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Autore: Elfa    09/03/2014    5 recensioni
Gurthang non è un ragazzo come tutti gli altri. Probabilmente perchè in realtà è figlio di un Maia corrotto, o perchè si è risvegliato dopo secoli in una base militare nell'harad, quando avrebbe dovuto essere morto... quello che sa per certo, è che non vuole finire i suoi giorni a fare la cavia.
Intanto a Lasgalen Anarion, figlio di Legolas, è deciso a ritrovare la spada spezzata che uccise il suo fratellastro, quando 600 anni prima Sauron fu sconfitto, e che ora è stata rubata.
E in tutto ciò, i Valar sono ben decisi a non lasciare che gli equilibri della Terra di Mezzo vengano sconvolti di nuovo.
A qualsiasi costo.
-Sequel degli Eredi dell'ombra, cercherò di renderla comprensibile anche ai nuovi lettori-
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Legolas, Sauron
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Prologo

Quando Gurthang aprì gli occhi si trovò a fissare il cielo azzurro. Era steso sull'erba, sotto un albero di salice dalla chioma fluente, coi rami chini a sfiorare un fiume tranquillo, dalle acque scure e lente. Si tirò a sedere, guardandosi attorno, confuso: era in mezzo a una battaglia, fino a poco fa. Che era successo?

Sembri confuso...” Una voce accanto a lui lo fece sobbalzare e voltare, fissando gli occhi su un enorme gatto tigrato grigio, dai penetranti occhi gialli. Inclinò la testa di lato, fissando il ragazzo, in attesa.

Gurthang rise piano, nervoso, scuotendo il capo.

No... non puoi aver parlato tu...” Si disse, alzandosi in piedi ed avvicinandosi all'acqua, restando a vedere il suo riflesso. Persino in quell'acqua torbida l'immagine che gli veniva restituita era quella di un ragazzino pallido, dai lunghi capelli neri e occhi azzurri e profondi, un po' allungati verso l'alto, a forma di goccia. Labbra sottili, stranamente scarlatte completavano il disegno di un volto dai tratti delicati, sottili, ma privi di freddezza o severità.

Perchè no?” Il gatto agitò la coda, avvicinandosi circospetto al ragazzo e all'acqua, fissandone la superficie come se temesse qualche scherzo.

I gatti non parlano.” Rispose l'altro, meccanicamente, tornando a guardare i movimenti sinuosi del felino, mordendosi poi le labbra. “Almeno... da quanto so io.” Si corresse, messo davanti all'assurdità della situazione.

Il gatto sorrise. Letteralmente. Mettendo in mostra in dentini affilati.

Sembra tu sappia male.” Si limitò a constatare, tornando a sedersi. “Immagini perché sei qui?” Domandò, invece, ricevendo in risposta uno scuotere del capo da parte del ragazzo.

Non so nemmeno dove sia qui...”

Il dove non è importante.” Commentò, il felino, cominciando a leccarsi pigramente una zampa, lasciando per un po' in sospeso il giovane. “In realtà è un non luogo. O un crocevia tra molti luoghi.” Spiegò ad un Gurthang sempre più confuso, osservandolo intensamente. “Non sai dove andare perché vuoi tornare indietro. Non preoccuparti. Coi giovani succede un sacco di volte.” Commentò, stiracchiandosi.

Sì... giusto, io devo tornare indietro!” Esalò, allontanandosi dalla riva e percorrendo veloce quello spiazzo erboso... fino a ritrovarsi al punto di partenza, col gatto davanti a fissarlo, tranquillo. Sbattè le palpebre, senza capire, fissando il felino. “Devo tornare indietro! Devo portare a Legolas la spada che...” Si bloccò, esitò, una mano a scendere sul ventre, tastando il punto dove c'era la ferita. Nulla. Eppure ricordava il sangue, il dolore e... Tornò a guardare lo strano gatto, comprendendo. “Io..”

Quello tacque, annuendo semplicemente, senza aggiungere altro, mentre il ragazzo cadeva in ginocchio, sopraffatto dalla notizia. Gli lasciò qualche minuto, prima di parlare di nuovo.

Se tu avessi ancora un corpo da riempire sarebbe più facile, ma stando così le cose...” Ancora si alzò, avvicinandosi di più all'acqua, indicando un piccolo molo, a cui era assicurata una barchetta a remi.

Dovrei salire su quella?” Il ragazzo si alzò in piedi, dubbioso, percorrendo il piccolo molo e salendo con circospezione sulla piccola barchetta sottile. Non c'erano remi né timone ed era assicurata alla rive solo da una corda argentata. “Non si può governare...” Protestò, debolmente, ma il felino fece un altro dei suoi strani sorrisi.

