Fu a causa sua
che una
notte mi trasformai nella creatura più strana di questo
folle universo. Dico “a
causa sua”, ma forse dovrei dire
“merito”, visto quanto è stato
eccitante. E il
merito è stato tutto suo, del padrone di casa, infaticabile
festaiolo e
bevitore agonistico e dannatissimo Dio della macchina - fotografica, da
scrivere. Prendeva più le macchine di quanto prendesse le
donne.
E sì che di donne ne
aveva, eppure non l’ho mai visto amoreggiare come faceva
quella pazza di sua
moglie... ma, Dio, quanto si amavano quei due! Guardarli era eccitante
come
prendere un lungo sorso di un cocktail appena creato: come si
baciavano! e come
ballavano!
Tra le mie vecchie
carte ho ancora una foto di loro due sul green.
Dio mio, sembrano così sbiaditi e così
distanti... il fiato bollente di lui e
la risata cristallina di lei... gettarsi tra le braccia di uno dei due
era come
versare assenzio puro in un bicchiere - fissare per ore e ore quella
profondità
verde e limpida, essere - e andare - dappertutto e da nessuna parte.
Francis Scott
Fitzgerald aveva un sorriso assolutamente unico, un modo di arricciare
le
labbra totalmente intrigante. Sembrava che ridesse di tutti e di
nessuno - in definitiva,
era un altro segno della sua personalità da equilibrista: il
tutto e il niente
che si incontravano su un filo teso.
Lo adoravo, lo veneravo
e non capivo come potesse aver sposato quella donna dai brutti occhi
bassi e la
bocca cattiva, che avevo visto solo in fotografia. Caso volle che alla
festa a
cui ci incontrammo lei fosse dovuta restare a casa per
un’influenza.
O almeno, così mi disse
lui. Solo più tardi avrei capito che mentiva.
- Una bevitrice di
assenzio, eh? - disse, girando la bottiglia per leggerne
l’etichetta.
- Solo il migliore.
Il cuore andava a tempo
con i passi dei ballerini di charleston. Allungai il collo per guardare
alle
spalle di Fitzgerald. - Sei solo? - domandai, appoggiando il mento
sulla mano.
Lui mi guardò, e
allora... Dio, allora le sue guance diventarono rosso scuro e mi
guardò con una
luce tremolante negli occhi. - Zelda... è malata - rispose a
voce bassa,
guardando nel mio bicchiere.
Di poche cose mi sono
pentita in tutta la mia vita, ma una di quelle fu il non aver capito
che quella
sera Fitzgerald stava lanciando un grido di aiuto, non a me ma a
chiunque
avesse voluto ascoltarlo: confortata dall’assenza di sua
moglie, non vidi i
razzi di segnalazione, non sentii la sirena del naufragio. Lo lasciai
affogare.
- Ha... la buffa idea
di voler diventare una ballerina e ha... ha preso freddo, credo. Ha la
febbre -
disse incerto, prendendo un bicchiere dal vassoio che gli porgeva un
cameriere.
- Mi spiace molto -
risposi.
Fitzgerald bevette
lentamente, distrattamente.
Poi m’invitò a ballare.
Mi fece vedere il mondo
in maniera del tutto nuova: mi fece notare il turbine variopinto degli
abiti e
il soffitto a fiori spigolosi, le donne che esibivano sorrisi larghi
come i
loro giri di perle. - Tutti - mi sussurrò
all’orecchio - sono felici grazie
all’alcool.
- Anche grazie a te,
Fitz - ridacchiai della mia audacia - soprattutto grazie a te.
Lui mi offrì ancora da
bere. Quando tornai a casa, nel cuore della notte, ero ubriaca come una
scimmia.
- Tieni, non
la voglio
più! - mi gettò in grembo la fotografia, poi
riappoggiò la testa sui cuscini e
si coprì gli occhi con una mano. Dalla sigaretta che
stringeva tra le dita si
alzava una spirale di fumo azzurrino.
Beveva troppo, nessuno
lo negava, ma non lo si ammetteva nemmeno... eravamo noi stessi il suo
muro
tagliafuoco perché, lo ammetto, avremmo dovuto puntarlo con
un braccio e
nascondere l’altro dietro alla schiena per non far vedere che
avevamo ancora il
bicchiere in mano. Fitzgerald era il nostro campione.
- Zelda? - azzardai,
schiacciando con l’unghia il suo viso stampato.
Lui si alzò e mi puntò
addosso la sigaretta accesa: - Lo sai cos’ha fatto? Eh, lo
sai? Meglio che non
ci ripensi, o potrei davvero infuriarmi! - gridò, con la
faccia grigia, poi si
rassettò i capelli ondulati con la mano libera. - Meglio che
non lo sappia
nessuno... - mormorò tra sé, gli occhi fissi sul
tappeto.
