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Autore: sensibility    06/03/2014    7 recensioni
Bella ha solo ventidue anni quando si ritrova sola, senza un tetto sopra la testa e senza un soldo in tasca, costretta a crescere una bimba di pochi mesi senza l'aiuto di nessuno. E' proprio quella bimba il motivo per cui suo padre, furioso, l'ha cacciata di casa senza pensarci due volte. Bella decide allora di lasciare la città in cui è nata e cresciuta e che tanto l'ha fatta soffrire nella sua vita per trasferirsi in un piccolo paese sperduto tra le montagne dove troverà un lavoro, una casa, dei nuovi amici, una famiglia. E chissà che con il tempo non riesca ad aprire di nuovo il cuore all'amore...
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan, Un po' tutti | Coppie: Alice/Jasper, Bella/Edward, Carlisle/Esme, Emmett/Rosalie
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Ecco qui il nuovo capitolo! Finalmente fa la sua comparsa Edward. Il suo incontro con Bella non sarà così scontato come pensate, o almeno spero di riuscire a sorprendere qualcuna di voi. S’incontreranno e incominceranno a conoscersi, desidereranno conoscersi, ma qualcosa cambierà presto le carte in tavola.
In questo capitolo vedremo anche Rosalie che comincia ad aprirsi e a mostrare quanto in realtà sia diversa da quella donna gelida e autoritaria che avete conosciuto nei primi capitoli.
Spero che il capitolo vi piaccia e vi faccia sorridere.
Buona lettura!
Sensibility


Capitolo 4


È passato più di un mese da quando Esme mi ha accolto nella sua casa, accettando con me anche la mia piccola Lily, e non mi sono ancora abituata nonostante la routine che si è instaurata.
Come ogni mattina preparo la colazione, questa mattina ho pensato di cucinare le brioche al cioccolato; non è una ricetta difficile da preparare ma ci vuole del tempo per avvolgere una noce di cioccolato con un triangolo di pasta stesa sottile.
Il profumo chiama la famiglia Cullen al tavolo della cucina in pochi minuti, con la solita confusione per le scale che annuncia l’arrivo di Emmett, Alice e Jasper. Il gemello di Rose, nonostante il persistente odio della sorella nei miei confronti per cui non sono ancora riuscita a trovare un motivo, ama qualsiasi cosa io cucini e non si sveglia più all’ultimo minuto per poi prepararsi di corsa e trangugiare in fretta un paio di biscotti con un sorso di caffè. Ora si sveglia prima di tutti e scende con i fratelli Cullen in cucina per mangiare tutto ciò che preparo, e facendo anche il bis.
“Buongiorno!” mi salutano tutti e tre in coro, prendendo posto intorno al tavolo e aspettando con gli occhi che brillano che io serva loro la colazione. I primi giorni Esme e Carlisle hanno sgridato i loro figli, ricordando che non sono la loro cameriera, che possono alzarsi e servirsi da soli per poi ripulire quando hanno finito, ma a me non importa e così ogni mattina servo loro la colazione: una tazza di the per Alice, un caffè per Jasper e una tazza di latte e cacao per Emmett, accanto a un piatto di qualsiasi cosa abbia scelto di cucinare quella mattina.
“Buongiorno, ragazzi. Dormito bene?” chiedo, posando in mezzo al tavolo un vassoio su cui ho sistemato le decine di brioche che ho appena sfornato.
“Benissimo!” esclama Alice che quella mattina è più entusiasta del solito, eccitata per i preparativi del ballo d’Inverno che si terrà domani sera. Lei è una delle organizzatrici, mi ha detto con orgoglio, e ha scelto lei gli addobbi e il tema della festa. Ciò che, però, rende questo ballo diverso da tutti gli altri è che per la prima volta sarà accompagnata: Jasper l’ha invitata un paio di giorni fa. Quando me lo ha detto, pochi minuti dopo l’invito del suo ragazzo, sono rimasta sorpresa: è una bella ragazza, allegra e solare, e mi ha stupito che non abbia avuto una coda di ragazzi pronti ad uscire con lei. Io non sono mai andata a un ballo da sola, non sono mai andata accompagnata solo dalle mie amiche e forse è stato proprio questo uno dei motivi per cui le cose sono andate come sono andate.
