Potrei gridarvi "Ehi, mettete giù i forconi!", ma non sarebbe nel mio stile. Vorrei solo scusarmi per gli (argh!) oltre quattro mesi di totale assenza: il capitolo, o almeno questa parte, è pronto ormai da molto tempo, ma alcuni contest a cui partecipavo e una buona dose di pignoleria mi hanno fatto ritardare di così tanto. So che si tratta di un capitolo davvero corto, ma ho preferito dividerlo a metà (questa è la parte più corta tra le due) per evitare di farvi aspettare ancora; l'altro pezzo è già scritto, deve solo essere riletto e modificato in minima parte, quindi lo posterò prima possibile, sicuramente entro una o due settimane :)
Che altro dire? Spero soltanto che il contenuto compensi almeno parte del tempo di attesa e che non risulti noioso - il che è un po' ciò che temo. Buona lettura! :)
CAPITOLO 2:
I
movimenti si susseguivano frenetici. Il mio cuore batteva
all'impazzata, mentre colpivo un nemico e subito dopo mi voltavo per
ucciderne un altro. L'intero spazio era occupato da marines e pirati
in fermento. Nulla era fermo sul campo di battaglia: gli uomini
correvano, le spade fendevano l'aria con un sibilo e cozzavano tra
loro stridendo, i fucili ed i cannoni sparavano ininterrottamente
verso di noi.
Una sola, statuaria figura bloccava la dinamicità
di tutti. Diedi una rapida occhiata verso l'alto, osservando il patibolo
troneggiare, tetro, sulla baia: Sengoku si erigeva sopra di esso, ferito,
serio ed attento allo svolgimento della battaglia.
«Ace!»
Rufy
raggiungeva finalmente il fratello liberato, correva al suo fianco
verso l'acqua ghiacciata, verso le nostre navi, verso la salvezza.
Salvezza che sembrava così vicina, nel nostro pugno, che già potevo
pregustare il momento in cui avrei abbracciato di nuovo quel testardo
di Portuguese.
Così bello vederlo libero.
Così emozionante
vederlo raggiungerci.
Così orribile vederlo morire sotto il colpo
di Akainu.
Era successo in un attimo.
Avevo visto con orrore
Ace dirigersi versi l'ammiraglio, battersi con lui e rimanere infine
sconfitto, inerme tra le braccia di Rufy, morente e con un messaggio
per tutti noi.
Grazie. Ci ringraziò per avergli voluto
bene, per avergli dato una famiglia.
E in quel momento pensai che
era ingiusto. Che l'intera nostra esistenza era ingiusta. Perché un
ragazzo non dovrebbe morire sul campo di battaglia, vittima
sacrificale dell'odio del Governo.
Vittima perché figlio di un
mostro.
Improvvisamente lo spazio cambiò ed io mi
ritrovai sul ponte della Moby Dick, gremito di pirati
nemici.
Osservai attentamente l'uomo di fronte a me,
cercando i punti deboli che avrei potuto sfruttare a mio
vantaggio.
Come se fosse difficile. Quell'uomo massiccio
possedeva una forza nemmeno paragonabile alla mia e nei suoi occhi
leggevo solamente brama di potere, non quella fiamma ardente, tipica
di chi vive per un grande ideale.
Il corpo tozzo era in posizione
di difesa: le gambe coperte da lunghi calzoni blu erano divaricate,
la sinistra spostata leggermente in avanti. Le mani impugnavano una
grossa sciabola e le dita tremavano impercettibilmente. Il volto era
teso, un ghigno deformava la bocca e due piccoli occhi scuri mi
fissavano truci.
Era convinto di poter vincere contro di noi...
illuso.
Si
trattava soltanto di un ridicolo pirata a capo di una ciurma di
qualche centinaio di uomini, più galeotti e ladri che combattenti
veri e propri. Non avevano possibilità di vittoria, ma il capitano
che ora mi fronteggiava sembrava convinto di poter contare sulla
nostra momentanea debolezza dovuta alla guerra.
Era
anche troppo facile, mi venne da pensare mentre schivavo un colpo di
spada dell'avversario, che pensò bene di chiamare a sé una decina
dei suoi uomini. Questi, sotto suo ordine, cominciarono ad
accerchiarmi mentre io, quasi annoiato, mi guardavo attorno, cercando
di capire come se la stessero cavando i miei fratelli.
Rimasi
soddisfatto dalla situazione: avevamo ormai la vittoria in pugno.
Volsi
di nuovo l'attenzione ai pirati intorno a me e vidi i loro volti
trasformarsi, diventare euforici, come all'apparizione di qualcosa
che avrebbe significato la loro salvezza. Il grassoccio capitano mi
stava di fronte e guardava nella mia direzione, il solito ghigno
distorto a deformare il volto e a renderlo più simile a quello di un
pazzo che di un uomo.
