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Autore: ale93    04/03/2014    2 recensioni
«Credo che tu abbia ragione. A non parlare, dico», rimase a guardare in alto per un po’. Tirò un’altra boccata dalla sua sigaretta e trattenne il fumo nella bocca. Lo sputò via mentre ricominciava a parlare. «Le parole sono belle, ma la maggior parte delle volte sono false e inutili.»
Genere: Malinconico, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Fuori e dentro il cerchio'
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How long have I been in this storm?
[Storm, Lifehouse]
 
 
 
 
II.
 
 
 
 
 
«Fabri.»
Fabri, diceva Blu quand’era seria. Non ‘musone’, quello stupido nomignolo che m’aveva affibbiato ormai da un po’.
Là, seduti su quelle sedie -che, cazzo, ballavano parecchio sui piedi di legno ormai vecchio-, mi sembrava che fosse arrivata l’ora dei discorsi seri. Era sera, cominciava a far freddo anche dentro i cappotti e il cielo era blu come gli occhi di Blu.
Ogni tanto mi portava là fuori in cortile e mi parlava di cose a caso, così, come se non avessero peso. Come se le buttasse in giro senza pensarci.
Le feci un cenno col mento. Lei mi passò la sigaretta, tirai una boccata troppo lunga.
«Marina te l’ha detto perché sono rimasta qua per così tanto tempo?»
 
Erano mesi che andavo al Girotondo. Saltai ogni stupida visita dal logopedista. Ogni lettura al buio, chiuso in una stanza, con le cuffie a coprire tutto il rumore intorno, e la figura del Dott. Giacomelli negli angoli degli occhi a mettermi ansia. I miei ormai facevano solo finta di non saperlo e, in fondo, ‘far finta’ era l’attività di famiglia. E no, Marina non m’aveva mai parlato molto di Blu in tutto quel tempo. Sapevo solo che non aveva nessuno che potesse prendersi cura di lei.
«N-no», sbuffai.
Lei si riprese la sigaretta, se la mise tra le labbra e con un dito cominciò a giocare con i suoi collant. L’indossava spesso sotto i suoi pantaloncini colorati ed erano tutti smagliati sulla coscia destra. Ogni paio di calze aveva quel taglio lungo, aperto come un occhio sulla sua pelle bianchissima.
«Avevo un fratello», disse. Fece un tiro veloce, poi lasciò che la sigaretta si fumasse da sola. La cenere scendeva giù sulla ghiaia come una pioggerellina grigia. «Mia madre ci lasciò entrambi qua. Biondo come me –sì, lo so, il biondo mi sbatterebbe, per quello faccio la tinta-, due occhi più blu dei miei Fabri, te lo giuro, bellissimo come un principe, un anno più di me. Si chiama… chiamava Loris.»
 
