Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Framboise    05/03/2014    8 recensioni
Italia, anno domini 1381: Eufemia ha diciotto anni ed è figlia di un macellaio piuttosto importante nella Corporazione dei Beccai. Non è come la vorrebbe suo padre, remissiva e pronta ad un buon matrimonio, ma gestisce la bottega di famiglia con pugno di ferro, proprio come un uomo. Quando però arriva un matrimonio combinato ad intralciare i suoi piani, la ragazza non ha che una soluzione: fuggire, nonostante la guerra che da anni insanguina la sua città ed il Comune vicino sia appena ricominciata...
Genere: Avventura, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Medioevo
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

CAPITOLO 2:


La guerra, dopo molti anni che proseguiva tra brevi ed inutili tregue e battaglie tanto sanguinose che sembrava impossibile stabilire quale delle due parti avesse vinto, era finalmente finita. Il Comune di Eufemia aveva vinto e presto ci sarebbe stata una grande festa per celebrare l’evento: si vociferava che sarebbe stata così opulenta e magnifica da oscurare persino il Carnevale. La ragazza, che nei suoi diciotto anni di vita non aveva mai visto niente di più bello della celebrazione che precedeva la Quaresima, era piuttosto curiosa in proposito e non vedeva l’ora che arrivasse la domenica, data prevista per la festa. Naturalmente, niente di questa sua agitazione era trapelato nei suoi gesti o nelle sue espressioni: agli occhi di tutti la maggiore delle ragazze Cavadecchi si comportava come al solito, cioè in modo brusco e diretto. Mentre stava ripulendo la macelleria insieme al padre, quest’ultimo, in un inaspettato slancio di generosità, le aveva permesso di tornare a casa prima.
«Dai, vai... finisco io di mettere a posto qui» aveva borbottato, strofinandosi i baffi con una mano. Eufemia non si era fatta pregare, infatti si era subito inoltrata a passo svelto nel labirinto di vicoli bui che l’avrebbe condotta da Balduino con due monete d’argento ben nascoste nella tasca del grembiule.
Il signor Cavadecchi l’aveva guardata allontanarsi, poi aveva ricominciato a sistemare la bottega. Poco dopo, quando fuori ormai si era già fatto buio, una figura alta intabarrata in un lungo mantello nero bussò alla porta della macelleria. L’uomo guardò fuori, poi riconobbe mastro Malaspina, capo di una delle famiglie più ricche ed influenti della Corporazione dei Beccai, e lo fece entrare.
«Che cosa vi porta qui?» lo accolse, dopo i convenevoli di rito.
«L’uomo, che a volto scoperto mostrava un viso angoloso dal naso adunco, lo squadrò con gli occhi grigi e calcolatori e replicò: «Sono qui per proporvi un affare molto vantaggioso».
Mastro Cavadecchi gli si avvicinò, mentre il suo collega gli mormorava qualcosa all’orecchio.

