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Autore: passiflora    03/03/2014    8 recensioni
Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero.
É così che si dice. Ma come sarebbe la vita di qualcuno, se questo qualcuno riuscisse a vedere soltanto il vero volto delle persone, e non la maschera che ci mettono sopra?
Genere: Dark, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Da quando ero piccola ricordo distintamente di aver sempre visto il vero volto delle persone.

Da quando ho ricordi sono sicura di aver sempre visto mia madre con un volto spaventoso e mio padre, da cui lei si era già separata, come una maschera dai tratti deformi e tristi, e senza capelli.

Ma sono certa che non erano così. Nelle fotografie erano una bella donna e un uomo alto con tanti capelli neri.

Allora, mi domandavo, perché io li vedo così?

Anche i nonni non avevano la loro vera faccia, quando li guardavo. La nonna sembrava davvero un topo, invece il nonno sbavava come un cane affamato.

Mi abituai a vederli così, e non ci feci più caso.

Più gli anni passavano, più io mi abituai a vedere quelle maschere mostruose sulle facce della gente e imparai a non dare mai giudizi d’aspetto prima di aver visto una foto del diretto interessato.

Cercavo sempre di farmene mostrare una, di foto, per non fare gaffes paurose.

A scuola cercavo sempre di farmi invitare a casa dei miei compagni di classe per poter vedere immagini della loro vera faccia.

Sia chiaro, non sempre erano maschere deformi. Qualche volta i tratti del volto erano trasfigurati in bene e le persone mi apparivano splendide, alle volte la deformazione era molto piccola, spesso e volentieri le maschere si imbruttivano nel tempo.

Un giorno, ricordo, mentre ero piccola e giocavo al parco con delle amichette (di cui una portava una orrenda maschera di scimmia, un’altra pareva un gatto e la terza aveva labbra estremamente pronunciate e delle orecchie enormi) vidi qualcosa che non avevo mai visto prima. C’era una bambina, dall’altra parte del parchetto, che giocava con un gruppo di ragazzini più o meno della mia età. Cosa c’era di strano? Quella bambina non aveva in faccia alcuna maschera. Ne ero certa. E la cosa per me fu incredibile.

Rimasi a guardarla a bocca aperta, tanto che la palla lanciata da una delle mie amiche mi centrò in testa facendomi cadere.

Cadendo battei la testa su un sasso. La cosa mi mandò all’ospedale, mi provocò un’amnesia di qualche giorno e sembrò guarirmi dal mio strano “potere”.

Per qualche anno riuscii a vedere il volto “vero” delle persone, come esse apparivano agli occhi di tutti, coi capelli, i tratti normali, l’aspetto umano e non grottesco o bestiale.

Purtroppo non ero destinata a stare in pace. A quindici anni tornai a vedere le deformità sui visi dei miei compagni. Di li a poco tutti indossavano nuovamente una maschera.

Ed erano forse più orribili di quelle che ricordavo.

Erano dei visi volgari, orrendi, terrificanti nella loro oscenità. I tratti deformati rispecchiavano i desideri nascosti di ciascuno di loro. E a volte la trasformazione non si limitava al viso. Vedevo mani grandissime, o dita lunghe e fine come zampe di ragno, lingue lunghissime che strisciavano come serpenti, seni enormi, piedi palmati e altre stramberie.

Dapprima ne fui spaventata, anche perché di trasformazioni “in bello” ne vedevo sempre meno. Camminavo in mezzo ad una giungla di esseri orrendi. Vedevo il marcio che brulicava nei cuori delle persone più insospettabili.

Eppure li sentivo tutti parlare e comportarsi con normalità.

Dico “sentivo” perché percepivo le loro parole, vedevo i loro gesti a grandi linee, ma i tratti sulla loro maschera si muovevano in modo diverso.

Per esempio, quando una ragazza faceva un falso complimento ad un’altra vedevo la maschera di una ridacchiare ed assumere un’espressione di superiorità e l’altra assumere un’espressione dubbiosa, oppure a sua volta di superiorità.