Socchiusi gli occhi e lo guardai meglio: la
sua attenzione non era rivolta a me, i suoi piccoli occhi puntavano fissi un
particolare a me ignoto.
Una
risata, un soffio a me familiare alle mie spalle.
Non
poteva essere...
Mi
voltai di scatto e il mondo sembrò rallentare.
Lo
vidi.
Il
cuore diede un colpo più forte, doloroso, poi sembrò arrestarsi.
Sbiancai.
Scarponcini,
corti pantaloni neri, cintura ed un coltello chiuso in una fodera.
Petto
scoperto, allenato, muscoloso. Un tatuaggio.
Collana
di perle arancioni.
Un cappello
appena calato sul morbido capo d'ebano.
Una
mano che si alzava a spostarlo sulla schiena, la bocca sottile che si
piegava in un distorto sorriso.
Le
lentiggini che si illuminavano alla
luce del Sole, sullo sfondo di una pelle diafana e due occhi neri che mi osservavano compiaciuti.
«Marco,
ci rivediamo.»
Era
forse ostile la voce che stavo udendo?
La
voce di Ace. Il mio migliore amico.
Impossibile:
lui era...
«Morto?
No, Marco: io sono qui, davanti a te, guardami.»
Il
sorriso si aprì, Ace inarcò un sopracciglio.
Io
ero bloccato. La mascella rigida, la bocca semi-aperta, gli occhi
sbarrati e il cuore in tumulto.
Mi
lacrimavano gli occhi, avevo la gola secca.
No,
tutto quello non poteva essere vero: Ace era morto di fronte ai miei
occhi, Babbo non era più sulla nave con noi e mio fratello non
avrebbe mai potuto allearsi con dei pirati avversari. Tutto quello
che vedevo non aveva senso, eppure... eppure era così reale!
Vedevo
i miei compagni e gli altri capitani starsene immobili davanti a
quella scena. Ero talmente teso che non riuscivo più a muovermi, né
a pensare coerentemente, né
a reagire.
Me ne resi conto mentre una fiamma rossa cominciava ad
ardere nella mano di Ace, e questa si chiuse a pugno quando il
proprietario si avventò si di me.
Gridai.
Aprii di
scatto gli occhi ed alzai il busto, sedendomi. Ero nella mia cabina,
nel mio letto e tutto era al proprio posto. Quello di Ace non era che
un incubo, uno dei tanti che popolavano le mie notti da mesi.
Mi
distesi di nuovo sul materasso, cercando di calmare il respiro affattato e mi guardai attorno, alla
ricerca di segni della quotidianità che potessero riportarmi alla
realtà di ogni giorno, per riuscire a rendermi completamente conto
che quello era solamente un incubo.
La cabina era un luogo che mi
rispecchiava perfettamente: illuminata dalla luce del mattino
appariva sobria, spaziosa e calma. I colori chiari erano predominanti
e mi donavano un senso di pace; davanti a me si stagliava la grande
scrivania in cedro che avevo comprato su una piccola isola anni prima
e sopra di essa vi erano la penna e il calamaio, accompagnati da
qualche foglio ordinatamente ripiegato sul tavolo. Odiavo il
disordine... detestavo che il piano in legno fosse ricoperto di
cianfrusaglie e scartoffie, così avevo catalogato le lettere e le
mappe e le avevo appoggiate oltre la scrivania e la sedia, sopra due
scaffali che facevano bella mostra di loro sul muro.
Dall'altra
parte della stanza una piccola libreria poteva sfoggiare una buona
quantità di volumi che una volta amavo leggere nelle giornate di
sole, quelle in cui tutta la ciurma era rilassata ed il lavoro da
svolgere era poco. Si trattava di libri di nautica, elaborate mappe
dei quattro mari e delle loro terre, ma anche di romanzi di tutti i
generi, dall'avventura alla letteratura storica, ai culti e alle
tradizioni degli antichi popoli che abitavano il nostro mondo secoli
prima. Potevo scorgere anche alcuni trattati d'astronomia e
matematica, che mi dilettavo a leggere da giovane, mentre alcuni
testi riportavano le idee dei grandi filosofi sul mondo. Oh, quanto
avevo odiato la filosofia quando, da giovane, mio padre mi aveva
obbligato a studiarla! Ma un giorno si era infiltrata nel mio cuore e
mi aveva appassionato...
«Sono
venti Berry, signore.»
