Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
27.
Le ali dei sogni
Joshua
Non so quanti mesi sono passati.
Mi fanno male le ossa. Vedo male, la luce mi fa sentire un bruciare agli occhi, non posso correre perché mi stanco presto. Sono malato e la vita è la mia chemioterapia.
La vita è la punizione giusta per
me; gli sguardi degli altri detenuti sono cavi, come se un corvo gli avesse
mangiato via gli occhi, lasciando dei fori neri che sono solo sangue vecchio di
tanto tempo. Presto sarò come loro. Presto pagherò con quello che è rimasto e
rimarrò sempre cosciente. Mi hanno messo dentro, Cassie. Deglutisco. Manette,
spintoni, pugni… ma non mi hanno ucciso. Non c’è la pena di morte, qui. La vita
è un prezzo molto più alto e lo sto pagando come meglio posso.
«Tu, alzati.»
La vita è un prezzo molto alto ed io ti
sento vicino a me, anche se la morte ti ha portato via.
Mi metto in piedi.
«Qualcuno vuole vederti.»
Anche se il primo a farti andare via sono
stato io.
Rumore di chiavi, serratura che scatta,
cigolio di ferro; una mano dura che mi prende per la tuta e mi spinge fuori
dalla cella isolata. E mi chiedo chi mai potrebbe volermi vedere, chi mai, dopo
tutto quello che ho fatto, sprecherebbe tempo ad ascoltare il mio silenzio da
morto.Vivo solo perché solo in vita posso
soffrire, e la sofferenza è quello che merito davvero.
«Là. Siediti, forza.»
Sedia, un tavolo d’acciaio. Io seduto, io
con i gomiti poggiati su quella che sembra una lastra da macello. Le ossa
pulsano ed io non mi guardo intorno.
Perché sono qui?
«Joshua Silvers. È quello il tuo nome,
vero? Anche se sulla carta il tuo cognome è Stewart… ed io ho il tuo cognome.»
Alzo lo sguardo. Bruciano i miei occhi
quando ti guardo, Von. Yvonne. Mia figlia… la figlia del mio amore, e ringrazio
Dio che sei uguale a lei, ringrazio Dio che non sono stato io a crescerti fino a quattordici anni,
ringrazio Dio che qualcun altro si sia occupato di te quando lei è andata via.
Dio, che non mi ha salvato ma che, se esiste, ha salvato te da me.
«Mi
dispiace di essere venuta così tardi... Ho portato Bob al
canile, all'istituto non fanno tenere animali, però Hans mi
accompagna per andarlo a salutare...»
Le somigli così tanto. Gli occhi mi
bruciano ancora. Le somigli così tanto che potresti essere lei.
«Non ti devi preoccupare di niente, Yvonne.»
«Non pensare a me.» Mi si rompe la voce e
quanto sono belli i tuoi occhi. Mi si rompe la voce e la guardo e penso non ti
ho fatto abbastanza del male? Non ti ho fatto abbastanza del male per farti
scappare e cercare la libertà dal mostro che, dentro di me, ti ha distrutta?
Avevi quattordici anni quando ti ho portata con me… quattordici anni, la mia
piccola Yvonne… «Non pensare a me, Yvonne. Dimenticami. Dimentica le mie botte,
dimentica le parole cattive. Non ero io, ma non è abbastanza per chiederti di non
abbandonarmi.»
Sgrana gli occhi. I capelli biondi
lunghissimi che le ricadono sulle spalle, la sua mano che si allunga verso la
mia mentre io mi ritraggo.
«Abbandonami, Yvonne. Abbandonami per tua
madre. Abbandonami e salvati. Abbandonami ed io ti vorrò bene per sempre. Sei
mia figlia e ti ho voluto bene da quando tua madre mi ha detto che c’eri e
avrei voluto esserle accanto, avrei voluto ma… ma…»
«No, Joe. No.»
«Vattene, Yvonne.» Mi alzo in piedi senza
guardarla, la sedia stride sul pavimento e il dolore è dappertutto e le ossa
pulsano ed io devo solo tornare nella mia cella, devo solo porre fine a tutto
questo e sarà libera. La mia bambina sarà libera e sarà felice e non importa se
non siamo vicini, non importa se lei va via e non la rivedrò più.
«No.» Anche la sua voce è ancora quella
di una bambina. E respingo i ricordi che mostrano qualcuno che somiglia a me
stesso che la maltratta,
qualcuno che somiglia a me stesso… «Tu sei mio padre.»
