Perché?

– Perché ci vogliono venti minuti a piedi per tornare indietro e si sta facendo tardi.

Sua sorella guardò la vetrata e sorrise a un paio di bambini che passarono davanti a lei con i palloncini legati ai polsi – Fuori c’è ancora luce. Perché dobbiamo tornare così presto? – ci rifletté un momento e poi capì. – Oh, te l’ha chiesto mamma?

Michael annuì. – Mi ha chiesto di portati a casa presto. E dopo avrei da fare.

Angéline fissò il vassoio con le mani congiunte sul tavolo e gli occhi bassi. – Come raggiungere Claude? – sussurrò.

Michael rimase a bocca aperta sentendo quelle parole provenire da sua sorella. Lei lo aveva capito più di quanto credesse. – Angie…

Lei scosse la testa interrompendolo. – No. Cioè, voglio dire va bene. So che sei tanto impegnato. – disse con voce bassa. – Solo non fare come la mamma.

Michael posò il cibo sul vassoio con lo stomaco chiuso. – Fare cosa?

– Mentirmi. Nascondermi le cose. Cose così. Quindi, dimmi, più tardi andrai a Montmartre? –domandò diretta.

Michael annuì, scrutando il viso della sorella sull’orlo delle lacrime. – Lo sapevo. – disse lei strofinandosi gli occhi. – E non mi ci porti perché non vuoi farmi vedere i tuoi amici e come ti comporti lì?

– Sì. – sussurrò con vergogna crescente. Sua sorella era l’unica che riuscisse a farlo sentire così. – Angie, mi dispiace.

– Non scusarti. Sei mio fratello, io so che persona sei. – gli prese la mano e le situazioni si invertirono. Era lei che lo stava consolando. – Sei quella persona gentile che mi permette di fare tutto, che si ricorda dei miei saggi di musica e dei miei compleanni. Che una volta al mese, mi viene a prendere ovunque io sia. Che mi chiama quando ho la febbre e legge per me. Non mi importa cosa dice mamma su di te, solo non mentirmi.

Quello che gli chiedeva Angéline era impossibile, se avesse parlato l’avrebbe messa in pericolo o peggio, sua madre gli avrebbe impedito di vederla di nuovo. – Angéline, – di nuovo, non sapeva cosa dirle senza ferirla ritrovandosi impotente. – Ci sono delle cose che non ti posso dire. Ho promesso che non lo avrei fatto.

Angéline sospirò e scrollò le spalle. – Un giorno mi dirai tutto?

– Posso provarci.

– È già qualcosa. – gli sorrise e saltò giù dallo sgabello per poi dargli un bacio sulla guancia. – Qualsiasi cosa sia non mi fa paura. Me la puoi dire, non lo dirò a nessuno.

– Lo so, – disse sfiorandole la guancia con l’indice. – Sei l’unica di cui mi fidi. – alzò la testa sul vassoio, notando che sua sorella aveva lasciato le patate quasi intatte – Non mangi più?

Angéline scosse la testa. – Preferirei il pollo. Le patatine non mi piacciono tanto.

Michael guardò la sua vaschetta quasi finita. – E se invece ti comprassi una brioche al cioccolato? – propose.

– Due. E ti lascio il pollo.

Lui rise e le scompigliò i capelli. – Sei brava a contrattare! D’accordo, vada per due brioche.

– Andiamo? – lo tirò lei.

– Non mi lasci neanche finire?

– No! Il cioccolato rende tutto migliore. Non può aspettare. – trascinò giù Michael che fece appena in tempo a prendere la vaschetta contenente il pollo fritto. Sua sorella afferrò le bibite e gliene mise una un mano. – Tieni. Possiamo finire di cenare mentre camminiamo.

Michael accompagnò Angéline da uno dei suoi fornai di fiducia sul lungosenna della riva destra, ad un passo dall’Ile–de–la–cité.

– Sono buonissime! – commentò Angéline frugando nel sacchetto di carta per prendere la seconda brioche – Devo tornarci.

– Se vuoi ti ci porto di nuovo, ma non credo che mamma si faccia problemi a comprarti una brioche ogni tanto.

Angéline scosse la testa. – Dice che troppo burro fa male e anche il cioccolato. Io non capisco, – disse soprapensiero, masticando la brioche. – Come può una cosa così buona e rilassante fare male?

– Sai, – Michael rise pensando alla ragazza rigida e scontrosa della cioccolateria. – Dovresti dire questa cosa ad una persona che conosco.

Lei si voltò a guardalo stupefatta. – Chi?

– Ad una che non mangia cioccolato.

Angéline si bloccò sul ponte che portava a Ile–de–la–cité, stringendo in mano la busta di carta. – Deve essere una persona molto triste. – commentò infine appoggiandosi alla balaustra.

– Era un po’ rigida, ma non ci pensiamo adesso, okay? – le diete un bacio sulla guancia, chiedendosi perché nominare quella ragazza avesse reso Angéline tanto pensierosa.

– Devi aiutarla.

Batté le palpebre, sconcertato. – Io?

– Tu. – si voltò a guardalo, con lo sguardo carico di aspettative. – Tu sei sempre gentile. Saprai sicuramente come fare.

Si ritrovò completamente disarmato davanti alle parole semplici e sicure di Angéline e la abbracciò, scostandole i capelli dal visto. – La mia sorellina che pensa sempre alla felicità degli altri.

