CAPITOLO 2 – parte 2:
Babbo...
ora chi tra loro avrebbe potuto ascoltare tutto quello che avevo
dentro? Chi sarebbe stato capace di farmi sentire parte di una
famiglia, chi avrebbe saputo consigliarmi? Ogni singolo istante del
tempo passato con lui mi ritorna alla mente, in un susseguirsi
continuo di ricordi: le battaglie, le tranquille serate sul ponte, i
pomeriggi in cui sonnecchiava nella sua cabina ed io lo raggiungevo,
confidavo tutte le mie preoccupazioni, le speranze, i sogni, e lui se
ne stava in silenzio ed ascoltava attentamente, senza giudicare,
consigliandomi. Quel vecchio pirata aveva capito molto più della
vita di chiunque altro conoscessi e io ero fiero di essere suo
figlio. Ma ora il grande Barbabianca, l'uomo più forte del mondo,
non c'era più.
Ero solo, a capo di una ciurma distrutta, fatta di
uomini che probabilmente non avrebbero mai più avuto la stessa forza
d'animo di un tempo, non avrebbero più combattuto con lo stesso
ardore che li animava quando eravamo tutti uniti.
Perché? Perché
aveva dovuto andare in quel modo, perché il destino aveva preso
tutt'un tratto una piega avversa?
Se in quel momento il Babbo
fosse stato lì con noi, se non avessimo partecipato alla guerra, se
Ace non fosse stato così avventato, se Satch non fosse morto, se
Teach non avesse mai solcato i mari con la nostra ciurma... allora
noi tutti avremmo ancora una famiglia.
La fiamma della fenice che
un tempo ardeva orgogliosa in me mi avrebbe condotto lontano, e in
quel momento mi sarei trovato in qualche posto nuovo, tutto da
scoprire, assieme al Babbo e i miei fratelli. Non sarei stato chiuso
nella mia cabina a rimpiangere i tempi passati più con disperazione
che non nostalgia. Perché quando accade un evento del genere non si
può far finta di nulla ed andare avanti, e la tentazione di
chiudersi a riccio e piangersi addosso è forte.
«Sbrigati,
Marco: il capo dice di avere un nuovo incarico per te.»
Alzai gli
occhi dall'antica mappa. Domenica? Sapevo che avrebbe potuto disporre
di noi quando ne avesse avuto bisogno, ma doveva disturbarmi proprio
la domenica?
Sbuffai lievemente ma mi alzai dalla sedia di legno
e, indossato un giaccone, uscii di casa alla volta della villa del
mio nuovo capo.
Giunsi a destinazione nel giro di pochi minuti. Le
guardie mi fecero entrare e mi condussero al grande salone che
dominava la casa, dove il capo mi aspettava comodamente seduto su una
poltrona davanti al camino, un sigaro in bocca e lo sguardo
spento.
Appena mi vide mi fece segno di sedermi di fronte a
lui.
Obbedii e lo squadrai. Da noi conosciuto come Bishamon, Jigme
Ogawa aveva l'aspetto di un colto e raffinato nobile, con quei suoi
baffi grigi come gli occhi e il portamento austero. Agli occhi del
mondo era un rispettato cittadino dell'isola di *** e un benefattore
per coloro che si trovavano in difficoltà. Aveva ottenuto così,
attraverso modi eleganti ma ingannevoli, la stima del popolo, che gli
aveva favorito l'ascesa personale ed infine un posto tra i più
potenti capi dell'isola.
«Marco, ben arrivato. Ti ho chiamato per
avvisarti dell'arrivo di un nuovo carico dal mar Meridionale, vorrei
che gli dessi un'occhiata. Sai come si procede, no? Prendi i più
giovani, scarti chi non ci serve. Le donne mandale nei bordelli della
città bassa, le più belle lasciale per Madame
Camélie
e
se vuoi tieni una di loro per te. Ma assicurati che i ragazzi righino
dritto. Minaccia, pesta,
puoi anche uccidere chi oppone resistenza, come esempio per tutti.