“Stasera tornerò tardi” continua Alice, bevendo un lungo sorso di the caldo, “forse mi fermerò fuori a cena. Potresti dirlo tu a mamma e papà, Bella, per favore? Lo sanno già ma nel caso si fossero dimenticati, non vorrei che si preoccupassero.”
“Ci penso io, non ti preoccupare” la rassicuro con un sorriso, sedendomi accanto a lei e mangiando anch’io la mia colazione. Mentre do un morso alla mia brioche, bevendo un sorso di succo d’arancia fresco, vedo Jasper alzare la testa di scatto dalla brioche in cui stava affondando i denti fino a un attimo prima e puntare i suoi occhi in quelli di Alice.
“Come torni a casa?” chiede serio.
Alice alza lo sguardo su di lui e resta per un attimo disorientata dall’espressione che vede sul suo volto ma risponde con un’alzata di spalle: “Non lo so. Pensavo di farmi dare un passaggio da qualcuno.”
“E se non trovi nessuno?” insiste, la colazione ormai dimenticata nel piatto. “Come pensi di tornare a casa? A piedi? Con il buio?”
“Perché ti preoccupi?” esclama Alice alzando la voce per la prima volta da quando sono arrivata in quella casa. “Non sei mio padre! E non sei mio fratello! Mio fratello non si preoccupa di come tornerò a casa.”
“Tuo fratello se ne frega!” ribatte Jasper, alzando la voce anche lui. Non li avevo mai sentiti urlarsi contro, non li avevo mai sentiti nemmeno litigare e ora non sapevo come comportarmi.
“Ehi!” esclama Emmett, sentendosi preso in causa. “Non è vero che me ne frego! Solo che so che sa cavarsela. Non è mica una bambina.”
“Esatto, Jasper. Non sono una bambina” concorda Alice, lanciando un’occhiata piena di orgoglio al fratello che è tornato alla sua colazione, ignorando la discussione in atto.
“Non ho mai detto che tu sia una bambina” mormora Jasper, colto di sorpresa, “ma non è prudente andare in giro di notte. Potrebbe succedere qualcosa di brutto e non voglio.”
“Cosa vuoi che mi succeda? In questo paese sperduto non è mai successo nulla per cui tu debba anche solo lontanamente preoccuparti” sbotta esasperata.
“Ma io mi preoccupo, invece, lo vuoi capire?? Sei la mia ragazza. Ho il diritto di preoccuparmi!” esclama, alzandosi e lasciando la sua colazione a metà per la prima volta. È sulla porta, ormai quasi in corridoio, quando si ferma e senza voltarsi mormora: “Chiamami quando hai finito. Vengo a prenderti io.” E se va senza salutare, sbattendo la porta.
Emmett sembra non essersi accorto di nulla mentre Alice fissa il punto in cui Jasper è sparito con uno sguardo scioccato negli occhi.
“Va tutto bene?” chiedo preoccupata. In quel mese ho imparato ad apprezzare quel ragazzo silenzioso e sempre composto dai riccioli biondi e gli occhi azzurro cielo e non mi è sfuggito come il suo sguardo segua sempre la piccola di casa, sempre pronto ad aiutarla e a prendersi cura di lei. So che stanno insieme da qualche mese ma sembra che qualcosa infastidisca Alice da qualche giorno e questo sta facendo impazzire il povero Jasper.
Alice annuisce. “Non so cosa gli sia preso stamattina.”
“Lo hai escluso” rispondo con un’alzata di spalle, prima di dare l’ultimo morso alla mia colazione.
“Cosa vuoi dire?” chiede confusa.
Lancio un’occhiata all’orologio appeso al muro, rendendomi conto che è tardi. “Si preoccupa per te perché a te ci tiene e tu ti sei comportata come se non esistesse, come se lui non fosse importante. Avresti dovuto chiedergli di venirti a prendere. Agli uomini piace rendersi utili.”
