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Autore: Rorosysy    13/03/2014    1 recensioni
"Era i miei stessi occhi. Ciò che lui vedeva, lo vedevo anch’io. Il giorno in cui la sua vista si fosse oscurata, anche la mia si sarebbe smarrita.
Lo sapevo da sempre. Era stato così sin dal principio. Non avrei dovuto sorprendermi. Suonava ridicolo rendersene ora conto. Ormai era tardi, non era più una mia scelta.
Adesso, non era più DAVVERO una mia scelta.
I suoi occhi blu erano svaniti e al suo posto mi fissavano due pupille nere, nerissime, scure come la brace.
Ero bloccata al posto di guida dell’auto di mia sorella, una Seat Ibiza rosso acceso e ignoravo come ci fossi finita.
Era una gelida sera d’inverno. Per la precisione, era il 12 dicembre 2011 e il sole mi aveva abbandonato già da più di un’ora, qui in alto al mondo, tra la Valle dell’Inferno e la Sorgente delle Donne.
Nella mia mente c’era soltanto il desiderio disperato di fingere di non capire, che con i suoi modi calmi e il sorriso attraente, fosse deciso a darmi ciò che avevo accanitamente cercato negli ultimi tre anni: la mia morte", dal primo capitolo.
Genere: Drammatico, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Mamma parlava con uno strano signore con il cappello marrone smunto e il vestito dello stesso identico squallido colore. C’era anche una donna sui trent’anni dai capelli lunghissimi e neri, le arrivavano sino al sedere. Mi sarebbe piaciuto portarli come lei, ma sapevo che avrei finito per odiarli. La pazienza non appariva fra i miei pregi e per asciugarli con il phon, almeno due volte la settimana, supposi che dovesse occorrerne parecchia. Quella signora doveva essere una donna determinata o quantomeno meticolosa.
Mamma era seria mentre conversava con i due ospiti in salotto. Io ero in cucina, raggomitolata come sempre sulla sedia, con zia Laura accanto, seduta composta su di un’altra sedia. Questa volta non si era portata dietro Simona. Non mi prestava neppure più il riguardo della volta precedente, ma uno alquanto differente, che lo rendeva peggiore. Mi sorrideva in continuazione e avevo la netta sensazione che cercasse di assecondarmi in tutto, come se temesse le mie reazioni. Ero pentita, non sapevo di cosa, ma il mio stato d’animo era quello. Pentita di qualunque cosa fosse successa il giorno prima e che io non comprendevo. Pentita di non ricordare. Pentita di aver spaventato Simona in chissà quale maniera. Pentita d’essermelo lasciato sfuggire via di nuovo…
Mamma entrò in cucina seguita dai due sconosciuti. Si accostò al mio orecchio e, stringendomi forte la mano tra le sue, sussurrò: «Questi due cortesi signori vorrebbero chiacchierare un po’ con te. Saresti tanto gentile d’accontentarli?».
Anche se a malincuore, acconsentii.
I due sconosciuti si trascinarono con le sedie di fronte a me. La vicinanza m’infastidiva. Tentai con una certa fatica di non darlo a vedere. Parlarono in modo pacato, ma deciso, tuttavia sentivo di non riuscire a comprenderli fino in fondo. Dove volevano arrivare? Sembrava girassero intorno al vero motivo delle domande che mi rivolgevano. Erano così insensate, discordanti tra loro e talmente noiose, da faticare dal non deconcentrarmene. Come se non bastasse, il mio istinto li avvertiva come una minaccia. Non che avessero fatto qualcosa per cui considerarli tali. Forse l’unica domanda che dovevo pormi era la seguente: chi sono? Ma non m’importava davvero saperlo, perciò non chiesi.
La donna mi mostrò un disegno che tutto pareva fuorché un capolavoro d’arte. Pretendeva la mia opinione al riguardo. Era una macchia, niente di più! Insistette. Voleva proprio sapere cosa rappresentasse per me quello scarabocchio. Nulla? Come risposta non le bastava.