Eufemia si svegliò bruscamente. Non capì subito quello che stava succedendo, poi si rese conto che sua sorella, con la quale condivideva il letto, si era già alzata e la stava scuotendo per una spalla.
«Alzati!»
La ragazza, sollevandosi di scatto, incenerì Maria con un’occhiataccia.
«Stupida, oggi non devo andare ad aprire il negozio... è venerdì e tocca a nostro padre» sbottò, cercando di allungarle uno scappellotto.
«Lo so, ma papà deve parlarti. Dice che è importante, quindi immagino che tu debba sbrigarti e andare da lui» replicò la più giovane delle due in tono sussiegoso, evitando abilmente lo schiaffo ed uscendo dalla stanza.
Femia scese dal letto e in poco tempo si vestì, grugnendo vaghe maledizioni all’indirizzo delle “notizie importanti”, quindi fece il suo ingresso nella cucina. Il padre era seduto al tavolo e stava mangiando del pane; quando vide la sua figlia maggiore le fece cenno di sedersi. Lei obbedì, accomodandosi davanti a lui.
Spero almeno che mi abbia svegliato per un buon motivo» pensò, puntandogli negli occhi il suo sguardo scrutatore.
«Eufemia, devo parlarti di una cosa molto importante. Ieri sera è venuto alla macelleria mastro Malaspina... sai chi è, vero?» cominciò l’uomo, lisciandosi i baffi con le dita, come di consueto.
«Sì, è il portavoce della nostra Corporazione» assentì lei. “E anche l’uomo più importante tra i beccai... che cosa vuole da mio padre?” si domandò.
«Esatto. Mi ha proposto un affare molto vantaggioso».
«Davvero? Che tipo di affare?»
«Un contratto di matrimonio tra te e suo figlio, Giangaleazzo. Io ho accettato».
«Che cosa?» esclamò la ragazza, spalancando gli occhi. Doveva aver capito male. Giangaleazzo Malaspina era un trentenne dagli occhi gelidi, che non si era mai sposato ma era uno degli scapoli più ambiti della città per le sue ricchezze. A lei non era mai piaciuto, forse per il suo sguardo ambiguo, oppure per l’aria di superiorità che assumeva verso chi non era nella sua stessa posizione sociale. Inoltre si diceva che avesse ucciso in duello un suo rivale, che era misteriosamente scomparso dalla città dopo aver fatto un’osservazione infelice sulla famiglia Malaspina.
«Un matrimonio, sì... sarebbe molto vantaggioso per noi. Sono una tra le famiglie più ricche della città, potresti fare una vita da signora, con lui» le spiegò il padre, evitando di guardarla negli occhi.
«Ma... e il nostro negozio? Che fine farà?»
«Semplice, si unirà al loro e quando io morirò, tuo marito prenderà il mio posto».
«Che cosa significa? La macelleria deve andare a me, sono stata io ad aiutarti a mandarla avanti, fin da quando la mamma è morta! Sempre io!»
«Che sciocchezza, una donna alla guida di una bottega? Non si è mai sentita una cosa del genere! Sarà tuo marito a gestirla».
«NON CHIAMARLO “MIO MARITO”! IO NON MI SPOSERÒ, E ANCHE SE DOVESSI NON MI SPOSEREI CON LUI! È VECCHIO E PROBABILMENTE ANCHE UN ASSASSINO!» gridò la ragazza, scattando in piedi e rovesciando la sedia.
«SMETTILA! LO SPOSERAI, QUESTO È QUANTO! ABBIAMO GIÀ SOTTOSCRITTO IL CONTRATTO E LA TUA APPROVAZIONE NON È RICHIESTA!» urlò in risposta suo padre, alzandosi a sua volta. Maria li guardava spaventata dalla soglia della camera, stringendo tra le mani il manico della scopa con cui fino a poco prima era intenta a spazzare il pavimento, tanto che le sue nocche erano completamente bianche.
Eufemia, furiosa, uscì di casa sbattendo la porta. Camminando tra i vicoli, sentiva montare la rabbia: non avrebbe sposato quell’uomo. Ma se il contratto di matrimonio era già stato firmato, non c’era niente da fare...
Certo, sapeva che i matrimoni combinati erano una cosa normale: anche sua madre e suo padre non si conoscevano quando si erano sposati. Nonostante ciò, non aveva mai pensato che una cosa del genere sarebbe capitata anche a lei. Si diede della stupida mentalmente: forse non erano ricchi come i Malaspina, ma gli affari andavano bene e la loro bottega era molto frequentata, era naturale che qualcuno potesse avere delle mire su di esso per potersi arricchire... e quale mezzo migliore di assicurarselo sposando la figlia scorbutica del proprietario, la cui totale assenza di pretendenti era ormai risaputa in tutto il Comune?
Finalmente giunse al macello, dove doveva assicurarsi i tagli migliori. Dopo una contrattazione lunga ed estenuante riuscì a far abbassare il prezzo di alcune once di carne due fiorini d’oro, cosa che le risollevò leggermente l’umore, poi li portò alla macelleria e cominciò a tagliarli a fette con violenza. Ad un tratto il coltello le sfuggì di mano, causandole un taglio non troppo profondo nella mano sinistra.
Calmati, adesso” si ingiunse, immergendo la mano in un secchio d’acqua fredda che teneva sempre nella bottega in caso di infortuni, poi avvolse il dito sanguinante in un asciugamano. In quel momento entrò suo padre, che si mise al lavoro senza degnarla di uno sguardo. La giornata passò. I clienti andavano e venivano, ma l’atmosfera che aleggiava nel negozio era molto tesa: padre e figlia si parlavano a monosillabi e solo per questioni di lavoro.
«Passami il coltello grande».
«Sì».
Quando chiusero la bottega, Eufemia era giunta ad una conclusione: cercando di imporsi non avrebbe ottenuto niente. Suo padre era una persona irascibile e collerica, pronta ad infuriarsi per qualsiasi motivo: avrebbe dovuto cercare di fargli cambiare idea in un altro modo. Nei giorni seguenti si comportò in modo gentile con lui, tanto che l’uomo sembrava essersi dimenticato del loro litigio; tuttavia affrontare l’argomento del matrimonio con lui cercando di controllarsi non sortì il risultato sperato, perché l’uomo era irremovibile. Femia ed il rampollo dei Malaspina si sarebbero sposati, la questione era chiusa. Di tanto in tanto la ragazza, mentre girava per la città per fare delle commissioni, incrociava per la strada il suo promesso sposo, che le sorrideva con aria ambigua e talvolta tentava di avvicinarla. Lei, per contro, cercava di evitarlo il più possibile, anche a costo di imboccare il vicolo laterale più vicino ed allungare il proprio tragitto.