Alice mi fissa scioccata e vedo le sue guance tingersi di rosa, imbarazzata. Sorrido, intenerita da quell’improvvisa timidezza che ben poco si addice al suo carattere, e annuisco con decisione. “Odio sentirmi una bambina” mormora Alice, abbassando lo sguardo sulla sua tazza ormai vuota, la voce così bassa che faccio quasi fatica a sentirla. “Volevo dimostrargli che so cavarmela, che non sono più una bambina da proteggere. Voglio che smetta di guardarmi come se fossi la sua sorellina minore.”
“Per te è come se fosse tuo fratello?” chiedo scettica. Lo sguardo scandalizzato che mi lancia Alice risponde alla mia domanda senza bisogno di tante parole. “Bene, perché ti assicuro che per lui tu non sei affatto una sorella.”
Il volto di Alice va a fuoco e incapace di trovare una risposta, balbetta una scusa e scappa via, diretta a scuola. Emmett, seduto davanti a me, è alle prese con la sua quarta brioche e non sembra essersi accorto di nulla. Finisco l’ultimo boccone della mia colazione, bevo il mio succo e mi alzo, riordinando in fretta la cucina prima di andare a controllare Lily.
Salgo le scale ed entro piano nella nostra stanza, stando attenta a non far rumore per non svegliare la mia bambina che ha un sonno molto leggero. La trovo addormentata dove l’ho lasciata, in mezzo al letto circondata dai cuscini in modo che non possa cadere e farsi male se nel sonno dovesse agitarsi. Sorrido, vedendo che si è raggomitolata stretta e stringe al petto il lenzuolo che l’avvolge come le spire di un serpente. Ai piedi del letto, acciambellato su una vecchia coperta che mi ha regalato Esme, il piccolo Oliver fa la guardia. Vedendomi, alza la testa e fissa i suoi grandi occhi azzurri nei miei.
“Bravo, cucciolo” sussurro, lasciandoli una carezza sulla testa, “fai la guardia.”
Non so se Oliver capisca le mie parole ma voglio credere che sia così. Mi sento un po’ più tranquilla sapendo che c’è lui a sorvegliare Lily ovunque vada. Dopo un’ultima carezza, richiudo la porta alle mie spalle e vado a cercare Esme.
“Bella!” mi chiama la donna, cogliendomi di sorpresa mentre sono ancora davanti alla mia stanza, a fissare la porta indecisa su cosa fare. Ho un appuntamento in paese e Esme mi ha convinto a lasciare Lily a casa, a dormire, mentre io sono via ma ora non mi sembra più una buona idea. “Cosa fai ancora qui? Rischi di fare tardi.”
“Non mi sono mai separata da lei da quando è nata” rispondo in un sussurro. “So che qui sarà al sicuro e starà bene, e poi io sarò di ritorno tra poche ore, ma non riesco ad allontanarmi.”
Esme mi guarda con un sorriso materno, so che lei capisce ciò che provo e saprà trovare le parole giuste per tranquillizzarmi, ma prima che possa dire qualcosa, compare Rosalie: è perfetta come sempre, con i capelli in ordine, fasciata nell’ennesimo vestito elegante. Nonostante sia passato del tempo, il nostro rapporto non è cambiato; non so per quale motivo provi tanta rabbia nei miei confronti, tutti i miei tentativi di parlarle sono finiti con un buco nell’acqua. L’unica cosa che è cambiata è il suo comportamento con Lily: quando la mia bambina è nei paraggi, la gelida donna in carriera si scioglie e al suo posto compare una ragazza dolce e premurosa che gioca e ride con lei. Solo per questo motivo non posso odiare quella donna.
“Posso stare io con Lily, se per te va bene” propone Rosalie, rivolgendosi a me senza astio forse per la prima volta da quando la conosco. La guardo sorpresa e prima che riesca a trovare la voce per rispondere, Esme chiede: “Non devi lavorare oggi? Credevo che avessi un caso importante da seguire e che non potessi perdere nemmeno un giorno.”
“Posso prendermi la mattinata libera” mormora, guardando Esme, poi si volta verso di me e accenna un sorriso. “Non starai via molto e io farò in modo che Lily si accorga il meno possibile della tua assenza.”
