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Autore: Matteo_Russi    17/03/2014    2 recensioni
In quel tempo c'erano sulla terra i giganti, e ci furono anche in seguito, quando i figli di Dio si unirono alle figlie degli uomini, ed ebbero da loro dei figli. (Libro della Genesi 6:4)
Agli albori dell'Umanità, prima che i grandi imperi solcassero il palcoscenico del mondo, in un tempo di cui si è perduta memoria, un misterioso gigante dal cuore tenero vive con sua figlia, una bambina di undici anni, isolato dal mondo, serbando nel suo cuore inconfessabili segreti sulla storia sua e del mondo in cui vive. In una piovosa sera invernale rincasa sconvolto, palesando la convinzione di essere giunto alla fine dei suoi giorni, raccontando particolari ignoti della sua vita, accennando al terribile impero che soggioga la Terra e chiedendo a sua figlia di andare alla ricerca e di sposare uno dei figli del Re degli uomini. Il giorno seguente la bambina troverà il suo amato genitore ucciso. Sarà questo l'inizio di una lunga avventura verso la scoperta di un mondo e di una civiltà dimenticata, quando molte razze umanoidi vivevano sul nostro pianeta.
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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All’improvviso un violento tuono echeggiò nella valle. Il vento smosse le querce del vicino bosco, lasciando cadere per terra le foglie appena spuntate e portandosele con sé lungo il polveroso sentiero. Gli uccelli notturni spaventati si librarono in volo impauriti e volarono più in fretta che poterono ai loro nidi solitari. Nel caldo di ogni tana, ogni mamma stringeva a sé i suoi piccini.
Poi, la folgore illuminò il cielo, squarciandolo da cima a fondo, cacciando ogni tenebra notturna. Qualche volpe ancora all’aperto a caccia di conigli, dopo a lungo essersi fatta coraggio, alla vista di quel singolare bagliore, abbandonò i suoi propositi, nascondendosi nell’oscurità del cuore della foresta.
Le acque del ruscello s’incresparono e qualche goccia di pioggia tintinnò sulle lisce pietruzze del fondale. L’aria umida e afosa, come sempre, si scontrò con la fredda brezza delle montagne del Nord, riempendosi di un’insolita fragranza, il profumo delle nevi perenni e delle conifere secolari. Il cielo allora prese copiosamente a lacrimare. Era inconsolabile. La pallida Luna come dispiaciuta da tanto pianto si nascose dietro a una nube e ogni rumore o voce, verso o sospiro di animale che fosse, cessò pietoso.
Ai piedi della montagna, dove cessava la foresta e cominciava un pendio aspro e scosceso, sorgeva una casina di pietra, dall’architettura piuttosto rozza e dimessa, nascosta tra i rami e le foglie di una superba edera. Quasi che il suo costruttore avesse voluto celarla agli occhi del mondo, era circondata da alberi folti e imponenti, e protetta, come una torre, da ripidi burroni.  Nessuno l’avrebbe scorta, anche a breve distanza, se non avesse notato il suo placido respiro, quel grigio fumo che usciva dal suo bianco comignolo, riempendo l’aria dell’aspro profumo di legna di quercia e di pioppo arsa. Sul retro, nell’ovile, il timido belare degli agnelli si udiva a pena placato dalle affettuose coccole materne, quasi che le sagge madri volessero evitare di far notare ai terribili predatori la loro presenza. Lo sgomento dei piccoli di fronte ad una tempesta fino a allora sconosciuta, non poteva essere ricacciato che da un timore ancora più grande, la paura di un pericolo maggiore.
Nel bosco vicino, a far compagnia al ticchettio della pioggia, si udirono allora i passi imponenti di una singolare creatura, la cui camminata pareva molto più simile a quella di un orso piuttosto che a quella di un uomo. Gli agnellini udendo quel familiare rumore sospirarono lieti addormentandosi sul seno materno. Quella strana creatura si muoveva veloce, barcollando tra rovi e cespugli, spezzando, al suo passaggio, i rami e le radici secche che capitavano sotto i suoi piedi. Il suo fiato era greve e affaticato come quello di un bisonte colpito dai cacciatori, la sua mente avvolta da cupi pensieri.