Finalmente la domenica arrivò. La festa si preannunciava essere più allegra che mai: anche il cielo sembrava essere consapevole dell’importanza dell’evento, perché quel giorno il sole splendeva e scaldava con i suoi raggi l’aria autunnale, come in un ultimo stralcio d’estate. Eufemia si svegliò e si vestì in fretta, poi mise tutti i suoi risparmi in una tasca nascosta del suo vestito e si diresse verso la porta. Sua sorella sarebbe uscita di lì a poco, dopo aver rigovernato la casa. In quel momento suo padre la fermò e chiamò anche Maria.
«Ragazze, prendete con voi un coltello quando uscite. Sarà pieno di soldati mercenari, gente che non vede una donna da chissà quanto tempo: non si può mai essere abbastanza sicuri» borbottò. Femia estrasse dalla tasca il suo serramanico, che portava sempre con sé, mentre la più piccola delle due sorelle fece una smorfia.
«Le signorine per bene non dovrebbero andare in giro armate...»
«Tanto non lo saprà nessuno. Tu prendilo, non si sa mai!» le ingiunse seccamente la sorella maggiore, poi uscì: nonostante tutto l’astio che provava nei confronti di Maria, non voleva che le capitasse qualcosa di brutto.
Le strade della città erano più affollate che mai. La gente camminava avanti e indietro tra le innumerevoli bancarelle, tra il chiacchiericcio dei clienti ed i richiami dei mercanti. Si vedevano dovunque bancarelle ricche dei prodotti più svariati, dai cibi alle cotte di maglia, dal folendaro* allo scrivano. Eufemia camminava guardandosi intorno, con un sorriso appena accennato: si fermò dalla speziale, un’anziana vedova dai capelli grigi raccolti in una crocchia severa, per comprare alcune spezie che servivano nella bottega per conservare le carni, poi si diresse verso il banco dello spadaio, che mostrava la propria merce. Si soffermò a guardare delle lunghe spade scintillanti, con l’elsa decorata con delle incisioni: armi da nobili, da cavalieri.
Chissà che cosa si prova a tenere in mano qualcosa del genere...” si domandò, passando una mano sulla lama con tocco leggero. Dopo alcuni attimi in cui si sorprese a fantasticare di possederne una, si riscosse e si allontanò. Comprò un pane ai fichi da un venditore ambulante, i cui prodotti emanavano un profumo irresistibile, poi si incamminò di nuovo, ansiosa di godersi la festa. Quando arrivò in piazza si fermò ad ascoltare un menestrello, attorno al quale si era già raccolta una folla.
«Venite, signore e signori, venite ad ascoltare la storia della tragica storia d’amore tra la regina Isotta di Cornovaglia e Tristano, il prode cavaliere! Accorrete!»
La storia le piacque soprattutto perché era parlava di avventure e di luoghi lontani e perché la musica suonata dal cantastorie era davvero bellissima, mentre la storia d’amore tra i due protagonisti la lasciò piuttosto indifferente: non c’era gusto ad ascoltare la storia della passione tra i due, che peraltro alla fine morivano entrambi per la bugia raccontata dalla moglie di Tristano. Il resto degli ascoltatori, però, non sembrava pensarla come lei: molti di loro si asciugavano furtivamente gli occhi con gli angoli dei mantelli o dei fazzoletti. La ragazza lasciò cadere alcune monete nel cappello che il menestrello le tendeva, quindi si diresse verso il banco dello scrivano. Quest’ultimo era un uomo dai capelli neri, che la guardò sorridendo.
«Le interessa qualcosa in particolare, signorina?»
«No... vorrei solo dare un’occhiata» replicò in fretta lei, distogliendo lo sguardo e posandolo su alcuni codici. Li aprì, sfiorando le pagine con timore quasi reverenziale, decifrando le lettere arzigogolate che le aveva insegnato Balduino.
Ricordava ancora l’emozione della prima volta che era riuscita a tracciare il proprio nome nel terreno polveroso della strada...
Quando però scoprì i prezzi dei libri, la ragazza trasalì come se l’avessero schiaffeggiata: non sarebbe mai riuscita a permettersene uno. A malincuore si allontanò dalla bancarella, addentrandosi tra le strade. Nella via centrale si faceva festa grande: i cavalieri appena tornati dalla guerra sfilavano sui loro cavalli, muovendosi con fierezza tra due ali di folla acclamante. Sembravano quasi esseri ultraterreni, troppo gloriosi per essere persone normali, con le loro spade dall’elsa intarsiata e le loro armature scintillanti. Eufemia rimase per qualche minuto a guardarli, poi riprese il suo cammino: c’erano ancora molte cose da vedere. Di tanto in tanto incrociava per le strade degli uomini che indossavano rozze armature di metallo e cuoio: erano i mercenari, loschi figuri dall’aria feroce, con le barbe lunghe ed incolte e gli occhi cupi di chi ha visto troppe battaglie per poter dormire tranquillamente la notte. Sembrava che i passanti si scostassero nervosamente per far passare quei soldati con una mano sempre posata sulle loro armi e l’espressione guardinga: nessuno voleva avere contatti con loro, così ricchi di brutti ricordi tanto vicini da essere quasi tangibili e con i corpi monchi e distrutti dalla guerra.