Il mio primo istinto è quello di rifiutare la sua proposta, svegliare Lily e portarla con me in paese ma so che non è la cosa migliore per nessuno. Io sarò impegnata, la mia bambina si annoierà moltissimo e Rosalie ci resterà male. “È molto gentile da parte tua, grazie” rispondo, sapendo che non c’è persona migliore a cui affidarla. Ho spiato Rosalie quando giocava con Lily ed è meravigliosa, sempre attenta che non le succeda niente e piena di idee divertenti per tenerla impegnata.
Rosalie annuisce con un sorriso. “Lo faccio volentieri. Lily è una bambina dolcissima.”
“Va bene” mormoro con un sospiro. “Io vado.”
“A dopo, tesoro, in bocca al lupo!” mi augura Esme, dandomi un bacio sulla guancia e stringendomi in un abbraccio portafortuna. Rosalie si limita a un cenno del capo ma è un passo avanti rispetto al risentimento che vedevo sempre impresso sul suo volto. Forse, accettando il suo aiuto, concedendole di occuparsi della mia bambina da sola, ho fatto un primo passo per conquistarmi il suo rispetto.
Non sono mai scesa in paese da quando sono arrivata, è sempre stata Esme ad occuparsi della spesa e io non ho mai avuto alcun motivo per lasciare la fattoria, così mentre cammino mi guardo intorno ammirando il paesaggio che mi circonda. È cambiato dall’ultima volta: i colori si sono spenti, lasciando il posto ad alberi spogli che svettano verso un cielo grigio che promette neve; la terra si è indurita, complice anche il freddo delle ultime notti; gli animali che animavano la foresta non ci sono più, migrati verso sud per svernare in luoghi più caldi o rifugiatisi nelle proprie tane per il letargo, e i miei passi risuonano nel silenzio che regna ovunque.
Arrivo in paese verso le nove e non ci metto molto a trovare la mia meta, anche senza le indicazioni di Esme sarei riuscita a individuare in fretta il grande edificio moderno, costruito interamente in vetro e acciaio, così diverso dalle case colorate del paese.
Guardo quella costruzione che ospita l’ospedale e non posso fare a meno di sentirmi nervosa, ricordando l’ultima volta in cui sono entrata in un luogo simile. Faccio un respiro profondo, ricacciando indietro i ricordi, ed entro.
All’accettazione una signora gentile mi indirizza verso lo studio della dottoressa con cui ho appuntamento. Nonostante sia un ospedale, non sono qui per una visita ma per cercare lavoro. Esme ha sentito che la dottoressa Weber sta cercando qualcuno che possa dare ripetizioni in francese e spagnolo ai suoi figli. Non ho alcuna qualifica ma provare non costa nulla e ho bisogno di soldi, così busso alla porta, sperando che il colloquio vada bene.
“Si accomodi” mi accoglie la donna, indicando una sedia di fronte alla sua scrivania. Mi siedo, nervosa, e mi presento. “Sì, Esme mi ha già detto tutto” mi interrompe lei sbrigativa. Ha l’età di Esme, il volto ancora fresco e giovane, ma i suoi occhi sono freddi e le sue parole non mostrano il minimo sentimento. Forse è l’enorme responsabilità che il suo lavoro comporta, rifletto, ma mi sento a disagio davanti allo sguardo scrutatore della dottoressa Weber.
“Dove hai portato avanti i tuoi studi?” chiede secca.
“Ho studiato in un collegio a Londra” rispondo, cercando di mostrarmi decisa e sicura di me, come mi è sempre stato insegnato. Il mio sguardo resta fermo negli occhi castani della donna. “Mi sono diplomata con il massimo dei voti e ho scelto di frequentare Lingue Moderne a Cambridge, francese e spagnolo, soprattutto.”
“Non ti sei laureata, però” mi fa notare.
Annuisco. “Ho lasciato dopo tre anni.”
“Il motivo?”