Incrociai lo sguardo di mamma. Era in piedi accanto a zia. Sembrava attendersi molto da quel colloquio. C’era qualcosa nella sua espressione che somigliava alla speranza. Chissà, ma sicuramente ciò significava che non potevo confidare nella sua complicità. Abbassai lo sguardo su zia Laura che mi sorrise timidamente. Era un sorriso forzato, distaccato. Sospirai e mi convinsi a ricavare qualcosa di più da quella stupida macchia colorata.
«Mm… mi sembra… somiglia…», mormorai nella ricerca di un’adeguata risposta che li accontentasse, nella speranza che dopo mi lasciassero in pace, e mentre mi sforzavo di trovare un senso alla macchia, d’un tratto mi apparve evidente. A bassa voce e lentamente, come se affermarsi qualcosa di ovvio, ma spaventoso, dissi: «Due cerchi… Non simmetrici come delle sfere di cristallo anche se affascinanti, ma come delle pietre preziose… Come due occhi», come i suoi occhi blu, aggiunsi mentalmente. Ecco, dov’erano finiti!
Il tizio col cappello annotò la mia risposta su un block notes. Non era la prima volta. Aveva ripetuto l’azione per l’intera durata della conversazione, solo con ciò che dicevo io, ma anche in questo caso non domandai nulla.
Per la precisione, mi mostrarono una serie di dieci tavolette che riproducevano macchie d’inchiostro, in una sequenza ordinaria e veloce; e tutte, in una maniera o in un’altra, finivano per somigliare ai suoi occhi blu. Si voltarono a osservarsi con un’espressione indecifrabile, ma che fra loro pareva essere perfettamente chiara. Davano la falsa impressione di riuscire a comunicare telepaticamente e per un attimo l’idea mi affascinò come verità.
Mamma intanto poggiava il suo peso da una gamba all’altra, visibilmente tesa, ma ignoravo anche quest’altra ragione. Che cosa rappresentava realmente l’incontro? I due sconosciuti si rivolsero un cenno col mento, poi si alzarono. Improvvisamente avevano fretta di andar via. Prima di congedarsi definitivamente, si soffermarono sul ciglio della porta a discutere ancora con mamma.
Zia Laura era tornata a sedermi accanto, ma c’era una sostanziale differenza in quell’azione: era penosamente silenziosa. Non mi rivolse né la parola né uno sguardo, che al contrario non smetteva di ruotare per la stanza. Non esisteva neppure più l’accenno del suo sorriso, né di quello familiare né di quello distaccato. Sapevo che avrebbe dovuto dispiacermi, almeno un po’, ma non sentivo nulla. Era come guardare distrattamente la scena di un film muto. I sottotoli mi avvertivano di quel che accadeva, ma io non sentivo cosa si dicessero i protagonisti.
Mamma tornò.
«Ti prometto che presto tornerai a stare meglio, tesoro mio!», annunciò stampandomi un bacio sulla fronte.
Meglio da cosa? Stavo forse male?
Mamma aveva gli occhi lucidi.
 
Papà era sempre affabile e disponibile con me.
Mi divertivo in sua compagnia. Era un tipo solare e riusciva sempre a trasmetterla anche a me, a rendermi briosa un po’ come lui. Mamma non c’era. Non c’era mai quando c’era papà. La sua considerazione su di lui si diversificava parecchio dalla mia. Ricordavo un litigio, in cui mamma gli rimproverava d’essere un immaturo, perché fuggiva dai problemi. Lo accusò anche (e questo mi fece salire il sangue alla bocca) di non voler stare con me. Come aveva potuto sostenere una cosa del genere? Sì, certo, quando si è arrabbiati si dicono tante di quelle cose che non si pensano veramente, ciò nonostante non riuscivo a tollerarla come una buona giustificazione.
Lui lavorava, a differenza sua! Non lo si poteva accusare di questo e poi io lo sentivo quando mi stava accanto! Sentivo il bene che mi voleva. Era poco il tempo che trascorreva con me, era vero, tuttavia era palese la sua gioia nel rivedermi. Il suo viso era un libro aperto. Era incapace di mentire. Il suo esternare istintivamente contentezza, al contrario, spesso mi aveva messo a disagio. Io ero diversa da lui. Con mio grande dispiacere, mi rendevo conto di somigliare a mamma.