Passai le monete all'anziano uomo
che mi stava di fronte e uscii dalla libreria. Guardai attentamente
l'oggetto che avevo appena comprato: era strano anche per un assiduo
lettore come me, l'aver preso quel piccolo volume che ora tenevo tra
le mani. Curioso come fosse stato l'unico ad attirare la mia
attenzione tra gli stipati scaffali del locale, quasi mi stesse
chiamando. Ma dopotutto, dargli un'occhiata non mi avrebbe certo
fatto male.
Quella sera, mentre il cielo si scuriva e i miei
compagni banchettavano nella mensa, io me ne stavo seduto in un
angolo del ponte della nave, leggendo le prime pagine del mio nuovo
acquisto.
Dovevo ammettere che era interessante, ma non ebbi
nemmeno il tempo di confermare la mia idea iniziale poiché una mano,
favorita dalla mia distrazione, sottrasse agilmente il libro dalla
mia presa. Mi voltai di scatto per vedere chi fosse quell'avventato
in cerca di guai, ma mi bloccai quando vidi che di fronte a me
sostava nientemeno che Satch. L'espressione placida ma palesemente
divertita mi suggeriva che il mio compagno d'avventure fosse
orgoglioso della sua riuscita impresa.
Sospirai innervosito,
alzando la mano verso di lui. «Ridammelo, Satch.» dissi
eloquente.
Il mio interlocutore sembrò non sentirmi, ma più
probabilmente fu solo per sfida che non mi diede retta e sollevò il
libro appena sotto i propri occhi vispi e soddisfatti, leggendo il
titolo.
Alzò le sopracciglia sorpreso e al contempo divertito: «Filosofia, Marco? Non sapevo avessi di questi interessi, amico
mio!»
«Satch...» era un avvertimento il mio.
«Dai,
Marco, non te la prendere. Era per farsi quattro risate!»
«Ehi,
li ho trovati: Marco, Satch!»
Mi voltai nella direzione da cui
proveniva quella voce. Non ci voleva: si trattava di Vista e di
alcuni degli altri capitani e Satch non mi aveva ancora restituito il
libro.
Ero nei guai, sapevo che presto sarei stato lo
zimbello dei miei fratelli. Penso che si divertissero a prendermi in
giro per quella mia passione della lettura. Alcuni di loro sapevano
appena leggere e scrivere, o comunque se ne servivano solo per ragioni di
tipo pratico: dispacci da inviare al Babbo quando le loro navi erano
lontane, lettere ai capovillaggi delle isole sotto la nostra
protezione. Nessuno di loro amava particolarmente la letteratura e
vedere uno di loro leggere assiduamente ogni genere di testo li
aveva lasciati alquanto straniti. O, perlomeno, questo all'inizio...
prima che cominciassero a trovare divertente l'idea di punzecchiarmi
ogni qualvolta mi trovassero con un libro tra le mani.
Fu per
quello che non mi stupii nel vedere Satch sorridere. Probabilmente già
pregustava il momento in cui avrebbe reso partecipi i nuovi
arrivati della notizia appena scoperta. E, quasi a confermare la mia
idea, lo vidi alzare una mano bloccandomi mentre cercavo di
rimpossessarmi del volume, il quale arrivò direttamente nelle mani di
Fossa. Il gigantesco uomo lo prese al volo e Izo, sistemato accanto a
lui, lesse ad alta voce il titolo stampato sulla copertina rigida,
mentre Satch sghignazzava senza riuscire a trattenersi.
«Ahah!
Filosofia, Satch, ora pure questa ci voleva!» proruppe senza ritegno
Fossa.
Ormai nessuno tratteneva più le risate ed io, pur sapendo
che non mi deridevano per davvero, pensai con un briciolo di
sconforto che nessuno di loro mi avrebbe mai compreso veramente.
Solo
il Babbo...
Angolo dell'autrice:
Rieccomi, solamente per dirvi due cose :)
Be', innanzitutto spero di essere stata capace di esprimere al meglio
le emozioni di Marco, anche se questo capitolo è fatto
più che altro di sogni e ricordi. È noioso? Il prossimo
riguarderà principalmente il passato "più passato" della
Fenice, spero vi piacerà... ci sarà comunque più
azione (un minimo, almeno) commista ai pensieri del protagonista :)
Volevo infine ringraziare EmmaStarr, Ikki, Miyuki chan, Sugar_Ginger, TokorothX3, Yellow Canadair, _ANNA17_,
che hanno seguito e preferito la storia, ed un "grazie" speciale per
chi ha lasciato le quattro bellissime recensioni, ricche di consigli e
apprezzamenti (siete troppo buone!). Spero di ritrovarvi anche qui,
nonostante il colossale ritardo :)
Al prossimo capitolo!
Kora ;)