La vidi stringere le labbra. Guardò un attimo la sigaretta ormai consumata, gettò via il mozzicone e «ne vuoi un’altra?», chiese sovrappensiero. Sì, la volevo. Ne presi una delle mie, sta volta. Il fumo m’ammorbidiva la gola, era un balsamo acre che mi scioglieva dentro qualcosa, mi faceva sentire più rilassato. Smezzammo anche la mia Lucky Strike. Lucky Strike Blu. Quando lei vide il pacchetto, scoppiò a ridere.
Le feci un cenno.
«Diceva che è tutto ‘na merda, sai. Diceva che quelli come noi rimangono sfigati a vita, che la gente non vede nient’altro che il nostro passato. A quattordici anni iniziò a tagliarsi», sorrise al cielo, sfregandosi il naso con un dito. Credo non volesse farmi vedere le sue ciglia bagnate.
Mi sentivo un coglione perché mi venne voglia di abbracciarla. Non le avevo mai chiesto nulla di lei, non le avevo mai chiesto proprio nulla in generale. Mi limitavo ad ascoltare e Blu non mi costringeva mai a dire la mia. Mi guardava, scavava un po’ nei miei occhi, giusto per sapere a che stavo pensando. Era l’unica che non faceva finta di volermi sentir parlare. Che te lo chiedo a fare, musò. Tanto tu non ci vuoi parlare con gli altri, no? E quindi parlo io. Almeno mi sfogo. Aveva bisogno di non sentire il silenzio ogni tanto, m’aveva detto una volta.
«Marina era appena arrivata. Sapevano tutti che Loris aveva ‘sti problemi, ma per quanto lo controllassimo, per quanto cercassimo di parlare con lui, trovava sempre il modo di farsi male. Una volta litigò con Marina. Chiese di farsi una doccia ‘senza la scorta’», Blu continuava a guardare in alto. «Fece dei tagli troppo profondi.»
Smise di parlare. Due grossi lacrimoni precipitarono per terra. ‘Fanculo, sibillò Blu. Tirò un calcetto al terreno e qualche pietruzza volò lontano, lontano, lontano.
Dovevo passarle la sigaretta. E invece le presi la mano. Blu guardò le mie dita sulle sue e mi face un sorriso piccolo.
 
Qualche ora dopo stava seduta sul muretto di pietra del cortile, faceva dondolare le gambe. Era tardi, dovevo tornare a casa, prima che i miei cominciassero a darmi per disperso, ma il momento dei saluti durava sempre un po’ di più. «Aspetta un attimo.»
La guardai puntellarsi coi palmi sul muretto e darsi uno slancio. Corse verso la villetta, ne uscì due secondi dopo, saltellando sul selciato.
«Tieni», mi porse un quadernetto e una penna. «Raccontami una cosa tua… Scrivi qui.»
E come Salvo aveva fatto con Alberto, Blu mi stava dando la voce che non sapevo usare.
 
 
 
-
 
 
 
Fabrizio: Che devo fare?
Chiara: Sei un coglione, Fabri. DEVI SCRIVERE. Raccontaglielo. Lei ti ha parlato di tutto.
Fabrizio: Lo sai solo tu, Chia.
Chiara: Tu vuoi dirglielo, Fabrizio?
Fabrizio: Non lo so. Credo di sì.
Chiara: E allora fallo. Smettila di farti tutte queste seghe mentali.
Fabrizio: Cristo, sono veramente una palla al piede.
Chiara: Tesoro, sono contenta che tu abbia voglia di parlare di ovvietà, ma hai da fare ora. Smamma!
 
 
 
-
 
 
 
 
 
Non ero troppo sicuro di voler portare quel quadernetto impiastricciato della mia scrittura sbilenca, ma ormai c’ero, no?
Era un pomeriggio freddo, scuro di nuvole di pioggia. La villetta era silenziosa, Marina correggeva i compiti di Alberto, i vecchietti sonnecchiavano a bocca aperta. Qualcuno russava forte. Blu, invece, era sotto la doccia, mi dissero.
L’aspettai in cucina; c’era il profumo dei biscotti alla cannella, i disegnini dei bambini sparsi sul tavolo, una televisione che gracchiava le domande di un quiz che nessuno stava seguendo.
«Ehi», sorrise Salvo, sedendosi di fronte a me. Si versò una tazza di latte. «Vuoi?»
Feci no con la testa.
Salvo ficcò in quel bicchiere almeno una trentina di biscotti. Mi guardava divertito e io cercavo di nascondere il quadernetto perché, cazzo, scrivere le letterine alle ragazze era roba da bambini dell’asilo, no? Perché cavolo avevo scritto quelle cose?
«Blu», nessuna domanda. Solo Blu, stai aspettando Blu. «Sai, lei non fa altro che parlare di te Fabrizio, Fabrizio, Fabrizio. Ma che vi dite?»
Niente. Lei diceva tutto, ma io…
 
«Ehi, impiastro, vai a giocare da un’altra parte», fece Blu, affacciandosi alla porta della cucina con un’ asciugamano in testa tipo turbante. «Musò, vieni di là? Così mi asciugo i capelli.»
 