Quando il mostro era dentro di me, era come essere in una dormiveglia perenne. Ero steso, con gli occhi chiusi che non riuscivo più ad aprire; completamente immobilizzato, ma capace di sentire tutto. Sentivo la mia voce con parole non mie, percepivo le azioni del mostro attraverso il mio corpo e vedevo, nel buio, l'orrore che accadeva senza poterlo fermare. Senza poterlo fermare, mai.
Solo una volta sono riuscito ad aprire gli occhi, dopo quasi diciotto anni. Per proteggere lei.
«Proprio perché sono tuo padre non posso abbandonarti. Ma puoi farlo tu.»
Yvonne mi abbraccia. Ed è come se mi stesse
uccidendo perché non può accadere, perché le ho fatto del male, perché è troppo
tardi. E non riesco a non abbracciarla io stesso, non riesco a non accarezzarle
quei bei capelli, non riesco a non pensare che sarà sempre piccola per me.
«Domani torno.»
«Non devi tornare. »
«Torno... mi ha accompagna Hans, mi accompagnerà lui, sempre. Ha promesso...»
«Perché lo fai? »
Mi guarda. Sono gli occhi di Cassie, sono gli occhi di mia figlia e sono arrabbiati, feriti.
«Sai che cosa mi diceva mamma di te?» Una lacrima cade. No… non deve piangere,
non deve piangere. Devo avere un fazzoletto, sì...«C’è stato il giorno
in cui ho chiesto di mio padre e lei mi ha raccontato di te che studiavi Medicina, mi ha fatto vedere le vostre foto insieme. Sapevo
chi eri, sapevo com’eri. E mi ha detto
che qualcosa di grande, di brutto, ti aveva portato via.»
Sospira e la lacrima
scivola via, riesco a prenderla poggiandole il fazzoletto sulla
guancia. «E mi
ha detto che saresti tornato. Mi ha detto che saresti tornato ed io non
ho mai
perso la speranza perché la mamma è morta. E l'unico modo
per farla restare ancora con me, era non uccidere mai la
sua speranza.»
Le asciugo le lacrime con il fazzoletto,
mentre le parole si accumulano nella mia mente con il ritardo vergognoso di chi
usa il cervello consapevolmente dopo tanto, troppo tempo. E so che lo voglio
bene, so che non potrei amarla di più, e che forse saperla al sicuro, serena, è
il regalo più bello che potrei mai avere adesso che non posso più vivere.
Lei è la tutto quello che ti resta
Le poso un bacio sulla fronte.
Lei è la tua famiglia.
«Sei come lei, Yvonne, come tua madre. Non avrei mai voluto perderti...»
Sorride appena, allontanandosi un po’, con
quell’andatura lenta, i capelli che ondeggiano, come faceva sua madre. E poi i
suoi occhi sono ancora lucidi, e sanno che non si può perdere per tutta la vita anche se lei perdeva da troppo tempo.
Mi stringe la mano; forte, decisa. Quanti
momenti ho perso, quanti momenti non avrò più. Ma è salva. Lei è la
bambina che Cassie ha cresciuto. Sei il motivo per cui sopportare le ossa che
pulsano, gli occhi che bruciano, lo stridere dell’acciaio, la pioggia, il sole,
le nuvole viste da un grigio edificio dove sconto la mia pena.
Yvonne ha la voce ferma, ruvida, bella.
«Ora sei sveglio. Ora non ci perderemo più.»
Sarah
La sabbia scivola leggera fra le mie dita,
è fresca, lascia una sensazione di asciutto. È bello perché mi fa
venir voglia, qui seduta sulla sabbia, di fare qualche altro passo e toccare il
mare, toccare e sfiorare e basta, perché non so nuotare.
L’umido della riva viene spazzato via dal
freddo improvviso dell’acqua, ma è un freddo che mi regala quiete e che, allo
stesso tempo, mi rende curiosa. Mi chino e metto le mani a coppa, le immergo
nell’acqua limpida leggermente mossa, e la sensazione di asciutto scompare. Il
mare fra le mie mani.
E poi seguo un sentiero che non vedo, che
posso solo immaginare o sentire, e sono i miei passi che si inoltrano
nell’acqua mentre ignoro i brividi
leggeri che mi portano a stringermi da sola in un abbraccio che non può che
essere goffo. Ho la pelle d’oca, ma l’acqua sembra curarla, sembra accogliermi
senza timori anche se non ci siamo mai conosciute. Sospiro. Poi, ancora stretta
nell’incompleto abbraccio di me stessa, mi immergo. L’acqua mi arriva fino al
collo, ora che ho piegato le gambe e, inspiegabilmente, mi sento leggera, come
se potessi volare da un momento all’altro. Volare. Muovo le braccia a disegnare
un semicerchio nell’acqua e mi spingo all’indietro. Volare, mentre stendo le
gambe e dimentico, volare mentre l’acqua mi cura ed io sono qui, a mollo, e non
so se sto nuotando ma è bello. Volare.