– Promettilo.

– D’accordo. – disse Michael sciogliendo l’abbraccio. – Se mai dovessi rivederla, ti prometto che cercherò di aiutarla. – poi come, non è un mistero, pensò guardando il fiume.

Mentre Michael guidava per riportare a casa Angéline, sua sorella canticchiava sottovoce inventandosi le parole quando non le ricordava. Abbandonata sul sedile guardava incantata dal finestrino le giostre colorare che decoravano la città. – Ma non sei mai stanca, Angie? – rallentò fino a fermarsi al semaforo sul lungo fiume.

– No. – rispose senza voltarsi. – Quando sono con te, no. Vorrei passare più giornate così.

Michael deglutì. Anche lui avrebbe voluto più giorni da dedicare a sua sorella e ora non l’avrebbe vista fino al prossimo mese. Si chiese distrattamente cosa avrebbe potuto raccontargli Angéline la prossima volta, forse di un ragazzo. Quel pensiero lo ingelosì un po’, se sua sorella si fosse innamorata, forse non avrebbe avuto più tempo per lui e qualcun altro se ne sarebbe preso cura. Scosse la testa e svoltò verso il quartiere residenziale senza mettere la freccia. Maledì in silenzio un guidatore che gli aveva suonato e mostrato il dito medio.

La gelosia per un ragazzo sconosciuto era una cosa stupida e lo sapeva. Angéline aveva diciotto anni, era giusto che si innamorasse dell’uomo adatto a lei. E se quell’uomo l’avesse fatta soffrire, non ci sarebbe stato un solo angolo sulla Terra al sicuro per lui; Michael lo avrebbe trovato e gli avrebbe fatto pentire di essere nato.

– Michael? A cosa pensi?

Lui guardò distrattamente l’ora sul cruscotto: mancava un quarto d’ora alle dieci di sera. – Che è tardi Angie.

– Sono quasi le dieci, non è tardi.

Michael si fermò al terzo semaforo rosso che incontrava e si voltò verso la sorella. – Angéline, dormi. – Angéline sbadigliò e si accoccolò sul sedile e in pochi secondi il respiro divenne lento e regolare, di chi dormiva profondamente. – È tardi per noi, sorellina. – mormorò. Si pentì di aver usato quel trucco su sua sorella, ma se voleva arrivare in orario a casa di sua madre avrebbe dovuto guidare in maniera non del tutto ortodossa e non voleva spaventare Angéline.

Come il semaforo divenne verde scattò in avanti, sorpassando a destra, sulla corsia riservata a taxi e autobus, Mandò a quel paese divieti e regole. Gettò un secondo incantesimo sulla macchina rendendola invisibile agli occhi facilmente influenzabili delle persone. Prese contromano una strada, ignorando qualsiasi limite di velocità e regole del buon senso. Svoltò l’angolo e parcheggiò sotto casa di Angéline.

La guardò dormire qualche secondo. Mormorava qualcosa nel sonno, che a lui sembrava la filastrocca della cornacchia che le aveva insegnato da piccoli.

Per un attimo pensò di svegliarla, ma poi si disse che era inutile visto che sua madre l’avrebbe mandata a dormire con poche parole e molte occhiatacce. La prese in braccio e salì i tre piani di scale a piedi, bussando il campanello con il mignolo. Sua madre aprì tre secondi dopo, rigida e scontrosa. – Giusto in tempo. – guardò Angéline tra le braccia di Michael e tirò le labbra, come se si trattenesse dal fare un commento e lo lasciò passare. – La camera di Angéline è…

– So dov’è la camera di mia sorella. – la interruppe Michael – Non c’è bisogno che me la indichi, madre. – la sorpassò senza degnarla di un secondo sguardo e proseguì fino alla camera di sua sorella.

La stanza di Angéline era esattamente come la ricordava, libri e peluche sugli scaffali, lunghe tende lilla e riproduzioni quasi perfette dei capolavori di Monet e Manet appese alle pareti giallo pastello. Scostò le lenzuola e le tolse le scarpe, facendo più silenzio possibile. – Dormi bene, sorellina. – le baciò la fronte un’ultima volta e si chiude la porta della stanza alle spalle.

Sua madre gli si parò davanti infuriata. – Hai addormentato tua sorella. – accusò.

– Sì.

Sua madre lo schiaffeggiò, guardandolo con odio. – Come hai potuto. Tua sorella.

– Dovevo. Dormirà serenamente fino a domani mattina. Si sveglierà fresca e riposata. Tu invece, – Michael fece un passo avanti, spargendo gelo intorno a lui. – vuoi farla sposare. Cos’è questa storia dei ragazzi che vuoi presentarle?

Sua madre si sistemò meglio l’anello d’oro intorno all’indice. – Angéline ha bisogno di un marito. I ragazzi che le presenterò sono di buona famiglia, ben educati. Degli ottimi pretendenti.

– E con un cospicuo conto in banca, scommetto. – Michael si sforzò di sorridere. – Non ti importa  della felicità di Angie.

– È mia figlia. – sibilò lei. – Certo che mi importa di lei. Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per Angéline.

– Immagino che sacrificio. – commentò lui sarcastico. – Divorziare da papà e abbandonare il tuo primogenito maledetto con lui. E vuoi dirmi che lo hai fatto per Angie?