Non preoccuparti... alla fine del viaggio sarai esattamente dove vorrai essere.” Lo rassicurò, lasciando che scorresse ancora qualche minuto di stasi, prima che finalmente il ragazzo si decidesse a slegare la cima e a lasciarsi trasportare dalla corrente lenta. Gurthang rimase seduto sulla barca, ad osservare la sponda che si allontanava, mentre la barchetta si posizionava proprio al centro del fiume e il salice col molo e il grosso gatto si rimpicciolivano sempre di più, lasciando il posto ad una pianura attraversata dal fiume, che si stendeva a perdita d'occhio. Si stese sul fondo della barca, chiedendosi se sarebbe stato un viaggio molto lungo.
 

Cap. 1: Il Gatto, La strega e il Lettino
 

 

Qualcosa in bocca gli impediva di chiudere le mascelle. Fu la prima cosa che notò, ancora prima di rendersi conto di essere immerso in una specie di bara trasparente, riempita di un qualche liquido viscoso. Provò a gridare, ma quella cosa gli impedì di fare anche quello. Si agitò, premendo i palmi sul vetro, accorgendosi di avere aghi con attaccati sottili tubicini infilati nelle braccia e nelle gambe. Oltre il vetro vide diverse persone agitarsi, tutt'intorno a lui, gridare ordini che non giungevano attraverso il vetro. Preso dal panico, il giovane premette coi palmi sul coperchio di quella specie di bara, facendo forza fino a sentirlo scricchiolare. Si frantumò con un fracasso di sottili vetri rotti, mentre il liquido scrosciava fuori dalla bara e lui si staccava quel tubo trasparente che gli avevano infilato in gola con un gesto rabbioso. No, non era esattamente nel posto dove avrebbe voluto essere.

Cercò di uscire da quell'involucro, scivolando sul liquido e trovandosi a terra, senza forze. Intorno a lui la gente urlava ordini e correva in giro. Qualcuno lo afferrò, senza che riuscisse a reagire e avvertì una puntura sul braccio, poi più niente.

*

Quando il telefono suona alle 4 del mattino, in genere, non è mai una buona notizia, e questo Elanor lo sapeva bene, ma queando aveva risposto, la notizia l'aveva lasciata per un attimo basita, una cosa che non succedeva spesso.

La dottoressa Elanor Winter era una donna più vicina ai 50 che ai 40, alta e magra, dagli zigomi sporgenti, i capelli ormai bianchi tinti di un biondo slavato e tenuti raccolti in una coda alta, gli occhi verdi incorniciati da occhiali dalla montatura sottile e allungata. Il rumore dei tacchi bassi  lungo il corridoio teneva il ritmo del suo passo, mentre si dirigeva verso la galleria del laboratorio, un anello dai vetri a specchio che avvolgeva la sala circostante, come la galleria di una sala operatoria.

Si avvicinò ad un uomo e una donna, anche loro in piedi davanti alla vetrata. "Che è successo?" Iniziò, senza preamboli, osservando il ragazzo nella capsula aperta, sotto di lei.

"Non lo sappiamo." Quella risposta fece lanciare alla dottoressa un'occhiataccia in direzione della donna, che si affrettò ad aggiungere "I parametri sono saltati all'improvviso. Prima era tutto normale, e poi..." Lo sguardo di lei si spostò a sua volta sul ragazzo. "E poi si è svegliato. E ha fracassato una delle unità." Di nuovo deglutì, nervosa, nello spiegare all'altra quanto era successo. "Ha in corpo abbastanza sedativi da stendere un olifante, ma ha... parlato." Spiegò, fissando l'altra. "Pare cosciente di sè... dai nostri dati questo non sarebbe dovuto succedere e..."

Elanor alzò una mano, a interromperla, le labbra assottigliate in una smorfia interdetta: quella cavia non aveva ricevuto stimoli di nessun genere, non avrebbe dovuto nemmeno sapere di essere al mondo... figuriamoci parlare. Anzi... figuriamoci anche solo pensare.

"Scendo." Decise, alla fine. "Voglio parlare con lui."

*

Gurthang era confuso, sonnolento, disteso su una specie di lettino, con addosso quella che sembrava solo una camiciola leggera, aperta sul retro. respirava piano, cercando di riordinare pensieri sfocati, ricordi ancora avvolti nella nebbia.

"Parli l'ovestron?" Una voce femminile lo riscosse dai suoi pensieri, facendogli voltare il capo. cercò di mettere a fuoco la figura in piedi accanto a lui. Deglutì, ancora confuso dall'anestetico, annuendo.