Marlene, la moglie di Joseph, aveva trovato il modo di farlo cadendo dal cielo.
Marlene, che non aveva paura di niente. Marlene, la donna bellissima che teneva
in braccio Martin nella foto incorniciata appoggiata al comodino. E Marlene,
che non c’è più come mia madre e mio padre. Come il padre di Martin.
È limpida, l’acqua, e rende più limpidi
anche i pensieri. Riesco a vederlo bene, il dolore; quella letale scheggia
trasparente, cristallo conficcato nel petto. Neve ghiacciata. Forse un giorno
riusciremo a scioglierlo completamente. Un giorno riusciremo a toccare le
ferite e ad ignorare i rilievi della pelle nuova delle ferite guarite.
Lo so, un giorno guariranno.
«Sarah Agnes Pierce, non mi hai aspettato!»
L’acqua, ora tiepida, così piacevole, mi colpisce il viso come la
carezza avventata di un bambino piccolo che non sa cosa voglia dire dolore.
Perché qui c’è gioia, impazienza, la luce delicata del sole delle otto del
mattino. Martin è ora sommerso dall’acqua, con la schiuma come prova del suo
tuffo velocissimo, ed ora riemerge e il suo respiro fa un suono forte, a metà fra
un colpo di tosse e un sospiro.
«Scusa, è che…»
«È che sei impaziente.» Gira la testa a
destra e a sinistra più volte, mi arriva di nuovo un po’ d’acqua e mi allontano
un po’ e sorrido, sorriso anche se l’acqua è troppo limpida per riflettere me.
«Sei impaziente e non hai bisogno di me.»
Non so esattamente che cosa sto facendo,
ma lascio che l’acqua mi culli mentre muovo le braccia in avanti, dall’interno
verso l’esterno, per raggiungerlo. Faccio una smorfia, e la quiete dell’acqua
si trasforma in qualcosa di più deciso, che mi fa sorridere, sorridere, e
sorridere.
«Tu menti, Martin.»
«Sai già nuotare a rana.»
Mi prende la mano e, con lentezza, riesco
a mettere i piedi sulla sabbia e alzo gli occhi verso di lui. Ha la testa china,
a guardarmi, e arrossisco nel tempo minimo di un secondo.
«Ho comprato il costume con Julia.»
«Carino.» Fissa i suoi occhi nei miei e
sorride in quel modo che mi fa vedere rosso dappertutto per quanto sto
arrossendo in questo momento. Lui, con quella sua sfacciataggine nello sguardo
e i capelli bagnati che ora sembrano castani, le goccioline che dalla mascella
squadrata gli scivolano sul collo, sul
petto; mi allontano e gli si vedono le fossette iliache, la pelle con quella
sfumatura dorata. «Il blu ti sta bene. Solo che adesso dobbiamo fare i tuffi.»
Scuoto la testa. «Vuoi dire che tu farai i
tuffi, non io.»
«Sei una noiosa.»
Si lascia sommergere completamente e nuota
sott’acqua, io faccio qualche piccolo passo più avanti, ormai ho la metà dei
capelli bagnata, a pochi metri da me una boa arancione e…
«Oddio!» Sento le sue mani ferme sulle
mie cosce quando mi solleva da sotto l’acqua, ed io mi ritrovo a schiacciargli
la testa per non cadere dalle sue spalle. «Martin, cosa fai? »
«Ora ti faccio fare un tuffo.»
«Ti ho detto che non ne voglio fare.»
«Che c’è, hai paura?»
«Sì!»
«Ma come? » Si mette a ridere. «Dopo tutto
quello che è successo hai paura di un tuffo?»
A più di un metro e ottanta da terra – la
sua altezza – mi sembra di essere capace di poter vedere tutto il mondo ed è
strano, perché dovrei avere paura. Perché una volta, sarei stata terrorizzata
da tutto questo, dalla persona diversa che sto diventando, dall’emozione
folgorante che mi percuote completamente e mi fa scoppiare a ridere.
«Cosa ridi?»
«Fammi fare questo tuffo.»
Si inoltra più avanti per raggiungere
l’acqua più alta ed io, coraggiosa, - quando sono diventata coraggiosa? –
sollevo le mani quasi fossero ali, quasi stessi per spiccare il volo. Quando
sono diventata coraggiosa? Hai salvato Martin. Hai salvato tutti noi.