Intesi?»
Ed ecco che faceva la sua comparsa il mostro. Era quella
la verità celata dietro all'elegante maschera: un commerciante di
schiavi, il burattinaio che dall'alto manovrava i fili delle nostre
vite, e noi tutti eravamo legati a lui da grosse corde impossibili da
spezzare. Alcuni restavano a vita dei membri di scarsa importanza cui
venivano assegnati i compiti più semplici, ma se si possedeva
talento era facile fare strada e diventare i favoriti del boss. Io
ero tra quei fortunati: il vecchio mi aveva inquadrato e mi teneva
d'occhio da mesi, quando ancora lavoravo per un altro intraprendente
signore. Era stato facile per lui assassinare il mio capo e prendere
il comando di tutti i suoi uomini, me compreso. E da parte mia, io
non avevo avuto particolari problemi nel passare da una direzione
all'altra, tanto le regole parlavano chiaro: una volta entrati nel
giro, non c'era più modo di uscirne.
«Intesi. Al solito
posto?»
«Ovviamente. Invia qualcuno a far rapporto non appena
avrai terminato.»
Accennai un saluto con il capo e uscii dalla
villa. Il porto distava mezz'ora di cammino a piedi. Meglio volare,
no?
Chiusi gli occhi, mi concentrai e cercai dentro di me.
Lentamente, scorsi una piccola fiamma blu al centro del mio petto, un
fuoco che si ingrandì, illuminò la mia figura ed infine mi avvolse
completamente, trasformando prima le mie braccia, poi le gambe e
tutto il mio corpo in una grande, maestosa fenice azzurra.
In un
battibaleno mi ritrovai davanti al mare che circondava la nostra
isola: acqua gelida, ghiacciata in certi punti, accanto alla costa.
Feci un giro di perlustrazione, guardai l'ampia distesa azzurra ed il
rudimentale porto grigio, costruito in mezzo alle rocce e celato alla
vista degli abitanti della cittadina. I gruppi di guardia erano
sparsi nel vicino territorio boscoso, unico accesso per chi
raggiungeva il posto da terra. Una nave era ancorata nella baia: era
quella la mia destinazione.
Planai , mentre qualcuno tra i miei
sottoposti alzava lo sguardo al cielo e mi intravedeva, avvisando poi
i compagni del mio arrivo. Quando poggiai i piedi a terra, il mio
corpo era già tramutato in quello di un uomo; l'effetto doveva
essere stato alquanto teatrale, poiché in molti, fra i prigionieri
lì presenti, socchiusero la bocca stupiti e sgranarono gli occhi.
Meglio così, se avessero avuto paura di me già da quel momento,
avrei potuto evitare che qualche ragazzo coraggioso mi desse
problemi.
Osservai le persone davanti a me con aria annoiata. Il
solito: si trattava di un gruppo eterogeneo.
Donne, uomini, vecchi
e bambini provenienti da ogni angolo dei quattro mari.
Vittime
della guerra, di sequestri, orfani, vedove.
Spaventati, confusi,
desolati.
«Ascoltatemi bene: d'ora in poi voi tutti siete schiavi
di nostra proprietà. Sarete smistati e i miei uomini vi porteranno
nei luoghi a voi destinati. Credetemi» continuai vedendo già
qualche giovane adirarsi «se vi dico che è meglio che non vi
opponiate al nostro volere: le guardie che qui vedete sono solo
alcuni dei nostri collaboratori, non avete possibilità di ribellarvi
a noi. Non
appena sarete stati divisi, i nostri medici inseriranno nel vostro
corpo un microchip che vi seguirà ovunque andiate:
fuggire è uno spreco di tempo ed energie...» era la solita
pappardella che rifilavo ad ogni nuovo carico che arrivava. Certe
volte i prigionieri erano talmente spaventati e mansueti da far quasi
pena ad uno come me, ma molto spesso si trattava di persone forti,
avidi di libertà e decise a non rinunciare a quella condizione per
diventare schiavi. Alcuni preferivano addirittura battersi
singolarmente contro di noi e morire... pazzi.
