Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: aniasolary    14/03/2014    3 recensioni
(Storia da revisionare)
Young Adult con elementi sovrannaturali e di Mistero.
In un pomeriggio assolato, le urla di una bambina oscurano il cielo; lei è un'arma, lei non potrà mai vivere, lei non può fare altro che nascondersi.
Anni dopo, un ragazzo trova la sua fotografia fra i documenti di suo padre. Un padre assente, troppo lontano da tutto e da tutti, così preso dai documenti fra cui c'è quella fotografia.
Sei appena venuto a conoscenza della presenza di un burrone. Vai a vederlo. Non ti aspetti che ci cadrai dentro.
Quella ragazza.
Quell'arma.
Quel ragazzo.
Il suo mondo.
Sogni spezzati.
L'amore difficile.
Vite in sospeso.
Amicizie distanti.
Vite rimaste indietro.
Vite in pericolo.
Buio.
Speranza.
Ed un uomo nell'ombra.
Genere: Mistero, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
until 28

g

Illustrazione di presa da Google.

Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.

Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.

26. 

Ritorni

La porta si apre silenziosa, il cigolio esiste solo nella mia mente; è il rumore del legno che si contorce, una superficie che sta per spezzarsi e che mi farà cadere nel vuoto. Forse sto già cadendo ed è colpa mia. Chi crede in Dio pensa che lui sia sempre con noi, fuori di noi, dentro di noi. Chi crede in Dio pensa che lui guidi le nostre azioni verso il bene, il vero, la giustizia, contro il male. Ed il male è esattamente come Dio e, questa volta, ha preso il suo posto. Ha ucciso i miei genitori, ha ucciso il padre di Martin, ha ucciso la moglie di Joseph. Ha spogliato Yvonne dell’infanzia, ha spazzato via la gioia di Hans, ha fatto vivere Martin in una vita che non esisteva. Mi ha dato come speranza la solitudine.

«Sarah, perché tremi? »

«Non lo so, Martin, non lo so.»

Mi abbraccia. Io mi aggrappo alle sue spalle con gli occhi chiusi a sfregarsi contro la sua maglietta e non voglio piangere. Ho freddo e sto tremando e vorrei che ci fosse giustizia vera. Vorrei che i miei genitori non fossero mai morti. Vorrei che Julia non mi avesse mai odiata, vorrei che Martin avesse sempre vissuto la vita che doveva avere, vorrei che Yvonne fosse cresciuta con felicità, vorrei che Hans non fosse mai stato lasciato solo, vorrei che i miei genitori non fossero mai morti. E vorrei che Joe non avesse perso la sua famiglia, vorrei che nessuno prima di lui si fosse avvicinato alle tenebre… vorrei, vorrei, vorrei, ma non posso avere niente di tutto questo. Ci sono io, che non sono più sola. Yvonne, con un padre in prigione. Hans, che è rimasto ferito e Julia, che si è messa a rischio.

«Io non so niente sulla giustizia.»

«Lo sai, invece.» Non farmi cadere, non farmi cadere. Il legno cigola, il legno si piega, non resisterà. Mi stringo a lui. Litiga con la mia testa fissa sul suo petto, io come una bambina capricciosa che non vuole guardare in alto per paura di un rimprovero. Ma mio padre è morto, non posso essere piccola. Ho diciassette anni e non sono mai stata una bambina.

Martin mi respira, una sua mano sotto il mento, l’altra fra i miei capelli ad accarezzarmi la nuca. Tremo, tremo e lui mi sfiora le labbra con le sue.

La sua presa è delicata eppure so, sento, che anche se la superfice sotto di me cedesse, la forza di gravità non sarebbe abbastanza forte per farmi allontanare dalle sue braccia. «Sar, hai soffocato l'odio per quell'uomo che io continuo ad odiare, cercando di aiutare Yvonne anche se era ovvio che sarebbe stato inutile ed anche se nessuno ti obbligava a farlo. Hai visto il mostro dentro di lui... spero, un giorno, di riuscire a fare quello che hai fatto tu.»

Poggio le mani sulle sue spalle, fronte contro fronte, respiro contro respiro, i suoi capelli biondi che mi sfiorano le guance. C’è fiducia, nei suoi occhi, e speranza, e un calore immenso si propaga dentro di me perché so che non mente. 