Ma ho salvato soprattutto me.
Martin conta fino a tre, mi tappo il naso
e cado all’indietro. L’acqua è dappertutto ed io sono nell’acqua, non c’è
differenza perché mi sento libera, pura, coraggiosa. Ho salvato soprattutto me,
perché ho trasformato il sogno in una possibilità, la possibilità nella realtà.
Me stessa in quello che volevo provare ad essere. La solitudine nell’amicizia.
Il dolore nell’amore. La paura nella voglia di vivere.
Perché io voglio farlo, mentre trattengo
il respiro, allontano le mani e apro gli occhi. Guardo questo mare, ignoro il
pizzicore agli occhi, bevo con questo sguardo mantenendo la bocca ben chiusa e
mi perdo in questo mare dal colore del cielo.
Qualcosa mi tira su ed io inspiro aria
come se la stessi risucchiando nei polmoni.
«Com’era?»
Mi sposto i capelli dal viso, poggio le
mani sulle sue spalle, il suo corpo così vicino al mio, le gambe che si
intrecciano, la pelle d’oca che viene anche se non sento più freddo.
«Bellissimo.» Fronte contro fronte. «Lo
rifacciamo?»
In fondo avevo intenzione di farlo dall'inizio, anche se non così presto.
Sorride. Quel sorriso è solo mio. Siamo
due individui a sé stanti e diversi ma ci sono cose, a volte, gesti, sguardi,
parole, che sembrano chiamare a gran voce la persona per cui sono nati. E quel
sorriso è mio.
Avvicino la bocca alla sua e questo bacio
è suo, e sa di sale, labbra umide, cioccolato spalmato su una fetta biscottata,
palazzi grigi in una città grigia in cui camminiamo mano nella mano, le poesie
di Emily Dickinson che recito ad alta voce, la frase finale che lui, con il
libro in mano, finisce per me. Noi che, insieme, finiamo con l’ultima sillaba,
la luce di un sorriso intrappolato negli occhi, le labbra che si muovono
all’insù, la sicurezza di non essere più soli.
***
Dopo una mattinata passata al mare –
tuffi, occhi chiusi sotto il sole tiepido di primavera, “Piccole donne” letto
mentre Martin dormiva – abbiamo passato il pomeriggio a guardare i negozi, il
sapore del gelato alla fragola ancora sulla lingua.
La casa in cui passeremo questi giorni è di Joseph, che è stato tanto gentile da dare il permesso a Martin di portarci qui per la fine dell'estate. Doreen non mi è sembrata esattamente entusiasta, il modo in cui si è passata le mani fra i capelli e ha guardato in basso mi ha fatto intuire una preoccupazione assolutamente legittima, cosa per cui Martin le ha dato un bacio dicendo “Mamma, ti adoro”. Con Joseph c’è stata una stretta di mano ferma, proprio da uomini, mentre io sorridevo e guardavo.
Martin e sua madre si sono trasferiti in un piccolo appartamentino, ma il Venerdì sera mi capita di vedere Joseph che, alle otto in punto, suona il campanello con una bottiglia di vino mentre io aspetto che Martin vada a prendere la sua macchina, comprata usata con il risparmio di tante paghette. Perché Joseph continua a dargliela, la paghetta, anche se Doreen gli ha espressamente chiesto di non farlo più.
Joseph
ora appare sereno, come se si fosse svegliato da un lungo sonno
riposante. Sembra che adesso, dopotutto, lui e Doreen siano liberi
davvero.
Con noi ci sono anche
Cameron e Julia; li vedo da lontano, vicino al molo. Ju indossa un vestito
bianco con i fiori sulla gonna, l’abbiamo comprato insieme; Cameron la
abbraccia con il braccio intorno alla vita di lei. La mia amica sta ridendo, è
un suono graffiato di gola, ma allo stesso tempo dolce, calmo. L’abbraccio si
fa più stretto, la risata si affievolisce e muore sulle labbra, sostituita dal silenzio inatteso di un bacio.
«Ahhh, finalmente. Cameron è sempre stato
troppo lento, in questi casi. Si fa i complessi peggio delle femmine.»
Scuoto la testa e gli do una gomitata.
Martin incassa il colpo con solennità, quasi gli avessi fatto davvero male, e
questo diventa uno dei tanti motivi per ridere senza una vera ragione,
semplicemente perché tutto sembra essere più leggero, più semplice.
«Ma fatti i fatti tuoi,» gli dico.