La seguii nella sua camera, mentre Marina mi guardava di traverso; «porta aperta!», urlò alle nostre spalle. Blu sbuffò gonfiando le guance e mi strizzò l’occhio mentre chiudeva la porta.
«S-s-sen-t-ti…» Cazzo.
Blu s’avvicinò senza dire una parola. Non diceva mai niente, Blu, non mi diceva quelle cazzate là, respira, Fabri, rilassa la gola come cazzo fa uno a rilassare la gola, onestamente? A quel punto mi veniva sempre voglia di una sigaretta, che era la mia unica idea vera di relax. Comunque Blu era solo vicina e non diceva stronzate come tutti. Potevo contare le lentiggini sul suo naso.
Mi sfilò il quaderno dalle mani.
Non so quello che ho scritto, Blu, balbettai, sono cazzate. Cercai di riprendermi il quaderno, ma non era vero. Non erano cazzate.
«Ma non eri quello muto, tu? Stai zitto e fammi leggere», rise lei, gettandosi sul letto. Mi sedetti accanto a lei, mi coprii la faccia con le mani. La sbirciavo mentre leggeva e ripetevo in testa parola per parola.
 
 
 
 
-
 
 
Avevo sette anni. Incespicavo sulle iniziali di ogni parola. Avevo la ‘r’ siciliana, dicevano i miei. Però pure tutte le altre consonanti mi slittavano sulla lingua. I grandi mi guardavano con gli occhi pieni di una tenerezza strana e appiccicosa, mi faceva schifo. A scuola anticipavano la fine di tutte le mie frasi e guarda che io li capivo, eh, cioè mi stava anche bene, mi evitavano lo sforzo.
Il fatto è che mi sono perso delle cose per strada. Certi pensieri sono rimasti tutti chiusi qua dentro, capito? Che spreco. Però la gente non c’ha mai creduto troppo che avevo cose sensate da dire: ero quello un po’ scemo. Qualcuno un giorno me lo disse. Ho provato a rispondere e non ci sono riuscito. Semplice.
 
È iniziata come un gioco, credo. C’erano sempre un paio di tizi che mi spintonavano, facevano qualche battuta scema. Sono sempre stato un po’ testa di cazzo e allora rispondevo, no? Ma quelli volevano farmi capire che a certe persone non si deve rispondere mai a tono… erano solo dei coglioni.
Ho smesso di parlare perché la gente non sentiva.
 
Blu lasciò cadere il quaderno sul pavimento. Mi guardò dritto in faccia.
Aveva gli occhi grandi, sconfinati. Sei come me, stavano dicendo e anche se non era vero, anche se Blu si portava dentro un dolore troppo grosso e troppo duro, lei aveva sentito, credo.
Prese la mia mano e se la porto sul petto; non disse nulla, ché tanto le parole sono belle, ma la maggior parte delle volte sono false e inutili.
 
 
 
-
 
 
 