«Joshua ha deciso di tornare. Yvonne ti ha chiesto di parlare, tu l’hai fatto. Non è bastato, ma l’hai fatto. E Joshua ha pagato... di tutti quelli rimasti, la colpa più grande era sua, anche se partita da qualcosa di più grande di tutti noi. Quello che sai fare, Sarah, quello che c’è nel tuo cuore...» La mano che mi tiene il mento scende sul collo, poi ancora più giù. «Non lascerò che ti metta in pericolo. Mio pad... volevo dire Jospeh, sì, mi ha detto che i manoscritti del circolo del nonno di tua madre sono stati bruciati, tutto quello che farò e faranno, d’ora in poi, sarà per metterti al sicuro. Io farò qualunque cosa per tenerti al sicuro, Sar.»

Al sicuro. Tremo nel mio sorriso. Al sicuro.

«… Anche se non dubito,» aggiunge. «Che in caso di pericolo, sarai tu a salvare me.»


Hans

È un po’ strano, essere di nuovo qui. Come se la pallottola mi avesse iniettato la vita e non la morte. Come se, quando ho aperto gli occhi, avessi deciso di non perdermi più niente. Sarah è venuta a vedere come stavo, ed io mi sono sentito improvvisamente congelato: c'era freddo ovunque dove prima, invece, c'era un sogno. La polvere dei sogni spezzati non se ne va mai davvero, ma poi ci sono dei sogni che devono ancora nascere, che devono ancora crescere, che potranno vivere.

Sfioro le corde della chitarra con delicatezza, poi più forte, di nuovo più piano; mi gusto la sensazione di sentire la consistenza liscia e rigida di questi fili che fanno musica.


Eppure qualcosa manca. Qualcosa manca e non è possibile, non è possibile perché sto suonando la mia chitarra ed è quando lo faccio che i pezzi si incastrano e tutto va bene, anche solo per un minuto, anche solo per un istante, il tempo di una canzone. Non riesco a stare fermo, muovere solo le mani non mi basta, devo… devo uscire, fare una passeggiata, prendere aria.

Apro la porta, la chiudo alle mie spalle e mi inoltro nel corridoio. Le finestre sono chiuse perché è notte, e l’aria fredda gela le anime, e qui ce ne sono tante che hanno bisogno solo di una coperta sulle spalle, qualcuno con cui parlare, chiudere gli occhi a sapere che domani qualcuno ti augurerà una buona giornata, anche se buona non lo sarà per niente. Perché siamo tutti sogni infranti, bambini non voluti, figli che non dovevano arrivare, fonte di delusione per ogni passo e respiro.

Mi cade di nuovo tutto addosso, come se fosse la prima notte che passo in questo istituto. Posso ancora essere il bambino di quattro anni che ha cambiato casa troppe volte. Un mare di schegge di paura cade sul mio corpo pallido come allora, anche se sto diventando uomo.

Qualcosa manca. Sospiro. Qualcosa.

Un gemito.

Volto la testa.

Qualcuno.

Sembra un miagolio, all’inizio. Un gatto che ha troppa fame e non resiste più e guarda verso l’alto, dove le finestre sono aperte e qualcuno lo sta guardando. 

Il suono mi porta a fermarmi davanti alla porta del bagno delle ragazze. Sento una morsa imprigionarmi lo stomaco.

Mi manca qualcosa.

Apro la porta.

Qualcuno.

E allora sento il mare delle schegge del dolore che mi tranciano la pelle. Una carezza di vetro, il riflesso di una lama affilata che sembra un sorriso e poi, senza lasciarmi il tempo di esalare un ultimo respiro, affonda nella carne. E rimane in gola, quest’ultimo respiro. Mi resta il rimpianto, sopravissuto a tutto e a tutti e alla morte e alla vita per tutto questo tempo, di quest’ultimo, maledetto respiro. Perché lei è qui. 

Lei è qui e se ne sta rannicchiata in un angolo e piange, piange ed è come il miagolio di un gatto ed io non posso guardarla, non posso guardarla così…

«Yvonne.»

So come sono andate le cose.

Alza gli occhi. Lucidi, rossi di sangue, grandi e dolorosi. Mi tengo in equilibrio sui talloni e la prendo per la spalle, la scuoto, guardami, lei con gli occhi lucidi, grandi, rossi, «Guardami, Yvonne.»

La finestra è aperta, il marmo del pavimento è freddo contro la pelle e lei guarda in alto, nel buio, illuminata solo dalla fioca luce dei lampioni che riesce a raggiungerla dall'esterno. E guarda in alto, batte i denti come se fosse in strada senza giacca in inverno, e piange con quel suono che mi fa sciogliere le viscere. Miagola, Yvonne, e guarda in alto; qualcuno mi guarderà, dicono i suoi occhi. Ma tutti sanno che cosa fanno le persone quando vedono un gatto che miagola fuori dalla finestra: gli buttano del cibo se sono generosi e poi tornano dentro. «Guardami, Yvonne, guardami. Guardami, Yvonne… Vonnie…»

Guardami.