«Sei la dolcezza.»
«E tu anche.»
«Grazie.»
«Scherzavo.»
«Io no.»
Mi prende la mano e mi tira in modo da
farmi andare letteralmente a sbattere contro il suo petto, mi accarezza i
capelli e il collo con le mani ed io chiudo gli occhi, sto bene, lo stomaco si
ribalta come se fossi salita su una giostra pericolosa ed è bello. Apro di
nuovo gli occhi.
«Eeeehhhiiiii!» Cameron corre verso di
noi, una canotta bianca su cui porta una camicia aperta e Julia, dietro di lui,
lo raggiunge accelerando il passo, i capelli rossi al vento. «Siete scomparsi
per tutto il giorno!» Lo dice nel modo in cui ci si aspetterebbe di sentire
sono davvero contento di vederti, ma Cameron ha un’espressione così raggiante
che mi porta solo a sorridere ancora.
«Scusa eh, vedrò di starti sempre
appiccicato,» ribatte Martin.
Cameron fa segno di no con la mano, come
sconvolto. «Tranquillo, amico… non ce ne’è bisogno.»
«Sarah!» Julia mi raggiunge, posandomi un
bacio sula guancia. Sorride come potrebbe fare il sole. «C’è una festa in
spiaggia, vieni anche tu? Io e Cam ci stiamo andando.»
«Non che sia tanto brava a ballare ma più
tardi ti raggiungo assolutamente.»
Abbassa di poco la voce, che si fa
comunque un po’ strifula, in un modo adorabile, che mi fa tenerezza. «Devo
raccontarti di Cameron…»
«Ju, sono così contenta.»
Annuisce. «Vatti a mettere il vestito che
abbiamo comprato l’altro giorno.»
«Quello viola?»
«No, nero!»
«Ma è corto! Troppo, e l'ho preso solo perché lo davano scontato.»
«Mettilo lo stesso, tanto è estate e ci stai una favola!»
Sbuffo davanti ai consigli di moda
assolutamente dissoluti di Julia, mentre Cameron si avvicina e le prende la
mano, avvicinando la bocca all’orecchio per dirle qualcosa. Il sole sta
tramontando, colora il cielo di rosa e arancione e si immerge nel mare, mentre Cameron
e Julia si allontanano, due macchie sfocate nella luce che si mischia al buio.
***
Martin apre la porta – legno massiccio e
liscio –, c’è silenzio. Le luci arrivano dall’esterno, cerchi di luce che
toccano i muri in trasversale dai fori della tapparella. Valige aperte sul pavimento,
il letto sfatto in cui mi sono risvegliata stamattina, l’armadio con l’anta
aperta da cui vengono fuori delle grucce. È un disordine rassicurante, pregno
degli echi delle nostre risate, Julia che si butta fra le coperte, Martin e
Cameron che corrono nell’altra stanza per aggiudicarsi il letto vicino alla
finestra ed io che mi guardo intorno, sorpresa, incantata. Echi
appena passati che diventano sempre più lievi, sostituiti da questo silenzio
che non è silenzio, perché il cuore batte forte e sento il suo respiro su di
me.
«Sai, Sar,» sussurra. «Tu non sai proprio tutto di me.»
«Sì?»
«Sì. Si tratta di un segreto scottante.»
«Cioè?»
«Non so ballare.»
Sbuffo, rido, sospiro.
«Oh, come farà Martin con una simile
mancanza?»
«Mi sento perso.»
Mi volto verso di lui e gli passo una mano
fra i capelli, lui socchiude gli occhi ed io faccio un respiro profondo. «Se
sai chi sei non ti potrai mai perdere, Martin Scott.»
«È una cosa stranissima perché il mio
cervello sta andando in contro circuito.»
Sorrido. «Non ci credo.»
«Sta andando tutto in cortocircuito.»
«Be’, allora te lo ripeto: sei Martin
Scott, buono e simpatico anche se molto narcisista, tua madre si preoccupa
sempre per te, Cameron è il tuo migliore amico dalle elementari e lo batti
sempre alla playstation, ma lui ha una media scolastica più alta della tua e
quindi siete pari.» Faccio una pausa. Il viso di Martin è attraversato da una
smorfia scettica. «Ho… cercato di sintetizzare.»
Sorride sulle mie labbra.