“Problemi personali” rispondo, sostenendo il suo sguardo. So che tutto il paese conosce la mia storia, o almeno quel poco che ho raccontato, ma non ho alcuna voglia di parlarne con quella donna. Merito il lavoro che potrebbe offrirmi e lo sappiamo entrambe. Dopo qualche altra domanda, infatti, lo deve ammettere anche lei e mi offre il lavoro: “Farai lezione tre volte a settimana, due ore al giorno, per un mese. I miei figli hanno una prova ai primi di dicembre. Se non la superano, sei licenziata.”
Non sono in condizione di trattare, né tantomeno di rifiutare quindi annuisco, accettando la sua offerta. Mi lascia un biglietto con il suo numero di telefono e l’indirizzo di casa e mi congeda con un cenno del capo verso la porta, invitandomi a uscire dal suo studio.
Solo quando sono ormai fuori dall’ospedale mi rendo conto di avere finalmente un lavoro che mi piace e scopro di essere entusiasta all’idea di iniziare. Presa dalla voglia di festeggiare, decido di concedermi un caffè al bar che vedo dall’altra parte della strada.
Il locale è carino e appena entrata vengo accolta da uno scampanellio sopra la mia testa e dal profumo intenso e inebriante del caffè. Respiro a fondo, godendomi il calore del locale, e mi guardo attorno ma i tavolini sono tutti occupati, complice anche il freddo pungente che ha colpito il paese costringendo tutti al chiuso. Mi avvicino al bancone e mi siedo su uno sgabello, aspettando che qualcuno mi noti e venga a prendere la mia ordinazione.
“Posso offrirti qualcosa?” chiede una voce maschile accanto a me.
Mi volto e mi perdo in due meravigliosi occhi verde smeraldo, profondi e sorridenti. Solo quando riesco finalmente a trovare un po’ di contegno e a distogliere il mio sguardo mi rendo conto che appartengono a un ragazzo poco più grande di me, con un fisico asciutto e muscoloso di chi fa sport abitualmente, una massa disordinata di capelli ramati e un sorriso che farebbe sciogliere chiunque.
“Cosa posso portarvi?” è la voce del barista ad attirare la mia attenzione, distogliendo i miei pensieri da sogni ad occhi aperti che non posso più permettermi di fare. “Un cappuccino, grazie” rispondo e dopo aver sentito l’ordinazione del ragazzo accanto a me, un caffè e una brioche al cioccolato, metto in chiaro le cose: “Questo non significa che ho accettato la tua offerta. Ti ringrazio ma preferisco pagare.”
Il ragazzo mi guarda sorpreso e un sorriso divertito si apre sul suo volto. “Posso almeno sapere il tuo nome? Non ti ho mai vista da queste parti.”
Lo guardo sorpresa. “Credo tu sia la prima persona che non sa chi sono.”
“Perché?” chiede e sul suo volto compare un’espressione confusa che lo fa assomigliare a un bambino curioso. Prima che possa impedirlo, mi ritrovo a ridacchiare. “Ehi, adesso perché ridi?”
“Hai un’espressione buffa” ammetto, sorridendo. “Per rispondere alla tua domanda, invece, mi sono trasferita qui da poco e in due giorni sembrava che tutti sapessero del mio arrivo.”
“Nei piccoli paesi succede così” annuisce, sbuffando. “La gente ama parlare ma non ci sono molte novità di cui poter spettegolare. Tu a quanto pare sei stata particolarmente interessante. Di solito ci vuole almeno una settimana per fare il giro del paese.”
“Le grandi città non sono molto diverse” mi ritrovo a ribattere, ripensando alla mia infanzia a Londra, e la differenza è abissale: a Forks nessuno mi ha giudicata, nessuno si è messo a spettegolare su Lily, su chi sia il padre, sul perché sono da sola o dove sia la mia famiglia. Tutti sanno che sono arrivata e che ho una bambina con me ma niente più di questo ed è rassicurante.
“Sto morendo di fame. Spero si sbrighi a portare la mia colazione o comincerai a sentire il mio stomaco brontolare” borbotta, lanciando un’occhiata verso il barista che ancora non ci ha portato le nostre ordinazioni, poi si volta verso di me e sorride. “Allora, da dove vieni?”