Sospira. Sembra che stia facendo uscire tutta l’aria che ha nei polmoni. 

E poi ho i suoi occhi. 

I suoi occhi nocciola, ora arrossati, umidi di lacrime. Sono miei, e mi guardano. E non ti chiederò che cos’hai, non ti chiederò quello che ti strazia, non ti salverò, Vonnie, perché non so come si salvano le persone. Ma sono qui e non me ne andrò mai. Fino a quando ci sarai tu io sarò qui ed io ti guarderò. Non chiuderò la finestra, non ti lascerò fuori. Le accarezzo il viso con il palmo delle dita. Ti stringerò forte fino a quando non mi chiederai di smettere perché non riesci più a respirare, ed io sarò felice, perché in quel momento saprò che vuoi vivere. 

La abbraccio.

È uno scontro docile. Due corpi che si incontrano, si sfiorano, e poi restano vicini. Sono troppo rumorosi, questi respiri. È troppo rumoroso il suo affanno, anche se non piange più, e il mio respiro, il mio respiro sulla sua pelle che profuma di margherite, fumo, zucchero a velo.

Margherite, fumo, zucchero a velo. La sua testa contro il mio petto, lei rannicchiata tra le mie braccia, gli scossoni di un pianto senza lacrime che la fanno respirare affannata. Me la porto via in braccio, perché stanotte sono solo io quello cresciuto; Yvonne è ancora una bambina, è ancora piccola, ed è leggera e bellissima. Ha di nuovo i capelli castani dai riflessi color rame, come sua madre Cassidy Grace.

Sento ancora l’eco dei miei passi nel corridoio,  quando apro la porta della sua stanza e, piano, la adagio sul letto già in disordine. Stringe le gambe e, voltandosi, si abbraccia le ginocchia. 

Le accarezzo i capelli, la copro con la coperta, le sfioro la fronte con il naso.

«Hans.» Il mio nome viene fuori dalle sua labbra immobili. Forse sto sognando, forse mi sono addormentato accanto a lei e quando si sveglierà si arrabbierà, mi caccerà.

Ma poi apre gli occhi con quello che all’inizio sembra uno sbadiglio, un suono involontario per una fitta di dolore, la sua lingua che finisce sul palato e poi scivola contro i denti.

«Hans.»

È la prima cosa che mi dice e va bene così.

Continua a tremare e torno ad abbracciarla, corpo contro corpo, anche se c’è la coperta a separarci.

Un singhiozzo mi spinge leggermente via.

«Ora te ne vai?» mi chiede.

Le sfioro il collo con le labbra.

«Vuoi che me ne vada?»

«Rispondi e basta, idiota.»

Non rido, non rido perché non sta bene e sono davvero stupido a farle una domanda del genere. Allora mi sfugge un gemito stanco, una scusa intrappolata in gola, il desiderio di dire sempre la cosa giusta.

«Non me ne vado.»

Mi metto seduto e poi scivolo sul pavimento. Mi chino a togliermi le scarpe, le mani mi tremano e i lacci sembrano essere attorcigliati in dei nodi da marinaio, come se, legandoli, avessi voluto salvarmi da un’onda anomala. O forse dal canto di una sirena, una sirena che mi ucciderà. Ma sono abbastanza forte per liberarmene, mandare al diavolo quelle scarpe, fare un respiro profondo e guardare davanti a me. Yvonne ha sollevato la coperta e si è rannicchiata nell’angolo, i capelli lisci sparsi sul cuscino.

«È buio, mi vedi?» chiede.

Mi stendo accanto a lei, mi copro con la coperta e mi volto; mi si avvicina e posa la testa sul mio petto, è un gesto meccanico ma non c’è niente di arido in questo. È come quando il cuore batte e non puoi fermarlo, non puoi fermarlo se vuoi restare in vita.

La avvolgo con le mie braccia.

Ti vedo anche al buio, Vonnie. 

Anche al buio.

Martin

La campanella dell’ultima ora trilla; è il momento in cui tutti alzano gli occhi dai fogli, dal banco, smettono di guardare il professore che spiega e, con un respiro, si alzano dalla sedia per correre a casa.

A casa.