Quando li rialzò capii
come potesse sentirsi sua moglie, nel vederli: che dipendesse dalla
piega della
fronte, dal gesto morbido con cui riavvicinò la sigaretta
alle labbra... o
dalla fredda leggerezza della sua espressione, che diceva a chiare
lettere “Non
ho bisogno di te”.
- Passami l’accendino.
Accartocciò la
sigaretta nel posacenere e ne accese un’altra. - Tu non
morirai vecchio -
scherzai, ma lui chiuse gli occhi e annuì con aria
consapevole, come se gli
avessi detto qualcosa che sapeva già.
- Lo so. Vorrei vivere
per sempre, ma - di nuovo la mano alta, ingioiellata di fumo - se ci
fosse solo
un’infinitesimale possibilità di vivere come se
avessi venticinque, ventisei
anni per sempre. Invece - abbassò le dita come per dirigere
un’orchestra -
invecchierò e morirò. Non so chi vorrebbe vivere
una volta che la bellezza, la
grazia e la giovinezza sono andate.
Poi, senza aspettare
una mia replica, mi preparò un bicchiere di champagne. - Da
leccarsi i baffi -
bisbigliò. Lo mandai giù guardandolo dritto negli
occhi. - Vuoi farmi
ubriacare? - chiesi, quando lo vidi prepararmene un altro con mano
esperta.
- Come se non lo
facessimo già per conto nostro.
Non so come facemmo
quella notte, a tenere fuori il resto del mondo; certo i fumi
dell’alcool
aiutarono, perché ci distesero i nervi: a un certo punto mi
ritrovai distesa a
pancia in giù sul divanetto, nuda come mamma mi ha fatto, e
le mani di
Fitzgerald, Dio me ne scampi se lo nomino ancora, dove non arrivavano
quelle...
era tutto molto languido, molto dolce.
Mi mise la bocca sulla
nuca, quel gran bastardo, e mi carezzò la schiena.
In un altro momento
piansi le lacrime più cocenti della mia vita, farfugliai
qualcosa e battei i
pugni sul divanetto.
- Tieni la foto... mi
piace che l’abbia tu - mi disse Fitzgerald quando fu tutto
finito.
Dio... questa
è
l’ultima volta che ti tiro in ballo, giuro... essere
governata dalle sue
mani... quanto piansi il giorno dopo e il giorno dopo ancora e tutte le
notti
per un mese e tutte le feste per un anno! Lo vedevo nella sua vestaglia
orribilmente bella che usciva dalla stanza e si chiudeva la porta alle
spalle,
tenero, intimo. E poi scendeva, andava a casa da sua moglie.
Di sotto l’orchestra
suonava le ultime, malinconiche note: la festa era finita e mi vedevo
rimanere
su quel divanetto, in quella stanza scura. E poi mi alzavo, andavo alla
finestra mezza nuda, guardavo la sua macchina slittare sul vialetto,
persa in
fondo alla notte.
Per quello c’era da piangere: per quello che aveva
fatto la notte prima, oltre che aver scopato una sconosciuta: per come
mi aveva
guardato sulla porta, intimo e tenero e con il viso rosso scuro. Ancora
quel
suo grido e quella volta provai a dirgli: - Fitz... - ma lui aveva
già chiuso
la porta e non servì a nulla, perché era
già troppo tardi, forse lo era stato
già quando mi aveva invitato a ballare.
La mattina dopo, era su
tutti i giornali. Zelda Fitzgerald impazzita. Malata. La moglie del
famoso
scrittore. Crisi di nervi. Li comprai tutti. Li misi in un baule
insieme alla
loro foto e lo chiusi a chiave.
Rimasero lì: non volevo
averci più niente a che fare, non volevo il fiato di Francis
Scott Fitzgerald
sul collo, non volevo sapere nulla di quella sciacquetta di sua moglie
e della
figlia che lui chiamava Scottie.
Esistevano, certo; gli
amici in comune mi raccontavano di liti furibonde, di bevute, di
romanzi che
non vendevano - e che finivano nel mio baule, dopo che ne avevo
prosciugato
ogni parola.
- Pronto?
-
Sono io.
-
Fitz...
-
Non pensavo di
chiamarti.
-
Sei ubriaco.
-
Come se non lo
fossimo già tutti.
-
Mi fai pensare a
Gatsby, quando dici che le ragazze gli versano lo champagne nei capelli
e lui
non fa niente. Perché non sei così, Fitz?
-
Vorrei esserlo...
vorrei cambiare.
Non
era vero. Era
quello che mi aspettavo accadesse quando squillava il telefono, ma
sapevo che
lui non ci pensava, a me, a nessuno tranne che a sua moglie! E la linea
da qui
a Los Angeles rimase silenziosa finché non mi chiamarono per
invitarmi al suo
funerale - a cui non andai. Ripresi la foto dei coniugi Fitzgerald sul green e chiesi
un bicchiere d’assenzio -
essere - e andare - dappertutto e da nessuna parte.