“Se te lo dico, mi prenderai per pazza.”
“Perché?” chiede curioso e non posso fare a meno di ridere. “Ma tu chiedi sempre perché per ogni cosa??” chiedo, trattenendo a stento le risate. Il ragazzo mi guarda sorpreso, poi scoppia in una risata cristallina che risuona intorno a me e mi scioglie. Adoro sentirlo ridere, questa è l’unica cosa a cui riesco a pensare e mi perdo a guardarlo.
“Ecco le vostre ordinazioni.” Il barista ci serve finalmente i nostri caffè e il mio vicino si lancia sulla brioche come se non mangiasse da giorni. In due morsi l’ha finita e soddisfatto, sorseggiando il suo caffè, mi sussurra: “Temo che domani tutti sapranno che abbiamo fatto colazione insieme. Le voci girano in fretta e se non mi sbrigo, la mia famiglia saprà del mio ritorno prima che io riesca ad arrivare a casa.”
“Non ti trattengo” rispondo, bevendo lentamente il mio cappuccino. Non ne bevo uno da quando ho lasciato la mia casa ma il suo sapore, quell’aroma di caffè, mi riportano al passato, e la tristezza oscura i miei occhi.
“Non ho così fretta. Sto ancora aspettando che tu risponda alla mia domanda” mi fa notare, facendomi l’occhiolino. Per la prima volta nella mia vita, mi ritrovo ad arrossire, imbarazzata. Solo ora mi rendo conto che forse questo ragazzo così bello e divertente, ci sta provando con me. Sono passati quasi due anni dall’ultima volta e non so cosa fare.
“Sono nata e cresciuta a Londra.” L’espressione scioccata che compare sul suo volto mi fa ridacchiare, di nuovo. “Io te lo avevo detto che mi avresti presa per pazza.”
“Perché tu sei pazza!” esclama, attirando l’attenzione di metà dei clienti del locale. A disagio, mi affretto a zittirlo, mettendogli una mano sulla bocca. “Non urlare. Non serve che lo sappia tutto il paese.”
“Perché hai lasciato Londra per venire a lavorare a Forks?” chiede, appena lo lascio libero di parlare, lo shock ancora visibile sul suo volto ma nei suoi occhi vedo la curiosità illuminarli. “Voglio dire… stiamo parlando di Forks, il paese più piccolo e insignificante di tutti gli Stati Uniti!”
“Mi piace qui” rispondo con un’alzata di spalle.
“Tu sei strana” decide, guadandomi storto, poi però sorride e accenna una risata, scuotendo la testa divertito. “Ora devo proprio andare ma prima posso sapere il tuo nome?” e lanciandomi un’occhiata maliziosa, aggiunge: “Altrimenti come posso chiederti di uscire con me?”
Rimango interdetta per qualche secondo. Mi sta invitando a uscire? Quando ritrovo la voce, ricambio quel sorrido malizioso e decido di giocare un po’ con lui. “Nemmeno io conosco il tuo nome” gli faccio notare.
“Edward, molto piacere” si presenta, porgendomi la mano che mi affretto a stringere. Una scossa mi attraversa e dallo sguardo sorpreso di Edward, quella scossa l’ha notata anche lui. “E il tuo nome, invece?”
“Scoprilo da solo come mi chiamo e io uscirò con te.”
“È una promessa?” chiede, fissandomi negli occhi, sfidandomi. Sorrido e annuisco, poi lascio qualche moneta per pagare il mio cappuccino e me ne vado, accennando un saluto con la mano. Edward mi guarda, sorridendo, e ricambia il mio saluto.
Euforica per l’incontro, e il lavoro appena trovato, decido di fermarmi a comprare qualcosa per Lily, una confezione dei suoi biscotti preferiti, il succo di frutta che adora e gli ingredienti per una torta al cioccolato per festeggiare il mio successo e ringraziare Esme per tutto ciò che ha fatto e che sta ancora facendo per me.