«Come hai fatto a dimenticare te stessa? »
«Non lo so, credo che sia andato tutto in
cortocircuito anche a me. »
Mi bacia. Qualcosa mi esplode dentro, a
tratti sembra che sia il mio cuore, poi tutti i suoi battiti, strani, tremanti,
che finiscono in ogni parte del mio corpo. Finiscono dove prima c’era
un vuoto, un foro che si apriva verso il buio, la tristezza, l’apatia. Un vuoto
che non viene riempito, ma scompare; si comprime fino a far coincidere tutti i
pezzi che si incastrano, nel meccanismo che è la vita, la mia vita. E allora
Martin mi bacia ed è un bacio caldo, il fiato finisce, il cuore continua a
battere e mi sento sospesa fra me stessa e il mondo, sospesa su una fune a cui
sono appesa – corde invisibili allacciate alle mie spalle – senza più panico.
Perché le corde invisibili non ci sono più, non c’è più niente di invisibile ed
io sono già caduta. Ho ancora i lividi, i ricordi,
ma Martin è con me, Martin è quello che mi ha aiutato a salvarmi e, così, ha
salvato anche se stesso. Cammina all'indietro e si siede sul letto.
Su di lui, i nostri nasi che si sfiorano,
l’aria che ritorna nei polmoni come risucchiata, lo guardo e mi rendo
disperatamente conto di quanto sia bello. Allora lo bacio ancora. Le sue mani
mi accarezzano le braccia, la schiena, scendono sui fianchi e mi portano a
spostarmi, a fargli spazio, ed ora lui è sopra di me. Mi bacia gli occhi –
occhi chiusi, ciglia che tremano – e poi la guancia, di nuovo le labbra, il
mento, il collo, le pelle che la maglietta lascia scoperta.
Torna su, torna da me e avvicino le labbra
alle sue e premo e sento il suo respiro dentro di me e so che non morirò. Ho il
suo respiro e lui ha il mio, avrà tutto il mio fiato. Lo amo. Lo amo mentre mi
accarezza i capelli e la sua bocca scende sul collo e mi solleva le gambe e
sono leggera fra le sue braccia. Lo amo mentre sospira il mio nome a metà
contro la mia bocca, lo amo nel mio silenzio perché non ho più parole. E
nemmeno lui parla più. Mi lascio andare
all’indietro e lui mi segue. Non ho il coraggio di guardarlo negli occhi quando
stringo le dita intorno all’orlo della sua maglietta e gliela sollevo, e lui la lascia
cadere via.
Ti amo sussurro sulle sue labbra. Soffio
il mio ti amo nella sua bocca. Mi bacia, gli mordo le labbra, geme. Mi toglie
via la maglietta come se fosse qualcosa che potrebbe solo farmi del male, tutti i
vestiti sono a terra e tremo e le sue mani accarezzano. Le sue mani scendono.
Perdo il respiro.
Mi aggrappo alle sue spalle e lui mi
guarda negli occhi, nello stesso modo in cui mi ha guardato ogni giorno, un
giorno di cui non ricordo l’inizio, quello in cui ha cominciato ad amarmi. Il
suo nome fra le mie labbra.
È un continuo cercare – la sua pelle
contro la mia pelle – cercare e trovare, cercare e trovare, respiro e senza
respiro, infinito.
Di nuovo la sua bocca sulla mia –
delicata, leggera, il respiro pesante, il mio nome – ti amo – e il mio nome. Il
fiato che si disperde, si spezza, resta immobile ora che lui è dentro di me.
Stringo le gambe attorno alla sua vita, affondo le dita fra i suoi capelli,
spinge. Chiudo gli occhi, un brivido mi attraversa, la sensazione di essere
stretta un po’ dolorante, bella.
«Mi fermo, Sar, se... se tu…» Fermo le sue parole con le labbra. Le mie mani scivolano sulle sue
spalle ampie.
«Va tutto bene.» Affanno, calore
dappertutto. «Va tutto bene.»
Mi bacia sul collo, gli carezzo la
schiena, spinge più forte, gemo. Lascio cadere la testa sul cuscino, la sua
bocca scende a baciarmi il seno, le sue mani stringono le mie. Il respiro di
Martin sulla mia pelle. Martin, che mi ha guardata in quel pomeriggio di
pioggia, su un vecchio autobus. Martin che mi ha parlato. Martin che mi ha
ascoltato, Martin e i suoi biscotti e le interrogazioni di Inglese e i baci che
sapevano di succo all’arancia, il freddo, i piumini, il gelato al cioccolato, il
telefono vecchio, le foto vicino al parco, le risate, i giorni di sole anche
quando il sole non c’è.
Il mio fiato si confonde con il suo.
Il sole che splende ogni volta che mi fa
capire che lui è qui con me, che non sono sola, che posso vivere.