– Io, – sua madre strinse gli occhi e per un attimo abbandono l’aria di sufficienza con cui lo guardava costantemente, prima di tornare rigida e lontana. – non volevo che ti capitasse questo. Tuo padre si è preso cura di te, insegnandoti tutto quello che devi sapere, ma io dovevo proteggere Angéline. Tu sei un pericolo per lei.

– Io non sono un pericolo per lei! – sbraitò.

– Non direttamente, – sua madre si strinse le braccia al corpo, facendo un passo indietro sotto la sua rabbia. – ma quelli come te potrebbero venire a cercarti, potrebbero prendere di mira Angéline per arrivare a te.

– Come me cosa, madre? Un ladro o un Arcano? – sorrise vedendo sua madre rabbrividire. Aveva paura di entrambi i mondi di cui Michael faceva parte.

– Non dirlo ad alta voce. – guardò verso la stanza di Angéline, ma Michael alzò le spalle.

– Non si sveglierà prima di domani, anche se crollasse l’intero edificio.

– Angéline non merita tutto questo, Michael. Non sai cosa voglia dire avere paura delle ombre perché tuo marito è un ladro o perché è un essere sovrannaturale. E non voglio questo per lei. Quando mi disse con orgoglio che tu, mio figlio, saresti stato come lui un giorno ho avuto paura. – Michael sgranò gli occhi, sentendo quella confessione. – Quando rimasi di nuovo incinta decisi che il bambino non avrebbe dovuto vivere in mezzo a tutto questo. Te li ricordi, vero? I litigi con tuo padre. Non potevo permettere che Angéline crescesse tra la paura e l’odio.

Michael si guardò intorno, lanciando occhiate significative all’arredamento lussuoso. – Però non ti sei fatta mancare nulla, vero? I soldi, l’alta società. E il tuo ex marito? Quello dopo mio padre? – proseguì con rabbia. Sua madre lo aveva abbandonato a se stesso perché era codarda arrivista. – Ora dov’è? In un qualche paradiso fiscale?

Sua madre gli fece un sorriso triste. – Sono una donna ambiziosa, lo ammetto. E voglio il meglio per mia figlia. Per te, invece, il meglio che potessi fare era lasciarti addestrare da Alain e pregare che mai nessuno venisse a cercarti o trovasse Angéline. E mi riferisco sia ai tuoi datori di lavoro che a quelli come te. – prese il giornale e gli mise sotto il naso l’articolo in prima pagina. Il furto al Museo d’Orsay dove una guardia giurata era rimasta uccisa.

– Non penserai che sia stato io, madre. Io non rubo quadri, ma gioielli. E non uccido.

La donna sospirò, mettendolo via. – No, – disse, anche se Michael non fu del tutto convinto che lei gli credesse. – ma non potevo esserne sicura.

Michael andò verso la porta di ingresso, pronto ad andarsene. – Io non uccido.

– No, – rispose lei – ma questa è una tua debolezza, non una forza, perché se non lo farai tu, ti uccideranno. E chi soffrirà sarà Angéline. In ogni caso figlio mio, la perderai.

A Michael si contorse lo stomaco, Angéline era l’unica a cui volesse bene e a cui si mostrava per chi era realmente. Perderla l’avrebbe fatto impazzire. – Vado via.

– Buonanotte, Michael.

Michael tornò al suo monolocale per il tempo necessario a cambiarsi i vestiti, sostituendo i pantaloni e camicia, con jeans e maglia aderente.

Fece rapidamente il numero di Claude. – Dove sei? – chiese senza preamboli.

Sentì l’amico sbuffare al telefono. – Iniziare con un: ciao Claude, come va? Tutto bene? Sai che sei una testa di cazzo, Michael?

– Ciao stronzo che ci ha provato con mia sorella, come va? Ora dimmi dove sei. – ringhiò al telefono.

– Ehi! Non sapevo che fosse tua sorella! Comunque sto facendo un giro per Pigalle.

– Bene, ti raggiungo là. Fatti trovare davanti al café de la Gigale.

– E se disertassi?

Michael ghignò al telefono. – Senza di me andresti in bianco. Quindi fatti trovare là. – e chiuse la conversazione senza salutare l’amico.

Quando Michael e Claude entrarono dentro il café si accomodarono al banco, ordinando il primo un Silver Bullet e il secondo un Negroni. Sembrava che mezza Parigi si fosse riunita al Pigalle per la festa nazionale.  – Dimmi, – disse Claude facendo tintinnare il bicchiere contro il suo e dando le spalle a bar. – Ti sei già guardato intorno?

Michael sorrise lentamente, come un predatore pronto a scattare. – Dal primo momento in cui ho messo piede qui dentro.

– E chi hai puntato?

– Le vedi le due ragazze lì, all’angolo a destra? – puntò l’indice della mano con cui teneva il bicchiere verso il fondo del locale. – Quella moretta molto truccata e il vestito scollato e quella castana vestita di nero che rimugina sul suo bicchiere?

Claude diede una rapida occhiata e sorrise. – Sono carine. Le vuoi entrambe o ce le dividiamo?

Michael sorseggiò il cocktail tenendo gli occhi puntati sulla castana. Sembrava un pesce fuor d’acqua tra i ragazzi festanti. Si vedeva da come si torturava le mani e il vestito.