Sono l’ultimo, ad alzarmi, ed è strano, perché Martin Scott una volta aveva il piede pronto a scattare un secondo prima che la campanella suonasse. È come se il mondo corresse alla velocità della luce mentre io riesco a muovere i muscoli solo a rallentatore. Sono ancora stordito.

È tutto così strano, mentre cammino per il corridoio e qualcuno ride, e qualcuno grida, e qualcuno bacia una ragazza e chissà se la ama, e quel ragazzo del terzo anno si volta verso di me e distoglie lo sguardo quando si accorge che anch’io lo sto guardando. Lo sanno tutti, ormai. E pensano di poter pensare con la mia testa, di poter immaginare com’è adesso la mia vita. Pensano di sapere come mi sento, e provano pena per me.

Ma non sanno…

«Ehi.»

Non sanno che va tutto bene.

La voce di Cameron è familiare, un po’ roca, come se avesse il raffreddore. È che io sono caduto e lui mi ha seguito, come sempre da quando è nella mia vita, e quando sono riuscito ad alzarmi, io ho aiutato lui. Julia sanguinava fra le sue braccia, mentre lui premeva la stoffa della sua camicia sulla ferita alla testa di lei. Il nome di Julia mi è rimbombato in testa anche quando se la sono portata via; Cameron, con le mani ancora sporche di sangue, si è toccato la testa a pronunciare il suo nome senza sosta ed ho capito. Ho capito me stesso guardando lui. Ho capito che cosa mi è successo con Sarah: quegli strani ingranaggi della mente che scricchiolano fino a farti sentire il cambiamento senza dolore. Sei solo incredulo. E Cameron era troppo disperato per accorgersene. «Mat, e smettila con quest’aurea riflessiva. Non ti dona.»

«Tu dici?»

«Non è da te.»

«Oggi rivincita alla play? La rimandiamo da secoli.»

«Questo è il mio migliore amico.»

Gli do una gomitata, lui ride ed è come se un anno intero si dissolvesse sotto i miei occhi; il tempo si restringe, i giorni tornano indietro; la primavera non è mai iniziata ed è di nuovo inverno, torna l’autunno. Nel cortile che attraversiamo cadono ancora le foglie, sta per piovere e non ho l’ombrello, il pullman è già partito perché è tardi ma sorrido, perché va tutto bene.

Perché non è più autunno e in quest’inverno freddo ho conosciuto la ragazza che amo. Lei con i capelli lunghi, il sorriso raro, gli occhi che splendono, le parole incastrate in gola, le sue paure con le mie. E il tempo è passato e adesso, dopo tanto tempo, so chi era mio padre e so chi lo è stato.

Dopo tanto tempo, so chi sono io.

 

Salgo le scale, il telefono vibra; Cameron mi scrive passo dall’ospedale a trovare Julia, ci vediamo più tardi. Settimo scalino, ottavo scalino, nono scalino… oggi niente ascensore. E so che forse Cameron non mi chiamerà. So che forse resterà da Julia tutta la notte e lo capirò. Per batterlo alla playstation c’è sempre domani. Ci sarà sempre un domani per dimenticare i problemi mentre ridiamo davanti a una fetta di crostata al cioccolato fatta da sua madre.

Prendo la chiave e la metto nella serratura, il ciondolo con il modellino di una moto che sbatte contro il ferro.

«Martin?»

Apro la porta e mi inoltro nel corridoio. So che questa non è casa mia. Ospite da sempre, dentro di me qualcosa mi ha sempre detto che non appartenevo a questo posto. Ma qualcosa, qualcuno, mi ha sempre fatto sentire al sicuro. 

La luce del sole pomeridiano si riflette sui vasi dorati, sui mobili intarsiati, sulla parete giallo chiaro; Sarah è rimasta a bocca aperta, quando ha visto questa casa per la prima volta. E, forse, la vedo per la prima volta anch’io. Il luogo sicuro in cui mi ha protetto...

Lei, mia madre, che con la sua ombra ha più luce di tutto il color oro che brilla nel corridoio.

Esordisco con un: «Ehi».

Sorride. Quel sorriso che dice mi dispiace e sono felice nello stesso istante. Le dona, il bianco, e quella camicia non gliel’avevo mai vista addosso. Deve averla messa a qualche colloquio con i professori anni fa, e tutto, tutto quanto le dà luce. 

Non le somiglio per niente.

«Vieni.» Stringe al petto dei fogli, mi fa cenno con la testa di seguirla, un ricciolo scuro le sfiora lo zigomo. Io non ho i capelli come i suoi, i miei sono un liscio moscio. La sfiga, davvero.