"Dove sono...?" Chiese, con voce impastata, tenendo gli occhi aperti a fatica.

"Nell'Harad." Rispose quella, spingendo una sedia vicino a lui. Il ragazzo ne approfittò per osservarla meglio. Era una donna di mezza età, un'umana dai capelli chiari, di un biondo che ormai virava sul bianco, gli occhi incorniciati da una sottilissima mascherina di vetro e metallo che non le nascondeva il viso ed indossava una corta tunica bianca che le lasciava scoperte le gambe. "Sei in una base militare gondoriana." Continuò, la donna, spiegandosi meglio. "Quale è il tuo nome?" Chiese a sua volta la donna, accavallando le gambe.

"Harad..." Ripetè il ragazzo, ora chiudendo gli occhi, confuso. "Perchè... sono qui?" Chiese ancora, senza rispondere, lasciandosi poi andare ad un sospiro. "Mi chiamo Gurthang." Di nuovo tornò a guardare l'umana. "Dovrei... essere a Lasgalen... a nord..."

La donna tacque, fissandolo, seria, quasi livida: quella breve conversazione aveva appena tirato uno schiaffo alla logica della donna, che ora si ritrovava seduta in un laboratorio bio-genetico a parlare con quello che avrebbe dovuto essere un clone imbelle, e che invece parlava e si comportava come un personaggio storico defunto da ormai più di mezzo millennio. "Per la guerra, immagino..." Mormorò quella, assorta, mordendosi il labbro inferiore. Si alzò, la donna, senza aggiungere altro, muovendo alcuni passi per la stanza, nervosa. "Gurthang... ascolta." Cominciò, senza avvicinarsi, ma tornando a guardarlo. "La guerra è finita. E' finita sei secoli fa, in realtà. E avete vinto."

Questa volta fu il turno di Gurthang di impallidire.  

"Sei... sei..." Tacque, sentendosi mancare il respiro, come se fosse stato colpito da un maglio. Deglutì, realizzando d'un colpo la perdita di tante persone che aveva conosciuto... Himrak, Tìra, il nano Gimli... Sentì le lacrime pungergli i lati degli occhi e chiuse le palpebre, cercando di non scoppiare a piangere, la testa che pulsava tanto da fargli male.  

Di nuovo mandò giù saliva, cercando di ricomporsi e di mettersi a sedere, ma vuoi per la droga, vuoi per i muscoli atrofizzati, i suoi tentativi si rivelarono infruttuosi e ricrollò di nuovo giù disteso, con la donna che gli scoccò uno sguardo di disapprovazione. "Che è successo ad Anarion? E' mio fratello. E' il principe." Chiese, voltando il capo ad osservare i movimenti di lei. Pareva nervosa e il suo atteggiamento gli gettò addosso una sensazione di gelo alla bocca dello stomaco.

"Devi stare calmo." Preannunciò l'altra, tornando verso di lui, reggendo una specie di cilindro di vetro, pieno di un liquido trasparente, che non lo tranquillizzò affatto. "Ascolta... poco dopo quella battaglia  gli elfi se ne andarono... ad ovest..." Spiegò, in un sussurro, lasciando aleggiare la frase, mentre tornava ad avvicinarsi all'altro, ancora disteso.

L'ennesimo colpo si abbattè sul ragazzo, che di nuovo si ritrovò spiazzato, senza fiato, a fare i conti con la disperazione più nera, la solitudine più profonda. Avvertì distintamente il respiro spezzarsi e il gelo invadergli il corpo, mentre il cuore accellerava i battiti. Respirò convulsamente, mentre l'altra gli infilava un ago nel braccio senza che lui quasi se ne accorgesse, agitato, indifferente ora all'anestetico, sentendo qualcosa premergli dentro, togliendogli il respiro. Ci fu un rumore di vetri infranti, esplosioni e sfrigolii, mentre le apparecchiature andavano in pezzi e i vetri si frantumavano, compresa la siringa nella mano della dottoressa. La donna urlò, e anche Gurthang si sentì urlare, mentre il sangue gli martellava nelle tempie e il cuore pareva scoppiargli in petto, un fuoco ardente dentro. Chiuse gli occhi, ancora urlando, sapendo già che quella cosa veniva da dentro di lui, ma senza poter controllare nè potere nè dolore, semplicemente piegato, senza fiato, senza poter pensare, fino a che quella forza non consumò ogni sua energia, in una brevissima apocalisse di pochi secondi, che lo lasciò di nuovo esausto, supino in quella capsula senza copertura, perdendo conoscenza.

 

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