L’aveva riconosciuta, l’aveva vista quella mattina alla cioccolateria. Ed era un’occasione da non perdere. – Prendi la mora. La castana è mia.

Claude le osservò qualche secondo. – Mi pare parecchio più spigliata la moretta.

– Oh sì, – commentò Michael, ricordandosi bene Zoe e i suoi morsi. – E fa dei giochetti niente male, ma ho promesso che avrei reso felice quella ragazza. – finì il cocktail in un sorso. – E sai che mantengo le promesse. – studiò la ragazza, iniziando dalle scarpe nere con il tacco per poi risalire lungo le gambe scoperte e fermarsi a studiarne il viso imbronciato. Non era male, bastava solo che si lasciasse andare. – Ora comincia il gioco. – posò il bicchiere, vuoto.

 

Verity continuava a guardarsi intorno, maledicendo il giorno in cui aveva conosciuto Zoe. Tutta Parigi stava festeggiando il giorno della Presa alla Bastiglia e nei locali non si riusciva quasi a respirare per la folla che c’era. – Spiegami perché siamo qui.

– Per prendere l’aperitivo prima di andare alla Loco. – rispose l’amica rigirandosi tra le dita un ricciolo scuro. – E smettila di abbassarti il vestito, metti in mostra quelle gambe!

Verity non sapeva se essere più imbarazzata per essere stata trascinata al quartiere Pigalle o per il vestito nero e oro che le arrivava appena a metà coscia – Mi è piccolo. – protestò. – E continua a salirmi.

Zoe scosse la testa, incredula. – Non è piccolo, è giusto. E ogni tanto dovresti mostrare alla gente ciò che tieni nascosto sotto jeans e maglietta. Del resto hai un bel fisico. Un seno morbido e non troppo grande. – Verity avvampò ricordando come l’amica l’avesse toccata appena uscita dalla doccia. Zoe aveva sorriso sussurrandole che aveva della mercanzia che non doveva buttare e poi le aveva lanciato quel vestito.

– Grazie, – sussurrò rossa fino alle orecchie. – ma non potevi farmi mettere qualcos’altro? Non mi sento molto a mio agio e non so camminare sui tacchi.

– Come facevi a vivere a Roma? – chiese Zoe alzando la testa dal Apple Martini. L’odore dell’alcol le diete immediatamente la nausea e si chiese come avesse fatto a lavorare per tanto tempo in un bar. Non spettava a lei giudicare chi buttava i propri soldi e la propria vita nell’alcol, ma non riusciva proprio a dimenticare l’odore che per anni aveva impregnato le mura di casa sua.

– Ero tipo da baretto sotto cosa, con jeans, maglietta e scarpe da ginnastica e una coca. E festeggiavo con il mio, – le si strinse il cuore al ricordo di Alessio. Erano stati insieme per quattro anni e lui ora non c’era più. – ragazzo e i suoi amici che tifavano la Roma durante il campionato di calcio.

– E i locali chic? – chiese Zoe tornando alla carica. Era sempre stata curiosa sulla sua vecchia vita a Roma e a Verity non faceva piacere parlarne. C’erano troppi ricordi dolorosi. Una fontana, o una piazza che le ricordavano la madre o peggio, Alessio.

– Li evitavo come la peste. – come cercava di evitare questi locali con scarso successo.

Le labbra di Zoe di disegnarono in una piccola ‘o’ e poi sbuffò. – Ora capisco molte cose, ma ora sei a Parigi! Perciò divertiti! – esclamò alzando il bicchiere. Verity aveva l’impressione che non sarebbe più riuscita divertirsi in vita sua, ma questo non poteva dirlo. Zoe si guardò un po’ attorno come in cerca di qualcosa e poi sospirò. – Vado in bagno. – si alzò e diede un’occhiata penetrante a Verity. – Allora? – la sollecitò, indicandole con la testa la direzione del bagno.

La guardò senza capire. – Allora cosa?

– Come allora cosa? Non conosci la regola del bagno? – Verity scosse la testa, l’amica si era arrabbiata senza che lei avesse fatto nulla. – Dio, ragazza come facevi a vivere a Roma? Lasciamo perdere, ti dovrò spiegare un sacco di cose e insegnare a muoverti. Ora vado in bagno.

Verity la guardò sparire tra la folla, chiedendosi ancora cosa intendesse lei con la regola del bagno, ma la sua curiosità si trasformò in rabbia quando vide un ragazzo castano chiaro sedersi davanti a lei. Al posto di Zoe. – Quel posto è occupato. – disse acida, riconoscendolo come il ragazzo maleducato di quella mattina.

– Già, – commentò lui sedendosi meglio. – dalla tua amica. Che è appena andata in bagno. Tu come mai non sei andata con lei?

Verity roteò un paio di volte il bicchiere del suo aperitivo analcolico. – Perché sarei dovuta andare con lei? Sa dov’è il bagno, no?

Lui rise e per un attimo le spalle di Verity sussultarono. Una parte di lei, le diceva che quella risata era conosciuta e familiare, ma schiacciò quell’idea quando vide l’occhiata maliziosa che Michael le lanciò alla scollatura. – Non conosci la regola del bagno? – domandò con interesse, facendosi più vicino. – Tutte le ragazze vanno in bagno insieme. È una santa regola non scritta. In bagno può accadere di tutto, si può essere attaccati da troll, aprire camere dei segreti, flirtare con amici dei ragazzi che si siedono davanti a false castane...