Si era fatto buio ed i suoni dei festeggiamenti cominciavano a scemare. Alcune melodie, però, risuonavano ancora nell’aria fredda della sera, mentre Eufemia si dirigeva verso casa. Decise di prendere la strada più lunga, quella che costeggiava il lavatoio: era meno frequentata, avrebbe potuto attardarsi senza rischiare di incontrare il padre o la sorella. I vicoli erano completamente deserti ed immersi nella penombra: la ragazza camminava persa nei propri pensieri, quando udì dei passi dietro di lei. Inizialmente non ci fece caso, poi però vide una sagoma scura affiancarla. Alzando lo sguardo, si rese conto che si trattava proprio di Giangaleazzo Malaspina, che fino a quel momento era riuscita ad evitare.
«Buonasera, mia futura sposa. Vi siete goduta la festa?» le domandò ironicamente l’uomo, con un tono mellifluo che le fece venire i brividi. Strascicava le parole, segno che probabilmente aveva bevuto.
«Non sono la tua futura sposa e non lo sarò mai, grazie al cielo. Vattene» ribatté lei in tono piatto.
«Non sembra questa l’opinione di tuo padre, cara. Tra poco convoleremo felici a nozze, non dovresti evitarmi».
«Lasciami in pace!» esclamò Eufemia, accelerando il passo.
«Perché? In fondo dovremmo conoscerci meglio... perché non cominciare adesso?» le domandò, afferrandole un braccio. La ragazza cercò di liberarsi dalla presa, ma lui la strinse più forte e le afferrò anche l’altro polso, spingendola contro il muro di una casa. La ragazza sentì la propria schiena sbattere dolorosamente contro le pietre della parete, mentre Giangaleazzo avvicinava il proprio volto al suo. Il suo alito puzzava di vino e si mischiava all’odore di sudore, dandole la nausea.
«LASCIAMI! AIU...» gridò lei, ma l’uomo le tappò la bocca, mentre con l’altra mano le aveva preso un lembo del vestito e cercava di sollevarlo.
Eufemia, approfittando del fatto che aveva finalmente una mano libera, riuscì ad afferrare una forma a lei familiare: il manico del suo coltello. Lo impugnò e colpì Malaspina con tutte le sue forze: un fendente istintivo, rapido, preciso. Non ebbe bisogno nemmeno di pensare all’azione, il suo corpo sapeva già cosa fare.

Dopotutto lavorava in una macelleria, era sempre stata brava ad usare le lame...

Tutto ciò che seguì sembrò accadere molto in fretta: l’ubriaco gemette e lasciò la presa, allontanandosi di un passo, ma prima che si fosse reso conto di ciò che stava succedendo venne raggiunto da un altro fendente in pieno petto. Barcollò, poi cadde all’indietro, picchiando la testa contro lo spigolo del lavatoio. Femia lo vide scivolare a terra e giacere immobile, gli occhi grigi spalancati e fissi come quelli di un pesce su un banco del mercato. La ragazza lo guardò, inorridita ed ansimante, stringendo convulsamente in mano il coltello insanguinato. In quel momento udì un suono provenire dall’incrocio poco lontano: si voltò e vide un giovane che la fissava ad occhi spalancati, brandendo con entrambe le mani la propria spada, ancora sollevata. A giudicare dall’armatura arrugginita e malridotta, era certamente un mercenario...

 

 

 

 

NOTE DELL'AUTRICE:
Eccomo il nuovo capitolo, spero che vi piaccia! Devo avvisare che questa storia non avrà un aggiornamento regolare, perché ho molti impegni, soprattutto in questo periodo, ma cercherò di pubblicarne almeno due al mese.

*folendaro: uomo che vendeva le folende, cioè le pietre usate per accendere il fuoco.

  
Leggi le 8 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Framboise