Martin si irrigidisce, spinge ancora, si
accascia su di me ed io tremo nel suo calore, mi abbraccia, abbraccio lui nel
rumore del suo affanno e va tutto bene. Mi bacia, va tutto bene, si mette
accanto a me ed io mi stringo a lui. Il ragazzo del bus, il ragazzo del
cinema, quello che mi ha chiesto se stavo bene, quello che ora è qui.
Lui è il ragazzo che amo ed è qui con me.
Martin
Mi metto seduto, il fruscio del lenzuolo
che mi cade accanto e sfiora il pavimento, mi passo una mano fra i capelli e
poggio i gomiti sulle ginocchia, il marmo freddo contro la pianta del piede.
Sarah sembra più piccola, quando dorme; ha
quel respiro calmo che le fa alzare il petto lentamente, con i capelli
disordinati che le sfiorano le guance. Mi avvicino alla valigia per prendere i
pantaloni del pigiama, me li metto. Sono nuovi, mamma me li avrà comprato
proprio per il viaggio.
Ho sempre cercato di
cambiare tante cose nella mia vita, ma mi sento sicuro di pensare – pensare,
dire ad alta voce – che non voglio che tutto questo cambi. Non mi stancherò di
svegliarmi e sapere che la incontrerò. Cammino per la stanza, sfioro la valigia
di Sarah, sfioro qualcosa. Non mi stancherò di guardarla leggere mentre mi
aspetta seduta su una panchina del parco. Sembra carta, mi chino, lo prendo, è…
il suo taccuino. Non mi stancherò di ascoltarla mentre mi racconta della torta
che ha cucinato con sua nonna, del cane che hanno deciso di adottare, del nuovo
singolo di quel cantante che ora piace anche a me. Non mi stancherò di
prenderla in giro, di farla arrossire, di prendere gomitate nella pancia perché
la faccio arrabbiare. Non mi stancherò di passeggiare abbracciandola di tanto
in tanto, di baciarla, di fare l’amore con lei.
No, di quello non credo che mi stancherò.
Sfoglio il taccuino; mi sono sempre
chiesto che cosa ci scrivesse, qui dentro. Faccio passare le dita sulla
copertina grigia e lo apro nuovamente, sul primo foglio a quadretti ci sono
quelle che sembrano parole… e forse non dovrei leggere.
Parole non collegate fra loro.
Non dovrei proprio.
Parole sconnesse.
Che cosa vorranno dire?
I film degli anni ’50.
Le coperte di lana.
La torta alla crema.
I fiori sulla tovaglia.
Il miele sul pane.
Sfoglio le pagine.
Il sole.
I quadri di Monet.
La creta.
Le poesie di Emily Dickinson.
Tutti i libri che sono stati scritti.
Tutti i libri che verranno scritti ancora.
La musica.
Non capisco, mentre lascio passare tutti
questi fogli pieni di parole, cose, paesaggi, e persone. E poi i miei occhi si
fermano su Julia è viva.
Deglutisco.
E adesso?
«Ehm…»
«L’hai
preso.»
«Sì,
l’ho preso.»
«Perché?»
«Sporgeva
dalla valigia ed è caduto…»
«…
E hai pensato bene di leggerlo. »
Sospiro,
mi passo una mano sulla nuca, poi sulla fronte, su tutto il viso, sospiro. È
proprio da me fare figure di cacca, questa è una delle tante cose che non
cambieranno mai. «Sei arrabbiata?»
«Abbastanza.»
«Scusami.» Le lascio un bacio sulla guancia, poco vicino alle labbra. «Non volevo. »
Vado
a sdraiarmi sul letto, sperando che Sarah si dimentichi presto che mi impiccio
delle sue cose. Affondo il viso nel cuscino.
«Martin?»
«Mhm?»
«Non
sono così arrabbiata.»
Mi
giro sulla schiena, lei è seduta a gambe incrociate, accanto a me, e si rigira
il taccuino tra le mani. Ha acceso la lampada del comodino ed ora si vede molto
meglio che i fogli sono ingialliti.
Mi si sdraia accanto, sospira, si mette
una mano sulla pancia, i pantaloncini corti a lasciare scoperte le gambe
chiare. Mi guarda con quei suoi occhi celesti.
E
allora mi prendo il lusso di essere curioso. Un po’ geloso, forse, perché non
conosco ancora questo lato di lei.