– Primo: i troll non esistono, a meno che non includiamo i microcefali come te, secondo: di camere dei segreti ce n’è una ed è ad Hogwarts. Terzo: Zoe non accetterebbe mai di flirtare con… – si bloccò al sorriso superiore del ragazzo davanti a lei, Zoe le aveva detto che era uscita con Michael in passato.

– Ne sei sicura? Perché ti ricordo che è venuta a letto con me. – confermò lui. Verity arrossì, sentendosi presa in fallo e si voltò a guardare da un'altra parte. Pregava che Zoe tornasse presto togliendola da quell’impiccio e che un buco nel terreno si aprisse sotto la sedia del ragazzo. – Prendi qualcosa? – chiese lui chiamando il cameriere. – Ovviamente pago io.

– Non voglio nulla da te. Sparisci. Dileguati. Evapora.

– Peccato. – si voltò verso il cameriere. – Un silver bullet e portane uno anche alla signorina.

Verity si trattenne dal ringhiare. – Ho detto che da te non voglio nulla. Ben che meno un alcolico. – non avrebbe mai bevuto qualcosa che avesse avuto quell’odore di rovina. Le si rovesciava lo stomaco solo al pensiero. E se pagava lui era un motivo in più per rifiutare.

Lui si mise più comodo sulla sedia, appoggiando la mano sul mento. Qualcosa in quel gesto e in quel sorriso le accese una lampadina in testa. C’era qualcosa in lui che... no! Verity mise a tacere quel pensiero. Solo perché Michael era affascinate non voleva dire che avessero un legame. Aveva visto dei tipi come lui e facevano così con tutte.

– Io invece penso che resterò seduto qui. A parlare con un finta castana scontrosa di cui non conoscono il nome. – disse lui senza cambiare espressione.

Non capiva perché un no non gli bastasse e non si arrendesse, Verity non voleva avere a che fare con lui. – Vattene. – ripeté con rabbia crescente.

– Dimmi il tuo nome.

– Sparisci. O affoga nella Senna. – per un attimo l’idea di buttarlo nel fiume e vedergli i vestiti e i capelli bagnati e rovinati dall’acqua sporca la fece sorridere.

– Il nome. – insistette lui senza scomporsi e allungandosi un altro po’ sul tavolo L’odore dell’alcol nel suo alito la colpì come un pugno forte. Alessio si era preso sempre cura di lei e si lavava i denti o aveva una gomma da masticare che gli togliesse quel sapore che lei tanto odiava.

Verity lo fulminò con lo sguardo. – Non capisci ciò che dico o cosa?

– Oh, ti capisco benissimo, anche se hai un accento strano. – fece lampeggiare i denti in un sorriso – Quindi non sei francese.

All’anima de li mortacci tua. – Verity imprecò, trattenendosi dal rovesciargli il cocktail in testa.

Lui rise. – E questo sembrava italiano. Ora, mia cara, che ne pensi di dirmi un nome da associare a quello che, non era un complimento per i miei occhi azzurri? Così me li ricorderò entrambi per la prossima volta.

– Non sono cara. Né per te, né per nessun altro. Sono Verity Jensen e non ci sarà una prossima volta. – gli fece cenno di andarsene, ma lui fece finta di nulla mettendosi seduto più composto sul tavolo.

– Alla buon’ora. Michael Dubois. – si presentò tendendole la mano. Verity gliela colpì prontamente con il portatovaglioli. – Ma ovviamente, – disse massaggiandosi la mano lesa. – La Regina dei Ghiacci ha mandato la buona educazione a quel paese.

– Adesso puoi andartene Michael. – lo invitò lei tenendo il portatovaglioli in mano e desiderando tirarglielo in testa.

– Mikael. – la corresse lui. – Si scrive Michael, ma si pronuncia Mi-Ka-El. Significa ‘chi è come Dio.’ – le fece un sorriso ammiccante e lei non volle sapere dove stesse andando a parare, ma si tirò indietro.

– Mi rifiuto di chiamarti così. – rispose gelida. Desiderava che Zoe tornasse il prima possibile. – Sei già un montato senza che ti paragoni a Dio. – guardò oltre la sua spalla nella speranza di vedere la testa mora della sua amica, ma ancora nulla.

– Non tornerà. – disse Michael seguendo la direzione del suo sguardo.

– Cosa?

– La tua amica. Non tornerà dal bagno. Claude mi ha mandato un messaggio mentre eri persa nel tuo mondo. E gli ho detto di riferirle di non preoccuparsi per te perché stavi con me.

– Tu… – perse definitivamente la pazienza e gli tirò il portatovaglioli in testa, che lui intercettò con una mano.

– Non riesci a comportarti bene, vero? E anche un po’ volgare, ma sei carina. Smetti di fare tanto la sostenuta e pensa a divertirti. C’è un bel posticino qui vicino dove potremmo andare.

Verity afferrò dal vassoio il cocktail che il cameriere gli stava portando e lo rovesciò addosso a Michael. – Ma chi ti credi di essere? – urlò attirando l’attenzione del locale. – Parlami un’altra volta così e ti pianto i tacchi in gola! E di alla mia amica che me ne vado a casa! – scappò fuori alla velocità della luce, sentendosi gli occhi di tutti puntati addosso per la scenata che aveva appena fatto.