Uscì nella radura poco distante dalla casa, emettendo un nervoso sospiro. La Luna riapparve nel cielo. Lui la fissò meditabondo, quasi avesse voluto porle delle domande e ricevere delle risposte. L’astro, come percependo quei mesti pensieri e terribili dubbi, gli rivolse il suo freddo sguardo, accarezzandolo con i suoi raggi.  Comparve allora un omone enorme dai crini tanto biondi da sembrare bianchi che ricadevano lunghi sulle muscolose e mostruose spalle. Il suo volto era imberbe e la sua pelle tenera e bianca come quella di un neonato. Egli scosse i suoi celesti occhi a mandarla distogliendoli dalla Luna, come intimidito da tanta cura, mentre si riempivano di malinconia e una lacrima irrigava la sua pallida gota.
Sulla sua fronte comparve una profonda ruga e il respiro divenne più pesante e rumoroso. Proseguì verso il cancelletto di legno che circondava la sua dimora, trascinando a fatica il suo corpo mostruoso, le sue gambe lunghe quanto l’altezza di un uomo, le sue braccia muscolose e possenti, il suo petto superbo e imponente. Era nudo. Solo la pelle di un orso ne cingeva i fianchi e uno sdrucito mantello proteggeva le spalle da quella fastidiosa pioggia.
Giunto al cancello, l’aprì con una certa violenza, dandogli una spallata. Senza guardare indietro continuò a camminare mesto, muovendo i suoi grossi e pelosi piedi.
Giunto che fu al suo uscio, bussò, imprimendo talmente tanta forza al suo pugno che la porta si aprì da sola.
“Che stranezza è mai questa? Il cielo piange!”
Esclamò con voce greve e aria frastornata.
 “E’ una diavoleria degli Alaskhoi!”
Sospirò, togliendosi di dosso il mantello e buttandolo per terra.
Si girò e chiuse la porta. Quindi si fermò un instante, come incantato, fissando il pavimento, avvolto da chissà quali pensieri.
“Starà forse finendo il mondo?”
Si domandò.
Scosse il capo, come per ricordarsi che a un gigante non era concesso di pensare, non era nella sua natura la facoltà di porsi delle domande e di cercare delle risposte. Una creatura simile era atta solo a fare la guerra, a lavorare i campi e a costruire grandi città. Essa era molto più simile a un vigoroso bue, piuttosto che a un’astuta volpe. Era una bestia di fatica, dal collo perfetto per reggere qualunque giogo e trascinare qualunque peso. La sua forza non era nella propria stolida mente, ma nelle sue muscolose braccia.
Parve rattristato da simili meditazioni. Voltò lo sguardo e gli apparve uno splendido ambiente, ordinato e pulito, a ben vedere molto diverso da quello che ci si sarebbe aspettati dalla tana di un gigante.  Nel camino fiamme possenti divoravano un enorme tronco di legna. Sul tavolo giaceva fredda una ciotola con la minestra e una coppa di terracotta piena di vino.
Il gigante si guardò in giro, come a cercare qualcuno e non trovando nessuno, si diresse verso il resto della casa, non curandosi di passare con i piedi sporchi sul suo mantello.
“Alisea! Alisea! Dove sei, bambina mia?”
Urlò con aria più preoccupata che adirata.
 “Sono qui, amato padre mio!”
Rispose una vocina tenera e acuta come quella di un usignolo. Udendo quel suono un sorriso affettuoso colorò il volto del gigante, palesando ogni suo sentimento più profondo.
Un esserino minuto comparve all’improvviso. Non fosse stato per il biondo dei capelli, il colore ed il taglio degli occhi e la pelle tenera e chiara come quella di un fanciullo, nessuno avrebbe mai potuto pensare che i due fossero padre e figlia.
La bambina che a quel tempo non avrebbe avuto più di undici anni, corse incontro a suo padre, stringendosi al suo ginocchio a cui arrivava a malapena.   