Proprio mentre mi
rivolgevo ad un mio sottoposto perché iniziasse a dividerli, udii un
bisbiglio provenire dal gruppo di prigionieri prima muto. Una voce si
alzò su tutte le altre: «Non potete farci questo, non ne avete il
diritto!»
«Chi ha parlato?» tuonai. «Fatti avanti!»
La
folla tacque e si immobilizzò.
Li guardai. Paura, rabbia, terrore
e rassegnazione erano le emozioni che leggevo sui loro volti, ma
nessuno, dopo quel grido, osò rivelarsi o emettere alcun suono.
Pareva quasi che non respirassero nemmeno. Vigliacchi...
Mi
rivolsi nuovamente a Dan: «Procedi, e fai in modo che questo non
ricapiti più.» alzai maggiormente la voce, per farmi udire da tutti
loro «Chiunque oserà di nuovo opporsi, riceverà una punizione
esemplare. Avete capito?»
Non
aspettai una risposta che non sarebbe comunque arrivata. Feci
per voltarmi, quando un guizzo biondo catturò la mia attenzione.
Aguzzai la vista: si trattava di uno dei prigionieri... una donna. O
meglio, una ragazza dai lunghi capelli color del sole che mi
osservava contrita.
La osservai stupito. Aveva qualcosa... qualcosa che mi affascinava terribilmente: sembrava
così diversa dagli altri e quello sguardo chiaro che ora appariva
crucciato, rivelava un'emozione profonda e indefinita, qualcosa che ancora non
riuscivo ad afferrare.
«Dan,
quella tienila per me. Che si faccia trovare a casa mia entro questa
sera, lavata e vestita decentemente. Oh, quando avrai finito
manda qualcuno da Bishamon a fare rapporto.»
«Ok
capo!»
Quella
sera, una volta rientrato nella mia modesta abitazione, trovai la
ragazza di qualche ora prima seduta sul divano.
«Buongiorno.»
Lei
alzò improvvisamente il capo, per poi scrutarmi con cipiglio scuro.
Solo in quel momento notavo l'acquamarina dei suoi occhi. Non avevo
mai visto un colore così in vita mia...
«È
sera, signore.» precisò, fiera.
Il
tremolio della voce si notava appena, avrei voluto complimentarmi.
Sembrava più giovane di me di circa cinque o sei anni, ma lo sguardo
era quello intenso e profondo di una donna.
«Come
ti chiami?»
«Moe.»
Bocciolo.
Quello era il significato del suo nome, e inizialmente fui
così cieco da non rendermi conto di come lei fosse un piccolo
fiore che aspettava solo l'occasione giusta per sbocciare ed aprirsi,
rivelando quanto di più bello potesse mai mostrare.
Capii
che non sarebbe stato un incontro come gli altri.
Qualche
settimana dopo, mi sentivo un uomo diverso. Non migliore, né
tantomeno felice. Solamente diverso, strano, combattuto.
Moe
mi aveva cambiato e non potevo negarlo, perché avrebbe significato
mentire a me stesso, di fronte all'evidenza.
Ero
tormentato, perché non sapevo più che strada avrebbe dovuto
prendere la mia vita. Da una parte c'era la purezza di Moe e la luce
che avrebbe portato con sé. Ma io non volevo... avevo paura di
scegliere e cambiare, era troppo bella la monotona tranquillità che
avevo raggiunto conducendo quella vita, sebbene una lieve voce mi
suggerisse che tutto ciò fosse sbagliato.
Moe,
qualche giorno dopo il suo arrivo in casa mia, mi accusò di essere
infelice: «Tu non vivi: ti limiti a sopravvivere.»
Quante
parole sagge da una ragazza così giovane... ed io non potei fare a
meno di pensare e rimuginare le sue parole, la notte, nella
solitudine della mia stanza.