Dopo aver pagato, mi inoltro nella foresta, accelerando il passo per arrivare a casa il prima possibile. Finché ero al bar, in compagnia di Edward, mi rendo conto di non aver sentito la mancanza di Lily e mi sento in colpa. Da quando è nata, ormai diciotto mesi fa, è sempre stata al centro dei miei pensieri, qualsiasi cosa facessi lei era con me. Oggi, invece, in quella mezz’ora al bar, mi sono completamente dimenticata della mia bambina; per la prima volta mi sono comportata come una ragazza di ventiquattro anni senza alcuna responsabilità. Mi sento in colpa per aver promesso a Edward un appuntamento quando, quella mattina, solo l’idea di allontanarmi da Lily per un paio d’ore mi ha gettato nel panico.
Arrivo a casa in meno di quaranta minuti, con il fiatone, e rallento per riprendere fiato e permettere al mio cuore che sembra voler scoppiare per la corsa appena fatta di riprendere a battere più lentamente. Quando mi sento abbastanza tranquilla, apro la porta che nessuno chiude mai durante il giorno ed entro in casa.
Il calore mi avvolge, scaldandomi, e il rumore della risata della mia bambina mi arriva con forza, sciogliendomi. Con lei sento la voce di Rosalie che prende in giro qualcuno che sta ridendo con loro, Emmett probabilmente, penso, anche se la sua risata sembra diversa e mi colpisce in un modo che non riesco a capire.
Mi tolgo la giacca in tutta fretta, appendendola in malo modo accanto alla porta, e dimenticando la spesa in un angolo, entro in salotto ansiosa di riabbracciare la mia Lily. “Sono a casa!” esclamo, mettendo piede nella stanza. La mia attenzione è completamente assorbita dal piccolo angioletto biondo che ride al centro del grande tappeto della sala. Rosalie è accanto a lei, inginocchiata per terra, con le mani sollevate e pronte per afferrarla nel caso ridendo perdesse l’equilibrio e cadesse a terra. Accanto a loro, un ragazzo che non ho mai visto ma non mi soffermo su di lui, né su qualsiasi altra cosa che non sia la mia bambina.
Appena sente la mia voce, Lily smette di ridere e si volta con la bocca spalancata per la sorpresa, poi apre le braccia e corre verso di me. “Mamma!”
La prendo al volo e la stringo forte al petto, facendo una mezza giravolta sul posto. Il profumo di latte che ancora emana la sua pelle mi inebria e non posso fare a meno di affondare il volto nei suoi capelli respirando il suo profumo con forza. “Ti sei divertita con Rosalie, stamattina?” chiedo, cercando gli occhi azzurri della piccola che mi guarda e annuisce con forza. “No via, mamma.” Mi stringe le sue manine intorno al collo con forza e non posso che ricambiare il suo abbraccio.
“Non vado da nessuna parte senza di te, amore” mormoro al suo orecchio, in modo che capisca bene le mie parole. “Tornerò sempre da te, qualsiasi cosa succeda” prometto e vengo ricompensata con un enorme sorriso felice di Lily.
“Grazie, Rose” mormoro, alzando finalmente lo sguardo dalla bambina; solo dopo averlo fatto, mi rendo conto di aver usato il nomignolo con cui tutta la famiglia la chiama ma che io non ho mai avuto il permesso di usare. Rosalie, però, non ne sembra risentita e mi sorride, rassicurandomi: “È stata bravissima. Non ha fatto i capricci nemmeno una volta. Stare con lei non mi pesa affatto.”
“Tu sei Isabella??” esclama l’uomo che rideva con Lily, quello che non avevo riconosciuto, ma ora che mi sovrasta con la sua altezza, mi ritrovo a fissare due occhi verdi che conosco bene.
“Voi due vi conoscete?” chiede Rosalie, sorpresa, guardando ora me, ora lui, alla ricerca di una spiegazione che nessuno di noi due sembra in grado di darle. Lily, tra le mie braccia, si stringe a me spaventata dal tono duro con cui quel suo nuovo amico tanto simpatico si è rivolto a me. La tranquillizzo, accarezzandole piano la schiena, e reprimendo un sospiro, mormoro: “Ciao, Edward.”



 
  
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