Insomma, un po’ alla volta riuscii a capire che quelle maschere altro non erano che il vero volto delle persone.

Però non persi mai l’abitudine di cercare le foto di ognuno dei miei compagni e delle persone con cui avevo a che fare; i social network in questo mi aiutarono molto. Scoprii così che tra i miei compagni c’erano ragazzi davvero molto belli, che mi sarebbero anche piaciuti se io non li avessi visti con addosso maschere da coniglio assatanato, lupo rabbioso o altre bestie orrende.

Incuriosita cercai anche le persone che sapevo avere addosso una maschera bellissima, le quali erano tre o quattro in una scuola che contava mille studenti e qualche decina di professori.

Tra quelle tre o quattro c’erano uno che a vederlo pareva il ragazzo più sfigato della terra, una ragazza con due bellissimi occhi verdi e un’espressione gentile, un professore vecchio e un po’ noioso, un ragazzino del primo anno che pareva un putto ed infine un ragazzo che aveva un che di interessante.

Lui fu il mio primo ragazzo.

Purtroppo chi aveva una maschera bellissima di solito aveva un carattere debole, questo era il loro difetto.

Però più il tempo scorreva più mi ossessionava il pensiero di quella bambina che avevo visto al parco. Quella bambina senza maschera.

Cosa significava?

Che lei non aveva un’apparenza?

Che combaciava esattamente col suo aspetto? Non aveva alcun lato nascosto? Che tutto quello che lei era lo mostrava senza segreti di nessun genere? Possibile che non ne avessi trovato nemmeno uno esattamente com’era lei?

Durante l’università non incontrai nemmeno una persona che non portasse la maschera e la cosa fu demoralizzante e lo era tanto di più quanto io provavo la voglia di stringere rapporti con quelle persone.

Non potevo diventare matta ogni volta a controllare quale fosse il loro aspetto, a non fare figuracce, a non pensare alle smorfie orribili delle loro maschere ogni volta che parlavo loro, ad ignorare le loro espressioni di disappunto o sdegno o noia quando esponevo qualche mia idea...

Era davvero terribile. Credetemi.

Arrivai al punto di pensare che era meglio vivere nel dubbio.

Era meglio non conoscere tutto ciò che una persona era. Era meglio scoprirlo a poco a poco, non averlo davanti agli occhi. Oppure la cosa migliore era quella di trovare una persona senza maschera.

E in tutto questo mi domandavo: ma io ce l’ho la maschera?

Non sapevo se anche io avevo il viso da animale. Allo specchio mi vedevo normale e speravo che quell’essere normale mi avrebbe guidato verso qualcuno dei miei simili.

Arrivata a ventitré anni non ce la facevo più.

La situazione era altamente frustrante.

Per quanto io fossi abituata a vivere circondata da mostri, li sentivo interagire tra loro come nulla fosse e mi domandavo “come accidenti è il mondo reale?!” oppure “come fanno loro a vivere così, senza accorgersi delle bugie, delle verità nascoste, come fanno?”.

Non lo capivo.

Tutto mi appariva confuso.

Persi la voglia di uscire di casa e mi chiusi nella mia camera per qualche settimana.

Quel mondo così falso cominciava a darmi davvero schifo.

Ad un certo punto presi una decisione drastica: mi sarei data tre giorni di tempo. Se fossi riuscita a trovare tre persone senza maschera sarebbe andato tutto bene, altrimenti l’avrei fatta finita.

Non era un pensiero intelligente, era un pensiero limite per me che ero arrivata al limite.

Si, avrei potuto sfruttare il mio potere per, chessò, smascherare i farabutti...ma per me erano tutti farabutti! Questo era il dramma!

Fu così che iniziai la mia ricerca. Girai per tutta la città fino a notte fonda, scrutando ogni volto.

Infine, a mezzanotte, trovai un volto vero. Era un barbone che dormiva in un vicolo, con una cicca ancora in bocca e una bottiglia di birra in mano.