Il gigante teneramente si chinò verso di lei e le cinse i fianchi delicatamente, alzandola da terra e stringendosela al cuore.
“Oh Alisea, Alisea, fiorellino mio! Solo Ala il possente sa, quando sono stato in pena per te!”
Sussurrò affettuosamente.
Una lacrima bagnò la guancia del gigante. I suoi occhi umidi brillarono alla calda luce del camino, mostrando sentimenti estranei alla natura di un gigante e molto più tipici degli uomini.
La ragazzina parve molto contenta delle premure paterne. Anche lei doveva aver atteso a lungo che il suo genitore rincasasse, facendo molti brutti pensieri.
“Ora il cielo sta smettendo di piangere!”
Esclamò il gigante come a far coraggio a sé stesso e alla sua bambina.
“Il cielo ha ruggito come l’orso e si è illuminato come a mezzogiorno. Mi sono chiesta se il Sole non fosse tornato indietro nel suo cammino e avesse litigato con la Luna.. Ho avuto tanta paura.”
Raccontò Alisea con la sua vocina melodiosa.
“Ho udito belare gli agnelli nella stalla, ma non ho avuto coraggio a uscire e ad andare a controllarli.”
“Mi devi scusare.”
Aggiunse chinando il capo, come pentita per non aver svolto con cura il suo compito.
“Devi avere coraggio, figlia mia! Non devi avere paura del mondo! I figli di Adahama dalla mente brillante, gli orgogliosi Alaskhoi e i possenti giganti sono malvagi e ti sembrano invincibili, ma nulla sfugge all’occhio di falco di Ala, il Signore del Cielo e della Terra!”
Esortò l’affettuoso genitore. Quindi con delicatezza pose la sua bambina per terra.
“Dove sei stato fino a quest’ora in questa notte da lupi?” Chiese Alisea. “Ti avevo preparato la minestra che a te piace, ma ora sarà già fredda! Avrai fame!”
Il gigante si sedé al suo tavolo, osservando con quasi incuranza il piatto che aveva dinanzi.
“Non hai fame?”
Domandò la figliola con una leggera apprensione.
“Sto bene, figlia mia!” Rispose risoluto il gigante. “Non ti preoccupare!”
“Voglio solo il mio vino. Ho bisogno di scaldare il mio cuore!”
Affermò, prendendo a bere dalla sua coppa.
La ragazza che conosceva molto bene suo padre, sapeva di quegli stati d’animo paterni e di come, alle volte, fosse tanto diverso dai comuni giganti.
“Mi devi fare una promessa, figlia mia!” Esclamò il buon genitore, sorseggiando il suo vino. “Devi promettermi davanti ad Ala, il Signore del Cielo e della Terra, che nessuno dovrà torcerti un capello quando io non ci sarò più e raggiungerò tua madre nel Regno dei Morti!”
A quelle parole, la ragazza ebbe un fremito, parve spaventata più che all’udire del tuono e alla vista del fulmine di un’ora prima.
“Non temere, Ala veglia su di te e ti guarda con occhi di falco!”
Cercò di rincuorarla, scotendo il capo.
“Io non voglio che tu muoia!”
Esclamò Alisea con un fil di voce.
Il padre la guardò con occhi lucidi, senza trovare le parole adatte a consolarla.
“Ciascuno di noi ha un destino, mia diletta. La mia vita sulla terra è stata un breve e faticoso pellegrinaggio, una vita da ramingo. Ho navigato su mari tempestosi e il mio cuore ha troppo battuto, troppo amato e troppo sofferto. Sono stato colpito dalle frecce della malinconia e dai dardi della nostalgia, dopo esser stato travolto dalla passione e aver toccato stelle la cui luce è interdetta per natura ai giganti!”
Quell’omone incrociò il suo sguardo con quello della sua amata figliola, quindi prese a contemplare silente la fiamma che ardeva ciò che restava di un tronco secolare. Poi si voltò nuovamente ad Alisea.