La rabbia e l’umiliazione per le parole di quel ragazzo divennero una rabbia accecante. Camminava a passo svelto per strada, ignorando il dolore ai piedi. Doveva trovare un luogo dove calmarsi il prima possibile o sarebbe scoppiato un guaio. Il pensiero di Michael gli balenò in mente, infuriandola ancora di più. Come si aspettava un forte vento spazzò la strada, trascinando via cartelloni e sedie di plastica.

Calmati, si ordinò quando una sedia la colpì sul gomito. Fece un paio di respiri profondi, ritrovando un briciolo di autocontrollo e il vento calò di intensità.

Ma ogni volta che vedeva un ragazzo ridere o una coppia baciarsi, la rabbia la travolgeva. Non era solo infastidita dalla sua insistenza, in qualche modo si sentiva anche tradita, come se da lui non si aspettasse parole simili. Tutta la situazione non aveva senso.

– Ma chi cavolo si crede di essere quello là! – il vento tornò più forte di prima, scuotendo le tende parasole e facendo tremare i cartelli agli angoli delle strade. – E Zoe! Come ha potuto abbandonarmi in quel modo! – le chiome più alte degli alberi vicino a lei si piegarono mentre il cielo si rannuvolava velocemente. – Io li odio! – un fulmine colpì in pieno la cupola del Sacro Cuore in cima alla collina, lasciando interdetti i turisti e gli abitanti di Parigi che camminavano per le strade.

– Parli spesso da sola? È sintomo di pazzia, te l’hanno detto? – chiese Michael alle sue spalle. – Sai, da te mi sarei aspettato di tutto, ma non che mi rovesciassi il cocktail in testa.

Verity proseguì dritto per la sua strada ignorando il ragazzo alle sue spalle. Doveva rimanere calma, molto calma. Il fulmine non era affatto un buon segno. E lui non le stava rendendo le cose più facili. – E non sai camminare sui tacchi. Sembri una papera.

– Ma la smetti? – gridò voltandosi.

Cadde un altro fulmine, stavolta più vicino, colpendo un’insegna bianca e rossa. Michael e Verity alzarono contemporaneamente gli occhi al cielo, guardando le nuvole che si gonfiavano rapidamente sulla città. – Credo che si stia per scatenare una tempesta. – commentò lui, guardando il cielo nero. – Strano, non erano previsti temporali. Se vuoi ti porto a casa.

– Mi arrangio. – gli diede le spalle e proseguì sul marciapiede sentendo comunque passi di Michael dietro di lei. Era una persecuzione. Cosa doveva fare per liberarsi di lui?

– Sai che stai andando verso il cuore del quartiere a luci rosse? – la voce cantilenante di Michael la costrinse a mordersi la lingua fino a sentire in bocca il gusto metallico del sangue. Se non stava attenta, rischiava di provocare danni peggiori di un semplice temporale, ricordava i danni che sua madre aveva provocato sulla spiaggia di Ostia, e non voleva ripetere l’esperienza.

Senza rispondergli Verity girò alla prima a destra a testa alta, fingendo di sapere dove stesse andando. Parigi non era una città grande, prima o poi avrebbe trovato una strada che conosceva.

 – E se prosegui sempre dritta vai al cimitero di Montmartre. – la voce di Michael alle sue spalle la stava facendo impazzire. Tentando di concentrarsi sul respiro perse il ritmo dei suoi passi e inciampò in un tombino, finendo per terra. – Ahi!

– Ti sei fatta male? – Michael le tese la mano per aiutarla a rialzarsi, ma le lo scacciò con un schiaffo. Fu solo un istante, ma quando le loro mani si incontrarono Verity sentì una scossa attraversarla e guardò con odio Michael chino su di lei. – Allora? – insistette il ragazzo, scrutandola attentamente. Gli occhi più cupi e più interessati di prima. – Ti sei fatta male?

– Credo la caviglia. – disse lei afferrando il palo della luce per tirarsi su e rifiutando l’aiuto di Michael. – Colpa di queste maledette scarpe. – le scalciò via e sentì lo sguardo di Michael su di sé. – Io odio i tacchi!

– Vuoi camminare verso il cimitero con un caviglia che ti fa male e senza scarpe? – la prese in giro avanzando di un passo per tagliarle ogni via di fuga.

– Non sono affari tuoi. – si guardò intorno con la caviglia che pulsava di dolore. Con sconforto, non riconobbe nulla della strada ed estrasse dalla borsetta la cartina di Parigi che portava sempre con sé. – Dunque, – mormorò a bassa voce avvicinando la cartina al viso per vederci meglio. – Ero qui, poi ho fatto questa strada. E ora…

– Ora sei qui. – disse Michael colpendo con un dito la cartina. – Una ragazza senza scarpe contro un palo della luce e il vestito che le lascia intravedere praticamente tutto. Ah sì, hai anche il naso sporco. – Michael si avvicinò lasciando pochi centimetri tra di loro. – Chiunque penserebbe male, non credi?

– Levati di dosso! – Verity lo spinse via, ma per il risultato che ottenne avrebbe potuto provare a spingere un macigno. Michael non si mosse di un millimetro continuando a scrutarla dall’alto.