 
Qualche giorno dopo chiese a Marina di accompagnarci in un posto. Non capii fin quando non arrivammo a destinazione.
Blu si sedette sull’erba verde, tenne un po’ la margherita tra le dita. Poi lasciò un bacio sui petali e la posò per terra.
«Ciao, Lò. Sai quel tipo assurdo di cui t’ho parlato l’altro giorno? Il musone sì, lui», mi sbirciò con la coda dell’occhio e sorrise, furba come il primo giorno che l’avevo vista. «Te l’ho portato. È uno che non parla, lui, ma ti starà simpatico. Ha dei bei ricci neri, mi piacciono un sacco», sussurrò, come se non potessi sentirla. Spostai lo sguardo ridendo come un coglione. «E’ un tesoro, Lò.»
Blu accarezzò la lapide con la punta delle dita, mentre m’accucciavo accanto a lei.
Il cielo era blu cobalto quella sera. Blu lo guardava e sorrideva. Ci vedeva gli occhi di Loris.
«Ehi, Fabri», mi disse, appoggiando la testa sulla mia spalla. «Loris diceva che la gente sceglie sempre cosa vedere negli altri, sai? Lui sapeva che nessuno l’avrebbe mai capito veramente. Ma a me non importa», posò la fronte sulla mia e mi guardò proprio in fondo alla testa. «Io voglio essere solo quello che sono. Io voglio essere Blu.»
Non so perché ma mi venne voglia di scherzare, di parlare. «V-v-vu-vuo-vuoi e-e-es-s-se-essere b-blu? C-co-com-me u-un p-pu-puf-puffo?»
Mi fissò seriamente per qualche secondo. Poi piegò la testa e scoppiò a ridere con gli occhi chiusi e le ciglia un po’ bagnate. «Sì, voglio essere blu. Magari mi dipingo la faccia. Credi che esista tipo… un fondotinta blu?»
Le presi la faccia tra le mani per tenerla ferma. Dio, si muoveva come una cavalletta impazzita. Era pazza davvero. Ma forse un po’ lo ero anche io.
«No», le soffiai sulle labbra, un po’ divertito.
«Loris, non guardare», disse Blu, guardandomi negli occhi.
Poi finalmente smise di agitarsi e si fermò. Si fermò sulla mia bocca.
 
 
 
 
 
 
Salti
 
 
 
 
 
Chiara: Ma sta succedendo davvero?
Fabrizio: A quanto pare!
Chiara: Dei, non ci posso credere! Sbrigati.
 
 
Siamo in auto. Blu continua a cambiare stazione radio e, giuro, mi sta facendo impazzire. Mi guarda un attimo cantando a squarciagola un pezzo che non conosco, poi scoppia a ridere. Mette la mano sulla mia, sul cambio.
«Sei contento, Fabri?»
Scuoto la testa e sorrido, guardando fuori dal finestrino. L’autostrada corre velocissima, un paio d’ore e saremo arrivati.
«S-sì.»
Non ho smesso del tutto di balbettare, ancora le parole s’incollano al palato, ecco, ma va meglio, credo. Ci metto solo un po’ per iniziare, è come da bambino, incespico sulle iniziali. Ma non c’è nessuno a fermarmi, ora, non c’è nessuno che finisca le frasi al posto mio. Blu dice che se voglio posso cambiare idea a metà d’una frase, posso dire una cosa diversa da quella che si aspettano tutti. Cambiare direzione, fare quello che mi pare.
In culo la gente.
 
E’ passato circa un anno da quando andavo al Girotondo. Blu ormai ha diciotto anni e potrebbe andar via dalla casa famiglia da un momento all’altro.
«Facciamo una pazzia», m’ha detto un giorno. «Facciamo un salto al buio prima che io debba andarmene da qui. Andiamo dalla tua amica.»
«M-ma chi?»
«Quella con cui parli su facebook. Dovresti vederla.»
Io non so bene come sia iniziata tutta questa storia, non so perché Blu abbia deciso di ascoltare proprio me. Ma Blu dice ch’è stata la stessa cosa che ha spinto me a guardare meglio lei, a vedere bene quel taglio nelle sue calze, a conoscere il suo blu. So che ha sempre avuto ragione, so che è necessario avere le palle di sbattere in faccia a tutti quello che siamo, quello che abbiamo da dire anche se a nessuno frega un cazzo di quello che abbiamo in testa. È per questo che devo incontrare Chiara, devo finalmente farmi vedere così come sono, anche se rotto, anche se imperfetto. Devo dipingermi la faccia di ciò che sono.
E’ importante avere il coraggio di saltare nel vuoto.
E alla fine l’ho fatto. Ho fatto il salto.




Fine
   
 
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