E uno era andato. Non tornai a casa. Girai ancora, dormendo la mattina, distesa al sole sotto un albero del parco. Persi solo tre orette, poi tornai a cercare.

Nessuno.

Nel tardo pomeriggio finalmente scorsi un bimbo dall’altra parte della strada che era visibilmente senza maschera.

Il mio cuore iniziò a rallegrarsi.

Passò anche il secondo giorno.

Speranzosa continuai a cercare ma a sera ancora nulla.

La fortuna volle però venirmi incontro verso le dieci di sera. All’uscita di un locale un viso senza maschera attirò la mia attenzione.

Quei lineamenti...

Era lei!

Avevo ritrovato la bambina del parco!

Il mio cuore si riempì di gioia. D’impeto mi avvinai a lei per parlarle.

Era truccata in modo vistoso ma ero sicura che fosse lei. Quando mi avvicinai le amiche con cui stava parlando e che avevano tutte dei visi a dir poco orripilanti le fecero cenno di guardarmi e le loro maschere presero un’espressione canzonatoria.

Lei si girò, mi squadrò ed infine esclamò –Che vuoi?-

Rimasi per un attimo basita di fronte al tono brusco con cui si rivolgeva a me.

Ora, come attaccare bottone?

-S...scusa...non volevo infastidire...solo...come ti chiami?-

Lei fece due occhi così ed esclamò –Non ho la minima intenzione di dirtelo né di parlare con te! Sei lesbica forse? Guarda, non mi interessi. E già che ci siamo, lasciatelo dire, hai un aspetto orribile. Vattene a casa se ce l’hai e fatti una doccia. Adesso per favore, vattene, stavo parlando, mi hai interrotta -. La sua faccia era schifata come le sue parole.

-S...scusa...-mormorai senza capire bene cosa stesse accadendo. Non ero abituata a parlare con persone con una faccia vera. Ero in seria difficoltà. E poi quel suo tono così infastidito...

Me ne andai a testa bassa.

Tre persone le avevo trovate, ero salva, ma il mio esperimento non era finito.

Mi appostai nei pressi del locale, abbastanza vicina da sentire parlare la ragazza.

Un ragazzotto le si avvicinò, invitandola ad entrare con lui. Lei lo squadrò da capo a piedi ed esclamò –Ma neanche per sogno! Sei orrendo, vattene!-.

-Stronza!- esclamò lui e se ne andò.

In effetti, era davvero stronza. Ma lo era senza lesinare su nulla. Il suo aspetto era quello della perfetta stronza, stronzo era il suo modo di pensare e di parlare. Era perfettamente coerente.

Ero estremamente delusa, amareggiata e affranta. Possibile?

Possibile che questa ragazza fosse l’immagine di nobile sincerità che mi aveva sempre ossessionata?

Tutto mi crollava addosso. Un castello di carte abbattuto dal soffio perfido di un bambino.

Non mi mossi dal mio angolino per tutta la notte.

Rimuginavo e non mi accorsi del tempo che passava.

Mi destai soltanto quando sentii la ragazza uscire insieme con un tipo, uno col muso da cane sbavante.

Doveva essere belloccio, da come lei lo trattava.

-Ah! Ah! Ah!- rideva, e pensai che forse il tipo era davvero divertente –Sei proprio scemo!- gli diceva –Non mi piaci per niente, ma sei davvero figo. Vieni da me domani sera-

-Vengo da te QUESTA sera- gli rispose lui.

-No, domani. Oggi no, sono troppo bevuta e non ho voglia di scopare. Vieni domani, che sono da sola- ridacchiò lei, barcollando.

-Va bene- disse lo sbavante sbavando ancora di più –Allora a domani. Ti accompagno?-

-No, sto qui vicino! Ciaoooo-

Guardai quella ragazza bionda, bella e stronza avanzare stentatamente verso la sua casa.

Lei era tutto quello che avevo cercato nella mia vita.

Il mio mito.

Il simbolo della coerenza che mancava al mondo!