Il sole oggi non si rifletteva sul lampadario di vetro. Il cielo era nuvoloso, grigio e tetro, rispecchiava il mio cuore. Guardavamo la TV. Ronaldo Zei, mio padre, chiacchierava animatamente e, come al solito, sprizzava energia, tuttavia, io non ne beneficiavo, non questa volta. Non che fossi triste di stare lì con lui, ma non ero neppure felice. Ero semplicemente neutra, come quelle particelle atomiche che non sono né positive né negative.
D’un tratto, mi venne sete. La gola era asciutta e mi prudeva. Avrei voluto chiedere dell’acqua, ma la mia voce incespicava tra le corde vocali, che non vibravano. Erano come paralizzate. Avrei voluto alzarmi, così da prenderla da me, ma le gambe restavano ferme, come se non facessero più parte del mio corpo. Erano pigre. Menefreghiste della mia sete. Non riuscivo a far niente. Succedeva di nuovo. Rimanevo inerme ad aspettare che le cose accadessero da sé, ma aspettavo davvero qualcosa? A parte lui, ovviamente.
Ero come una moribonda. Una sottospecie di zombi, cui non era stato necessario tagliarli la testa, o conficcargli un pugnale nel cuore, o strangolarlo, per farlo morire. Ero uno zombi anche se il mio cuore batteva ancora, da qualche parte in mezzo al mio corpo freddo, se pur lentamente, se pur monotonamente, se pure in solitudine, se pur timido e cauto, come se dovesse tenere nascosta la propria pulsazione; per non disturbare nessuno, per non ricordare a nessuno che battesse ancora, per poter continuare il suo metodico lavoro.
Tum- tum. Tum-tum. Tum-tum.
Levai la mano dal petto, per riprendere a non sentirlo. Chiusi gli occhi per ritornare nell’oblio. Quando gli riaprii, fu per una risata sganasciante che proveniva dalla televisione. Gli sbattei più volte, come per capacitarmi di dove fossi, o meglio, di come ci fossi arrivata nel divano in salotto. Non stavo sulla sedia in cucina? Avevo abbassato la testa sul tavolo e poi? E poi il vuoto. Ma era normale, accumulavo non-ricordi nei miei giorni.
La mia testa era poggiata sulle gambe di papà, probabilmente era stato lui a portarmi di qua. Mi sentivo intorpidita. Guardai l’ora in un orologio ovale appeso sulla parete. Segnava le sei del pomeriggio. Erano le tre prima, questo lo rammentavo. Mi ero addormentata?
Ronaldo mi sussurrò il “ben svegliata”. Mi accarezzò i capelli. Una parte lontana di me, insisteva col sostenere che si trattasse di un gesto carino, affettuoso, ma io lo strattonai via aggressivamente. Saltai giù dal divano e incominciai a urlare. Cercò di calmarmi, ma io strillavo come un’invasata. Cercò di abbracciarmi e mi agitai di più. Non volevo che mi toccasse.
Cominciai a tirargli pedate e schiaffi per allontanarlo. Mi rannicchiai per terra. Presi a dondolarmi spingendo con le punta dei piedi e la testa schiacciata in mezzo alle ginocchia. Mi s’inginocchiò di fronte. Riprovò a sfiorarmi e lanciai un urlo. Ripresi a ondeggiare. Scoppiai a piangere, anche se pensavo di aver ormai esaurito tutte le mie lacrime,  e in effetti, erano lacrime inebetite. Non conoscevano la ragione della loro affluenza sulle mie pallide guance, ma smisero presto di domandarselo. Questi piccoli goccioloni salati riuscirono ad annegare ogni mio interrogativo.
Tornai a non sentirlo più battere, a sentire il nulla, tornai nell’oblio.
 
A volte le reazioni sono difficili da spiegare.