Mi fa entrare in quella che è stata la sua stanza per anni. Quella che io ho guardato sempre e solo di sfuggita, bianca e con qualche libro qua e là, la coperta verde chiara. La stessa coperta che ora è sommersa da libri e fogli.

Si avvicina al letto superando la caligia aperta per quando andremo via, anche se papà... Joseph le ha detto di decidere che cosa fosse perfetto per noi due. Potete restare o andarvene, come volete, e qualunque cosa decidiate avrete sempre il mio appoggio. Mia madre prende qualche libro in mano, di quelli che si comprano in edicola e parlano di storie d’amore. Di quelli che non prenderei in mano nemmeno se mi pagassero, uno si chiama anche “incertezza d’amore”…

«Dovevo trovare un modo per non farti mai aprire questi libri.» La sento sorridere, la guardo, sorride per davvero mentre prende un altro libro in mano e il suo sguardo cade su di me. Anche gli occhi sorridono.

«Trovata ingegnosa.»

«Be’, non apri i libri di scuola, figuriamoci qualcos’altro, non contando il genere.»

«Io li apro, i libri.»

«Ma chi prendi in giro.»

«Dico veramente.»

«I fumetti di Batman non valgono.»

«Ma quelli li leggevo a dodici anni.»

«Eh appunto.»

«Dickinson.»

Mi passo una mano fra i capelli e lei si sposta una ciocca di capelli dietro l’orecchio, incrocio le braccia al petto e lei fa un respiro profondo. Fa per parlare ma io: «Leggo anche le poesie.»

Sbatte le palpebre, il tempo di un secondo. Quel tempo che ti serve per capire qualcosa quando non ci credi ancora, come quando i tuoi amici ti organizzano una festa a sorpresa e tu non sai se arrabbiarti per tutte le bugie che ti hanno detto o abbracciarli.

Il suo sorriso diventa una smorfia, di quelle che illuminano il viso come se le labbra fossero strisce rosa di luce. Quando alza di nuovo gli occhi,  sono lucidi di quella che sembra emozione. «Devo ringraziare Sarah, allora.»

Sento il mio sorriso allargarsi, il cuore battere forte, e inclino la testa perché mi sento un po’ stordito e sì, devo dirle grazie. 

«Non mi mancano le idee.»

Sgrana gli occhi. Due grandi, belle, pozze marroni. «Martin!»

«Scherzo!»

No, non tanto.

Mi siedo sul suo letto, le molle cigolano, mi sento a casa.

«Stai attento.»

«Mhm…»

«Con gli occhi spalancati.»

«Non abbiamo fatto niente.»

«Sul serio?»

«Sì, vabbè, ma saranno fatti miei.»

«Cambiamo argomento.» Si siede accanto a me con il libro sulle gambe. Resta ferma, immobile, tanto che penso che stia trattenendo il respiro.

E poi si muove. Apre il libro alla prima pagina e toglie via la copertina; non c’è più un libro d’amore: sul libro cartonato verde scuro, in nero, risalta la scritta, “Commenti in merito a Flaubert”. E quando sfoglia le pagine, ne vengono fuori alcune foto, certe rovinate ai bordi, ma intatte.

«Pensavo che… avresti voluto vederlo.»

La guardo negli occhi, come se nel suo sguardo potessi guardare quello che possono mostrami le foto, amore e dolore, amore e dolore per qualcuno che non c’è più. 

E che è uguale a me.

Mi posa la foto sulle gambe e quello che vedo sono io. Un io più grande, più bello, più sicuro,  con un cappello grigio in testa, un sorriso bianco, gli occhi verdissimi… e potrei essere io. Ma è mio padre, e fra le sue braccia c’è mia madre con la bocca sulla guancia di lui. Ecco perché sorride, lui. Louis Scott.

«Era felice.» È bassa, la voce di mamma. Proviene dai ricordi.

E guardo la neve che cade cristallizzata in quest’immagine insieme ai miei genitori, la mano di mio padre stretta a quella di mia madre, il bacio di lei sulla barba corta di lui, e penso che tutto questo non l’avrei nemmeno guardato, se mi fosse stato davanti nella vividezza della vita che la macchina fotografica non può catturare. Sarebbe stato insopportabile, guardarli. Sarebbe stato vero, autentico, e sarebbe appartenuto solo a loro. Ora invece è anche un po’ mio.

E non so cosa dire.