Se
non fossi stato quello che ero, mi sarei lasciato andare alle lacrime
fin troppo spesso in quel periodo. In fondo quella ragazzina aveva
ragione, ma non poteva sapere che non avevo scelta. Non riuscivo a
esternare i miei sentimenti, non potevo urlarle che tutti quelli che
amavo se n'erano andati e mi avevano lasciato solo, solo con i miei
pensieri e solo a compiere delle scelte. Mi avrebbe fatto sembrare
debole ed io non potevo permetterlo, non in quel tempo in cui ancora
mi occupavo di rinforzare con il cemento armato quel rassicurante
guscio protettivo che mi ero costruito durante l'infanzia.
Il
risultato sembrava perfetto: all'età di ventiquattro anni ero un
uomo – non più un ragazzo – forte, che pensava di riuscire a
confrontarsi con tutto ciò che la vita gli avrebbe messo davanti. Ed
ero così preparato a far fronte alle difficoltà, alle sfide, a
uomini che tentavano di mettermi i piedi in testa, che rimasi
spiazzato davanti alla dolcezza di quella che al tempo chiamai
“stupida ragazzina”.
Soltanto
dopo anni mi resi conto che in quel periodo buio della mia vita non
mi ero tramutato in dura pietra, ma in un piccolo bruco che si era
protetto creando un bozzolo attorno a sé, chiudendo la porta in
faccia a chiunque cercasse di creare un legame. I primi anni della
mia esistenza mi avevano profondamente segnato, ma non pensavo che
dentro il bozzolo pulsasse ancora la vita, un me che spingeva per
uscire ed aprire le ali.
La
farfalla uscì dalla sua protezione in un giorno che ricordo
tutt'ora. Il giorno in cui la ciurma di colui che venne conosciuto
con il nome di Barbabianca, invase la nostra isola e liberò tutti
gli schiavi sotto il dominio del nostro gruppo.
Bishamon
venne ferito durante l'assalto e poi processato.
Ma
ciò che mi cambiò fu ben più grave del lavoro perduto: in tutto
quel caos che era diventata la mia anima, l'unico, saldo punto di
riferimento era Moe... i pirati me la portarono via, mi strapparono
la sola cosa che teneva assieme i pezzi del mio essere e, come un
vaso colmo d'acqua che comincia a traballare, all'assenza di lei
tutto in me si ruppe e si riversò all'esterno. Fu come l'infrangersi
di una diga, o lo scoppio fragoroso di un pallone pieno d'aria. Mi
ritrovai sorpreso, scioccato, solo in una casa che d'improvviso s'era
fatta troppo grande, pieno della mia pazzia e della mia disperazione.
Dopo anni passati a costruire con precisione maniacale quel guscio
cementato attorno a me, la sola sua mancanza fu distruttiva e ruppe
tutto: tutte le barriere, tutti gli argini tra me ed il mondo.
Quello
che per troppo tempo avevo tenuto nascosto dentro di me, ripudiato
dalla mia mente, scoppiò in un tormento disperato, una sensazione
che corrode, che lacera e strappa... che fa dannatamente male. E
quando mi accorsi di cosa mi stava accadendo, di come stavo
diventando nuovamente vulnerabile, gridai: nel vuoto di casa mia
urlai tutto il mio dolore, tutta la rabbia e la desolazione della mia
vita senza di lei. Un pazzo, mi avrebbero potuto considerare un
pazzo... ma era così forte, così impossibile da sopportare quello
che provavo, che per la prima volta dopo anni, piansi. Piansi tutte
le lacrime che avevo trattenuto quando dovevo uccidere e malmenare i
prigionieri, quando il capo mi insultava o quando, nel vedere la
dignità umana calpestata in quella maniera, avevo l'obbligo di
restare fermo, impassibile.