Provavo una rabbia infinita verso di lei.

Senza rendermene conto la seguii.

Lei si avventurò per una stradina illuminata ma al momento deserta. Io continuai a seguirla.

Ad un certo punto si fermò a vomitare in un angolo.

Io mi fermai dietro di lei.

Per strada non c’era nessuno.

In un cestino invece, c’era una bottiglia di vetro vuota.

La afferrai. Quando lei rialzò la testa le fracassai la bottiglia sul capo con tutta la forza di cui disponevo.

Lei scivolò, cadde, sbatté contro un muro e rimase a terra, morta.

La fissai per qualche secondo.

Era caduta a terra per un colpo alla testa, proprio come me quella volta nel parco.

Aveva picchiato la testa, come me quella volta nel parco.

Ma lei era morta, e io no.

Me ne andai lasciandola li.

Con lei era morto il barlume di speranza e fiducia nel mondo che mi rimaneva.

Arrivai a casa senza incontrare nessuno.

Gettai il collo insanguinato della bottiglia in un cassonetto e andai a letto.

Il giorno dopo mi alzai tardi e andai a fare la spesa perché non avevo più nulla da mangiare.

Camminai a testa bassa fino al supermercato, presi il carrello, mi addentrai tra le corsie. Guardavo a terra oppure sugli scaffali senza fare caso a nessuno.

Infine, arrivai alla cassa. Misi in fila tutti i prodotti che volevo acquistare e mi accinsi a pagare.

-Sono trenta e ottantacinque- trillò la giovane commessa.

Ricordavo la sua voce argentina e vagamente fastidiosa, e ricordavo le sue mani troppo lunghe e sottili, e i suoi occhi enormi, e il suo colorito giallastro, e il suo ghigno. Era una persona avida e taccagna.

Ma le mani che ritirarono i miei soldi erano manine ben curate, con un bello smalto blu sulle unghie.

Sbarrai gli occhi e la guardai in viso.

Davanti a me c’era una ragazza più o meno della mia età, molto carina, coi capelli neri liscissimi e due grandi occhi azzurri.

-Tutto bene?- mi domandò.

Feci cenno di si senza parlare.

Ritirai il resto e mentre mettevo le mie cose nei sacchetti guardai le altre persone.

Una selva di facce normali si estendeva intorno a me.

Centinaia e centinaia di persone, belle e brutte, strane e ordinarie, ma tutte assolutamente normali.

Me ne andai dal supermercato come in trance.

Guardavo tutti con gli occhi sbarrati e la bocca aperta.

Cosa era accaduto? Perché quel miracolo?

Arrivata a casa non avevo alcun appetito e mi misi alla finestra a guardare fuori.

Cosa succedeva?

Dalla nebbia dei miei pensieri sorse il ricordo della ragazza morta.

L’avevo uccisa io.

Non propriamente uccisa, il mio colpo le aveva solo fatto perdere l’equilibrio, ma poi era caduta ed era morta.

Mi girò la testa.

Passai tutta la giornata stesa a letto a fissare il soffitto.

Solo a sera, quando mi alzai, avevo le idee chiare.

Volevo andare a confessare l’accaduto alla polizia? Neanche per sogno.

Quindi avevo un segreto.

Quindi non ero ciò che sembravo.

Quindi ero come loro.

Quindi la maschera io non la avevo mai avuta, ma adesso ero passata dalla parte delle maschere anche io.

Mi guardai allo specchio.

Ero sempre uguale a me stessa. Avevo solo una consapevolezza in più.

La consapevolezza di essere una bugiarda.

E la consapevolezza che lo era anche tutto il resto del mondo.

La mattina dopo uscii di casa a testa alta, pronta a buttarmi in quel gioco perverso.

Io sapevo delle maschere, sapevo che l’avevo anche io, questo mi dava molta sicurezza, potevo trattare la gente alla pari e godere del benefico tormento del dubbio.

Ero diventata davvero “normale”.

E ne fui felice.

   
 
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