Non so se mia madre sta guardando me che guardo la foto o la foto, ma mi ricordo di tutte le volte in cui, sul divano, l’ho vista con gli occhi lucidi davanti a questi libri ed io pensavo che aveva il cuore dolce di tutte le ragazze. Lei piangeva sulle foto di mio padre, sulla foto di me da piccolo in braccio a lui, quella che ora mi porge; piangeva su una foto di lei che mi fa il solletico sul letto, la mia mano piccola che le tira un ricciolo. E poi ancora mia madre e mio padre, in un giorno di festa, in un giorno in cui non c’ero ancora. Quei giorni in cui le persone applaudono e fanno brindisi, e mio padre sorride mentre mia madre gli toglie via dalle spalle i chicchi di riso che gli hanno buttato addosso. E lui la guarda come se avesse appena scoperto un altro mondo. E quando mia madre ha la pancia ampia che un tempo riempivo io, mio padre per la prima volta non la guarda negli occhi e cerca i miei, anche se non può vederli, anche se probabilmente sto dormendo e non posso sentirlo.

«Lui... Louis… cioè, papà…» dico. La mia voce suona roca, quello che non c’è ti fa un po’ ammalare, ti fa sentire freddo dove invece poteva esserci una vita diversa.

Sento le sue mani posarsi sulle mie guance, posarsi sul mio viso, gli occhi di mia madre mi scrutano attraverso una lucida copertura d’acqua che non è ancora diventata una lacrima. «Era uguale a te.»

«Non gli piaceva studiare?»

Mamma ride. «Era un fantastico giornalista.»

La lacrima cade su un sorriso che sembra fatto di speranze, desideri, sogni; nessuno è stato abbastanza forte da poterli spezzare. «Lui mi rendeva felice, mi rendeva migliore.» Sospira. «Quando ami cambi, Martin, è inevitabile. Ma se cambi restando te stesso, allora chi è accanto a te merita il tuo amore.»

Mi accarezza i capelli in quel modo strano che tasta il capo a poco a poco. Mi ordina i capelli senza un motivo, distoglie lo sguardo, la lacrima è caduta ma penso che mia madre sia davvero bella; penso che, stando vicino a lei, è un po’ come stare vicino al padre che non ha potuto vedermi crescere. Il ragazzo beffardo che l'ha importunata in una caffetteria vicino all’aereoporto.

«Quando li devi tagliare questi capelli? Stanno diventando troppo lunghi.»

«Sono fighi.»

«Sono disordinati.»

«Sono FI-GHI.»

«No.»

«E dai, mamma.»

Increspa le labbra – sorridi, sorridi, dai – e poi mi arruffa i capelli, mi dà un bacio sulla fronte e si alza dal letto. Si sistema l’elastico dei capelli, si volta verso di me e lascia ricadere le braccia sui fianchi. «Vado a preparare la cena.»

«Ok.» Poso le foto accanto a me e mi alzo anch’io. Le guardo un’altra volta, nella stupida intenzione di poter salvare tutto in un piccolo istante, anche se potrò vedere quelle foto quando voglio. Ed io le guarderò poche volte, perché fanno male. E quando avrò dubbi su chi sono io, ne prenderò una e la guarderò, e allora saprò chi è mio padre, saprò chi lo è stato al posto suo, saprò chi sono io, saprò qual è il mio posto.

E poi guarderò gli occhi di Sarah e lo saprò.

Mi guarderò allo specchio e ricorderò tutto e lo saprò davvero.

«A che ora è pronta?» chiedo a mia madre.

«Per le otto.»

«Ma no, ma’, esco con Sarah.»

Inclina la testa, sembra infastidita, poi un sorriso le attraversa il volto ed io mi sento fremere di una strana impazienza e sospiro. Aspetto.

«Facciamo alle nove, d’accordo?»

Corro in corridoio.

«Ecco perché sei la donna della mia vita.»

«E non fare tardi!»
*
*
*
*
Ciao, carissimi miei lettori untiliani. Sono così emozionata, con le lacrime agli occhi, e vorrei tanto, tanto che questa storia non sia vicina alla fine. Grazie infinite a tutti voi, perché è grazie a voi che leggete che Until può vivere davvero. Le visite sono costanti, quindi posso intuire che mi leggete con costanza e questo mi fa tantissimo piacere. Un grazie speciale a chi mi recensisce sempre :**
Non dico altro; vedrete che nei ringraziamenti scriverò davvero molto :'')
Grazie, sempre.
Un bacio
Vostra Ania
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: aniasolary