“Mi resti solo tu!” Ammise con un groppo alla gola. Respirò profondamente. Deglutì un sorso di vino come per voler mandare via la commozione.
“Non puoi sapere né immaginare quanto ho amato tua madre!”
Si confidò scotendo il capo, mentre una nuova lacrima gli cadeva sul volto.
“Un gigante non s’innamora. Cerca una come lui e si accoppia e quando il talamo è ancora caldo se ne va, senza neanche salutare la sua concubina! E’ la sua natura: non ha sentimenti! La migliore madre abbandona i suoi figli non appena sono grandi abbastanza da procurarsi da soli il cibo. I padri? I giganti non hanno padri che si occupino di loro. “
“Io non sono così però. Non lo sono mai stato!”
Concluse con un certo trasporto emotivo.
“Sei un papà speciale!”
Disse Alisea con un sorriso.
Suo padre la guardò teneramente e le parve di vedere una mimosa al principio della sua fioritura. I suoi capelli erano biondi, quasi bianchi, con alcune venature rossicce e leggermente crespi. In quei riccioli intravvedeva i folti crini materni, appartenuti alla sua amata sposa.
Gli occhi della ragazza erano piccoli e a mandorla colorati di un celeste intenso. La sua pelle era bianca come il latte. Le sue guance erano rosee come le sue labbra sottili. Aveva zigomi alti e fronte rotonda, naso e lineamenti regolari.  Vestiva una lunga veste di lana bianca che la cingeva fino ai piedi, lasciando scoperte solo le braccia. Un mantello di pelle le copriva le spalle, abbracciando il suo corpo minuto.  La sua corporatura era snella, tuttavia palesava forme molto più evidenti rispetto a quelle delle umane di quell’età.
“Tua madre si chiamava Alaska. Aveva quindici anni quando m’innamorai di lei. Era una femmina di uomo, una donna, non una stupida gigantessa!”
Raccontò il padre.
“Aveva capelli castani e ricci, occhi marroni e profondi, pelle abbronzata dal sole. Una tipica figlia di Adahama! “
Il gigante ricordò con occhi lucidi, ma privi ora della commozione di qualche minuto prima.
“Aveva come te piccola statura e corporatura snella. Tu però hai un corpo molto più formoso del suo”
Notò con stupore, scoprendo che sua figlia stava crescendo.
 “Le figlie di Adahama non sono come le gigantesse che sono tanto grasse!”
“Da giovane non mi piacevano molto, le trovavo sgraziate, rozze e prive di qualunque avvenenza. Poi la Regina mi mandò a combattere contro gli uomini. Ne uccisi a migliaia.”
“Queste mani, figlia mia!” Esclamò pentito quell’omone dal cuore tenero, fissando le sue enormi manone e scotendo il capo. “Queste mani hanno seminato morte e distruzione. “
“Stritolavo le teste come fossero noci!”
Rammentò chiudendo i pugni e lasciandoli cadere sul tavolo.
“Finché non ne ho potuto più! Ho detto basta e sono fuggito!”
Il gigante si cinse il capo tra le mani.
“Mentre i giganti finivano di massacrare gli ultimi uomini del Nord rimasti, fuggii nei boschi, finché non giunsi in un villaggio di umani. Fu l’evento più bello e più terribile della mia esistenza!”
Il padre rimase in silenzio per alcuni minuti, ma sua figlia, pur essendo stupita dal fatto che mai prima di allora il suo genitore avesse parlato di sua madre, non osò fare domande, accompagnando con il suo sguardo, i gesti paterni.
“Tua madre non era molto diversa dalle altre donne.” Proseguì con voce rauca e mesta. “ Ma per me era unica e speciale.”
“Anzi,” si corresse, “è ancora oggi unica e speciale. “
“Un gigante non può unirsi a una donna. E’ peccato mortale, reato capitale per la legge di Glukhosehi!” Spiegò, alzando la voce come adirato per quel destino tanto crudele.
“Suo padre era sacerdote di Ala, il Dio del Cielo. Divenne mio padre e mi amò come un figlio, insegnandomi oracoli e trasmettendomi la sua sapienza! “
“Fece ciò a me! Insegnò a uno stolto come essere intelligente!”