– Sto solo cercando di aiutarti. E comunque sei parecchio scontrosa, da quanto non fai sesso?

Le guance di Verity si colorarono all’istante e fissò il ragazzo. – Ma saranno affari miei?

– Tipica risposta di chi non lo fa da diversi mesi. – disse lui calando su di lei sfiorandole il mento con la mano. – Ascolta, io ho avuto una pessima giornata e tu hai bisogno di rilassarti un po’. Potremmo distrarci entrambi. Non è una cosa così strana, ci divertiamo insieme qualche ora e poi amici come prima. Senza impegno, né dolore.

– Tu sei… – iniziò Verity guardandolo storto e sfuggendo alla sua mano.

– Onesto, tanto per cominciare. Non mento su cose del genere, né illudo le ragazze. Ma penso che tu voglia dire arrogante e meschino.

– Più o meno, – disse trattenendo a stento un sorriso. Quel piccolo accenno all’onestà l’aveva fatta sorridere. Uno come lui associato alla parola onesto era un controsenso. – ma avrei usato termini molto meno raffinati. Tipo stronzo e testa di cazzo.

– Avrei puntato su bastardo e stronzo. – rispose lui.

– Ma tu permetteresti a qualcuno di parlare così a tua madre?

Michael ammutolì qualche secondo a bocca aperta. – Se qualcuno, – disse infine improvvisamente serio. – Parlasse così a mia madre gli farei i complimenti, se parlassero così a mia sorella lo ucciderei.

– Bene, perché è quello che vorrei fare con te ogni volta che apri bocca. – disse scansandolo. – Ora scusa, ma da me non avrai altro se non dei calci sugli zebedei, – disse in italiano. E voglio andare a casa.

La guardò confuso. – Cosa hai detto?

– Voglio andare a casa. – ripeté lei stanca.

Lui scosse la testa. – No prima, mi prenderesti a calci dove?

Verity alzò gli occhi al cielo, chiedendosi quanto potesse essere ottusa una persona. – Ti prenderei a calci sui coglioni, meglio così? Ora levati.

Michael non si mosse e continuò a fissarla. – Ti porto a casa.

– Ho detto che non ne ho bisogno.

– Beh, visto che mi vuoi mandare in bianco e Claude è impegnato con la tua amica, – le fece un sorriso sornione, ricordandole che era stata Zoe a cacciarla in quella situazione. – Tanto vale che mi trovi qualcosa da fare. – si allontanò di un paio di passi per poi chinarsi a raccogliere un pezzo di carta. – Questo è tuo? Mi pare che ti sia caduto quando hai tirato fuori la cartina. – Verity fece per riprenderlo, ma Michael lo tirò indietro osservando meglio il ritaglio di giornale. – Perché hai un articolo sulla mostra alla torre? Ti interessano i diamanti?

Verity si morse la lingua desiderando dargli un pugno, ma si fermò guardando il viso di Michael. Sembrava solo curioso e la domanda era innocente per i suoi standard. Non ci vide nulla di male nel rispondergli. – In un certo senso. Ho letto da qualche parte che sono le pietre più dure esistenti al mondo. Passano secoli sottoterra, schiacciati da tutto e tutti, ma diventano infrangibili. Li trovo belli.

Michael si passò una mano tra i capelli, arruffandoli, prima di passarle il ritaglio. – E non ti interessa il loro valore?

Lei scosse la testa. – Per quel che mi riguarda mi piacciono per la loro forza. Tutti li ammirano perché sono rari, a me piacciono perché non si spezzano.

Sentì lo sguardo di Michael su di sé mentre riponeva il ritaglio. – Interessante. – commentò infine – Riesci a camminare? Così torniamo indietro.

Lei annuì, qualcosa nel suo sguardo le diceva che in quel momento Michael non le avrebbe fatto del male. – Magari con le scarpe. – aggiunse lui. – Non è che i marciapiedi siano puliti. – Verity sbuffò e si rimise le scarpe, odiando quella serata e decisa che l’avrebbe cancellata dalla memoria.

Camminarono in silenzio, con Verity che guardava ovunque tranne Michael e si rese conto che effettivamente era finita nel quartiere a luci rosse, con le insegne al neon che gettavano lunghe ombre sulla strada e le vetrine che proponevano di tutto: dai giocattoli per adulti e coppiette, ai cinema vietati ai minori. Come potevano mettere in mostra tutto quel sesso a pagamento, lei non riusciva a capirlo.

– Non è così male il quartiere se ti lasci andare. – commentò Michael al suo fianco. – Devo solo smettere di censurare tutto quello che vedi.

Verity si sentì punta sul vivo. – Io non censuro un bel niente!

– Come no. Guardi una vetrina e il tuo cervello sputa una sentenza che farebbe impallidire il ‘J’accuse’.

Verity sospirò. – In Italia non abbiamo quartieri simili. Quanto ero bambina sapevo che ad Amsterdam esisteva il quartiere a luci rosse, ma non ci davo peso e non ci e sono mai entrata. A Roma si guarda sempre dall’alto in basso posti simili.

– Amsterdam, eh? – ripeté lui, guidandola con un cenno verso la strada da cui erano arrivati.

– Mio padre è olandese, ma sono nata a Copenaghen. – si cucì la bocca, maledicendosi per aver detto così tanto di lei a quel tipo odioso. Era da tanto che non raccontava delle cose di sé a qualcuno. Erano altri tempi ed un’altra vita. Il mondo era molto più bello e aperto, allora.