C’è tutto un mondo misterioso e contradditorio per noi che viviamo sulla superficie del luogo in cui nascono le emozioni. Noi le subiamo e basta. Noi le diamo voce muovendoci, strillando, calciando, sussurrando, ridendo o piangendo, ma non le governiamo e spesso non le capiamo. A volte le amiamo, altre le odiamo. Tuttavia, la possibilità di perderle ci terrorizza sempre e comunque. Perché le emozioni sono legate alla vita, come se fossero un loro sinonimo. Se non senti niente, dentro di te (non parlo del corpo, ma dell’anima che lo contiene) allora ti assale il terrore di rassomigliare a un morto. Ti chiedi cosa ti differenzi da lui? Nulla, ti rispondi, sei come un morto che cammina, che intralcia gli altri viventi, come uno zombi che si ritrova a esserlo per sbaglio. Ecco, io ero divenuta un ostacolo inutile da scavalcare! Uno sbaglio. Prima ero la principessa Felicità accanto a un incantevole angelo, ora ero uno zombi difettoso e avevo fatto scappare papà, proprio come avevo fatto portar via in fretta da me Simona.
L’oblio delle pillole di mamma era durato soltanto qualche ora e il ritorno era sempre peggiore, tanto da desiderare di non tornare più. Fortuna che c’erano loro, a ricordarmi che dovevo, per che cosa valesse sopportare anche il peggiore dei mali. Erano sopra il centrotavola di frutta, proprio accanto ai mandarini che a lui piacevano tanto. Mi guardavano e sembravano volessero rassicurarmi. Gli sorrisi. Per fortuna c’erano loro. Realtà o illusione che fossero, ero contenta di avere questa fortuna. Di averli con me. Ancora con me. Adagiai la testa sul tavolo e guardandoli di obliquo, gli sorrisi di nuovo.
Lei spazzava per terra, spolverava tra gli arnesi della cucina, sopra e sotto il tavolo, tra gli angoli più nascosti delle credenze, in alto al tavolinetto a rotelle per bottiglie di vino e spumante, ma non ne conteneva nessuna.
Mi passò davanti due o tre volte. Si muoveva velocemente. Mamma era sempre affaccendata. Non stava ferma un secondo. Si manteneva perennemente occupata. Forse gli piaceva darsi da fare, lavorare… Corrucciai la fronte. A chi piace realmente lavorare? Piacciono i soldi, ma il tragitto per guadagnarli? E quanto è piacevole essere consapevoli che sia indispensabile, faticare, lavorare per sopravvivere?
Si accostò alla sedia da cui, una volta tanto, lasciavo penzolarvi le gambe, anziché piegarle contro il petto.
«Alza i piedi, se vuoi sposarti in futuro!», esclamò in un ordine scherzoso.
Li sollevai senza dar molto peso a quella credenza popolare, secondo la quale se ti vengono spazzati i piedi non ti sposi, e che conoscevo a memoria; già nonna, quand’ero bambina, era solita ripetermela. Cominciavo a crederci. Per provocazione, in passato, mi ero passata da sola la scopa sui piedi e guarda com’era finita: Gabriele era andato via. No, c’era ancora speranza. Forse, quando tornerà, me lo domanderà…  
Continuai a osservarla in silenzio. Forse mi sbagliavo, perché sembrava più che altro frustrata. Cosa l’affliggeva? Sembrava una donna provata dalla vita, più vecchia di quel che fosse in realtà. Forse si teneva occupata per distrarsi, per non crogiolarsi con le proprie preoccupazioni. Forse avrei dovuto prendere esempio da lei.
Chissà se anch’io avevo la sua stessa espressione depauperata. Non lo sapevo, perché non incontravo il mio volto da tantissimo di tempo, tanto d’aver smesso di contarlo. Magari un giorno di questi lo avrei fatto. Lo cercai nella mia memoria, ma trovai altra nebbia. Si poteva dimenticare il proprio volto?


Qui si scopre qualche altro personaggio, attraverso la prospettiva della protagonista... Forse una prospettiva non troppo "perfetta"... Nel prossimo capitoletto uscirà finalmente da casa, promesso! :D 
  
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