Scoppiai,
gridai, piansi e mi distrussi, mi feci del male per il solo fatto di
potermi ancora sentire vivo, buttai all'aria i mobili di casa mia,
strappai le vesti ed urlai ancora, affinché qualcuno potesse udire
il mio lamento, ma più d'ogni altra cosa per sfogare tutto ciò che
sentivo dovesse uscire da me. Ed infine mi sentii vuoto, svuotato di
ogni mia emozione e pensiero. Un contenitore che ormai aveva versato
tutto il liquido che portava con sé ed ora era rimasto senza più
uno scopo.
Ma
senza quei giorni, quei terribili giorni di buio denso e nero senza
uscita, non sarei arrivato punto in cui ero, decine d'anni dopo. E,
nonostante tutto il dolore che avevo dovuto provare anche dopo, non
ero pentito... perché sapevo d'aver vissuto, e vissuto veramente.
Non mi ero limitato a sopravvivere, ne andavo fiero.
Una
volta distrutto, quando ero consapevole di star lentamente morendo,
provai ad sporgermi al di là dei pezzi del guscio rotto: uscii di
casa un soleggiato pomeriggio, oltrepassai la porta d'ingresso e
guardai la baia sotto i miei occhi, dal terrapieno dov'era situata la
mia dimora. Decisi di scendere fino alla spiaggia e mi ritrovai,
dieci minuti dopo, steso sulla sabbia a riflettere... perché la mia
vita aveva dovuto prendere quella strada? Dopo anni passati a
brancolare nel buio avevo finalmente trovato un raggio di sole ad
illuminare la mia via, e mi era stato subito portata via... dai
pirati.
Inutile
provare a sconfiggere la ciurma di Edward Newgate: sebbene fosse agli
esordi, tutti in città conoscevano la sua forza e la determinazione
dei suoi uomini.
Fu
quando proprio loro mi trovarono, steso sulla sabbia calda, che capii
che da predatore ero divenuto preda. Non riuscivo più a trovare in
me la forza di un tempo, e per loro fu facile mettermi a tacere nel
momento in cui cercai di battermi, nel disperato tentativo di
ritrovare una parte di me che avevo definitivamente perso.
Ma
fu in quel momento che la mia vita cambiò per sempre: lo incontrai.
Ebbi modo di fare la conoscenza di Edward Newgate, e oltretutto in un
modo poco civile. Persi la battaglia, ma lui non rise, non lanciò
sguardi carichi di disprezzo o compassione. Contrariamente a tutto
ciò che avrebbe potuto dire o fare in quel momento, il gigantesco
uomo se ne uscì con un unico: «Vuoi diventare mio figlio?».
Contro
ogni ragionevole aspettativa, accettai ed ebbi anche occasione di
rivedere Moe, addirittura più bella di qualche settimana prima.
E
nemmeno due mesi dopo, stavo salpando assieme al mio capitano alla
volta di nuove avventure, pieno di una rigenerata forza e di energia.
Felice per la prima volta dopo moltissimi anni, leggero e aperto
verso qualsiasi cosa sarebbe successa nella mia vita. Consapevole che
Moe e quel saggio pirata che era Barbabianca, mi avevano cambiato per
sempre.
Angolo dell'autrice:
Ehm,
buonasera! So che avevo detto "due o tre settimane", ed infatti il
capitolo era quasi pronto da tempo, solo che la scuola e la pigrizia mi
hanno assalito alle spalle e mi ritrovo a pubblicare a quest'ora della
sera, non volevo farvi aspettare ancora...
Bene, spero vi piacciano i ricordi di un'ipotetica gioventù di
Marco, non so come mi sia venuto in mente ma mi piace abbastanza xD la
prima parte non mi soddisfa molto, specialmente l'incontro con Moe, ma
ho preferito non approfondirlo e calarmi maggiormente sulla parte che,
penso, mi è venuta meglio: il punto di svolta nella vita della
nostra fenice/ananas preferita :D
Ringrazio tutti voi che mi avete lasciato delle recensioni bellissime e anche i lettori nuovi!
A presto!
Kora :)