Michael le disse di svoltare a destra, in una laterale vicino al café e le indicò la Citroen decappottabile. – Sali. – disse lui aprendo l’auto.

Verity fissò prima lui, poi la macchina e Michael sospirò, passandosi una mano sugli occhi. – Prometto che non ti farò nulla finché siamo in auto, tranquilla. E io mantengo le promesse.

Verity salì, ancora insicura. Accettare passaggi da sconosciuti era da folli, ma se le cose si fossero messe male, lei sapeva come difendersi. Disse a Michael dove abitava e poi si chiuse in un silenzio ostile, senza proferire altra parola finché Michael non parcheggiò sotto il suo palazzo. – Grazie per il passaggio. – disse scendendo.

– Aspetta. – la chiamò lui – Sono stato gentile, no? Almeno un caffè me lo merito.

Verity strinse la mano sullo sportello, ma poi gli sorrise. La stretta si allentò, costringendosi a scollare ogni dito dalla macchina. – Ma certo! Hai ragione. Un caffè fatto con una macchina italiana lo meriti. Sei stato gentile a portarmi a casa. – aprì la borsetta e strinse le dita su ciò che cercava. – Tieni. – disse lanciandogli la moneta.

– Due euro? – chiese lui afferrandola al volo.

– Il resto che ti dovevo stamattina. Vicino alla Gare du Nord c’è un piccolo bar che fa il caffè con una macchina italiana. Puoi fare colazione lì domani mattina. Addio, stronzo! – sbatté lo sportello e si voltò, soddisfatta nell’aver avuto l’ultima parola.

Aspettò che Michael girasse l’angolo prima di frugare di nuovo nella borsa alla ricerca delle chiavi. La rivoltò tre volte e poi ne svuotò il contenuto sulle scale, ma delle chiavi di casa nemmeno l’ombra. – Merda! Me le sono dimenticate?

Prese il telefono e provò a chiamare Zoe, ma trovò la segreteria. – Zoe! Devi tornare a casa! Sono chiusa fuori...

Si sedette sulle scale ad aspettare, chiamandola ogni cinque minuti, sperando che l’amica le rispondesse. Dopo mezz’ora perse le speranze.

Stanca per la lunga e sfortunata serata, fece il giro del palazzo, trovando la scala antincendio. L’ultima parte era tirata su, fuori portata, per scoraggiare eventuali ladri, ma Verity si morse il labbro concentrandosi.

Legò alcune correnti d’aria in una robusta corda di vento che usò come frusta contro la scala, tirandola giù con un gran fracasso di metallo arrugginito. Salì rapidamente, pregando che nessuno la vedesse e chiamasse la polizia. Si accucciò vicino alla finestra della camera di Zoe e provò ad aprirla, trovandola bloccata.

Maledisse Zoe in tutte le lingue che conosceva, iniziando dal danese. Verity la rimproverava sempre dicendole di chiudere le finestre quando uscivano, e l’unica volta che doveva disubbidire, l’aveva ascoltata. Usò di nuovo i suoi poteri sul vento per muovere il fermi all’interno della stanza e aprì la finestra, entrando esausta in casa.

Fece in tempo a togliersi le scarpe ed a lanciare la borsa sul letto quando la luce si accese improvvisamente.

– Sai, – disse la voce affabile e profonda di Michael alle sue spalle. – Avresti dovuto invitarmi a prendere quel caffè.

Si girò lentamente, pronta a lanciarlo fuori dalla finestra, e lo trovò appoggiato con la schiena muro che roteava l’anello delle chiavi attorno al dito. – Rubarti le chiavi di casa non è stato così difficile. Dovresti fare attenzione a chi frequenti.

La frustrazione di Verity esplose di colpo e una forte raffica di vento attraversò la stanza rovesciando le sedie e i soprammobili, mettendola a soqquadro.

– Niente male. – commentò Michael. – Immaginavo che anche il vento e i fulmini a Montmartre fossero opera tua. – si staccò dal muro e le lanciò le chiavi che lei afferrò al volo. Non c’erano dubbi erano proprio le sue, riconobbe il portachiavi che le avevano regalato i suoi amici di Roma. – Non essere così sconvolta, Verity. Avevo dei sospetti già con quell’insolito vento, ma c’era troppa gente e non potevo essere sicuro che fossi realmente tu.

– C-cosa vuoi? – disse lei infine.

– Lascia che mi ripresenti. – disse con un inchino. – Michael Dubois. Il numero diciotto. L’Arcano della Luna. E ora, Verity, dormi.

La vista le si annebbiò e le girò la testa, mentre le gambe divennero intorpidite e pesanti. Provò a combattere il sonno che la stava avvolgendo come una coperta per qualche altro secondo, ma si arrese e il mondo divenne nero e silenzioso.

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NdA: Lavorare con Michael è sempre difficile, entrare nella sua testa mi fa morire dal ridere o mi fa venire voglia di prenderlo a calci. Dipende dalle giornte. E poi devo sempre rendere conto a Bianca per i suoi commenti sempre corretti e ovviamente a voi lettori. Se voleste lasciare un appunto mi aiuterà i migliorarmi, senza dubbio. XD

  
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