Osservò stupito, quasi incredulo al suo racconto.
“La nascesti tu! Gli uomini non mi odiavano, ma mi trattavano come uno di loro. “
“Poi arrivò quel giorno. Un gigante mi vide e decise di uccidere me e te. Il villaggio fu distrutto, ogni essere vivente ucciso. Tua madre cadde sotto i dardi del nemico. “
“Sarei voluto morire anche io!”
Urlò il gigante disperato. Facendo seguire le sue parole da copiose lacrime.
“Avevo però da salvare te, la mia sola ragione di vita rimasta.”
Il gigante non aggiunse altra parola né Alisea osò chiedere alcun’altra cosa. Il suo cuore era in tumulto e batteva all’unisono con quello di suo padre. Per tanti anni erano vissuti assieme, ma mai simili ricordi erano stati condivisi. L’amore era bastato a curare le ferite e lenire i dolori. Ora però qualcosa stava per succedere e il cuore del gigante esplodeva con la stessa veemenza del tuono e il destino stava per cambiare il corso degli eventi in modo più repentino di un fulmine.
Nel camino il tronco di quercia si era consumato e la fiamma assopita. Fuori la pioggia doveva essere cessata, ma il cuore del gigante era in fiamme, la sua anima divampava e fremeva tra i tumulti della tempesta.
“Voglio una promessa, una solenne promessa, solo una promessa!” Balbettò il gigante, alzando lo sguardo dal camino.
“Padre mio, farò tutto ciò che tu mi comanderai a costo di sacrificare la mia stessa vita!”
Affermò risoluta la figliola.
L’omone cercava le parole senza riuscirvi. Il coraggio con cui un attimo prima aveva raccontato la sua vita era ormai perduto. Il suo cuore vacillava, forse intimorito da altri segreti inconfessabili che mai sarebbe stato in grado di svelare.
“E’ una promessa solenne!” Osservò, ancora cercando le giuste parole.
“Mi devi promettere che non permetterai mai ad alcuno di cogliere la tua verginità al di fuori di uno dei figli del Re degli uomini!”
Spiegò finalmente. La ragazza lo guardò con aria spaesata, senza comprendere cosa le stesse comandando. Il genitore però non riusciva in quel momento a essere più chiaro. Aveva molto altro da dire, ma non sapeva da dove cominciare.
“Dovrai sposare uno dei figli del Re degli uomini!”
Cercò di chiarire, ma la ragazza ancora non comprese.
“Solo allora la tua vita sarà sicura!”
Concluse.
I due si guardarono negli occhi senza proferir parola, senza riuscire a capire i pensieri l’uno dell’altro.
“Ci sono cose che non comprendo, ma ti giuro che farò quanto mi chiedi!”
Promise Alisea.
 “Sarà meglio così!”
Mormorò il gigante, alzandosi dalla sedia, dirigendosi verso la sua stanza da letto.
“Tuo padre è un vigliacco!” Esclamò. “E’ uno stolido gigante che cosa pretendi! Non sa neppure parlare!”
L’omone, dopo aver percorso pochi passi verso la sua stanza da letto, si fermò, restando meditabondo. Quindi si giro come per cogliere uno sguardo, un sorriso, un ultimo sorriso, per un’ultima volta.
Alisea gli corse incontro come mille volte aveva fatto da bambina e si strinse alla sua gamba. Copiose e silenziose lacrime irrigavano il volto del gigante. La ragazza strinse il suo possente arto con quanto più ardore e forza poté, piena di affetto nei confronti di quel padre buono e affettuoso che l’aveva coltivata come una rosa in mezzo ai rovi e che sarebbe stato in grado di dare anche la sua vita per lei.
In quell’abbraccio la rassegnazione lasciava il posto alla consolazione e quei malinconici anni trovavano il proprio compimento. Nel camino, intanto, il fuoco si era quasi spento e gli ultimi tizzoni si consumavano nella cenere.
   
 
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