«Perché
hai scritto queste cose?» Intreccio la mano alla sua. «Che vuol dire? »
Si
mette su un fianco, mi si rannicchia contro, la avvolgo, la respiro. Profuma di
camomilla e il cuore le batte contro il mio petto. Mi passa una ciocca di
capelli dietro l’orecchio, guardando fissa davanti a sé. «Mi sono sempre
chiesta… fino a quando resisterò?» Si morde le labbra, esala un altro respiro.
«Fino a quando resisterò a vivere così?» La sua voce si disperde nell’aria.
La
stringo di più a me, e il passato ritorna. Ritorna lei, sola, chiusa in un
bagno, con la paura di fare del male a qualcuno. Ritorna lei, lei che pensava
di essere un errore del mondo. Lei che si chiedeva fin quando avrebbe
resistito.
«No,
Sar…»
«E
allora… allora ho riempito il taccuino di tutte le cose – tutte – anche le cose
più insignificanti, che potessero rendere le cose più sopportabili.» Si stacca
leggermente da me, apre il taccuino e i suoi occhi sono lucidi. Niente lacrime,
solo una sottilissima distesa d’acqua sui suoi occhi azzurri. «Ci sei anche tu.»
«Io?
»
Lei
sorride e mi passa il taccuino.
«Leggi
l’ultima pagina.»
Apro
il taccuino alla pagina che mi ha detto, incerto.
«Ad
alta voce,» aggiunge.
Comincio
a leggere, piano, in modo da capire anche quello che – credo – non capirò.
È
scritto grande, in corsivo, con la sua grafia tonda tremolante e proseguo in questo strano elenco che sembra farsi
sempre più chiaro. «Julia è viva.»
Sarah
fa un sospiro, io tengo gli occhi fissi sul foglio.
«Va’
avanti fino alla fine.»
Un
respiro profondo, parlo come se fossi in apnea.
«
Il ragazzo del cinema.
Il ragazzo che mi parla.
Il ragazzo che mi fa sorridere.
Il ragazzo che mi fa ridere.
Il ragazzo che non ha paura di me. »
Il cuore mi batte nel sorriso, sulle labbra, fra i denti.
Giro
la pagina.
«Il ragazzo che amo.»
Silenzio,
mentre mi prendo il privilegio di posare il taccuino fra di noi e prenderle il
viso fra le mani e baciarla, baciarla forte e mi chiedo fino a quando resisterò
senza respirare. Ma non importa fino a quando perché il confine non esiste
più. Non esisterà più il giorno in cui non saprà cosa scrivere per darsi la
possibilità di vivere, perché ora sta bene. La mia Sar sta bene ed è forte,
anche se ha sempre creduto di essere debole. Nella debolezza ha trovato la
forza. Io sono stato solo quello che l’ha aiutata ad alzarsi – mani strette,
respiri soffocati – ma adesso è capace di proseguire da sola. Anche se ha
scelto di proseguire insieme a me.
«Ci
sei arrivato subito, eh.»
«Sì,
anche se mi piacerebbe veder scritto il mio nome. Ma proprio il mio nome, quel figo di Martin...»
«Sognatelo.»
Rido,
le passo una ciocca dietro l’orecchio, premo le labbra sulla sua fronte.
«Continuerai a scrivere, Sar?»
La
sua voce è chiara, limpida come l’acqua del mare.
«Non ho più bisogno di
rileggere quello che ho scritto, per ricordarlo.» Si rannicchia
meglio fra le
mie braccia ed io penso che amarla è una delle cose che avrei
scritto io, se
avessi mai avuto un taccuino con l’elenco di tutte le cose per
cui vale la pena vivere. Perché Sarah mi rende felice, mi rende migliore. E così io resto sempre me stesso.
*
*
*
*
Ciao, Untiliani! :D Anche questo capitolo è importante, c'è l'incontro fra Joe e Yvonne. Joshua è consapevole di se stesso, sveglio, con la sua voce, i suoi occhi e le sue mani. Stanco e provato. Con sua figlia che gli vuole ancora bene perché sa come sono andate le cose.
E dopo tutto quello che è successo Sarah e Martin... *ammicc ammicc*... *Ania arrossisce*
Be', immagino che forse nessuno ci sperava più :'')
A parte gli scherzi, tengo molto a questa parte della storia: mi è capitato di leggere libri in cui l'amore fisico fra due personaggi veniva buttato lì, giusto perché doveva succedere e non si sapeva proprio quando farlo succedere. Io ho ascoltato la voce di Sarah, ed ho capito che il momento giusto era proprio questo: un momento sereno dopo tutto il dolore e la paura che c'è stata, con l'amore e la consapevolezza di se stessi. Spero che vi sia piaciuto, anche perché è l'ultimo capitolo della storia, adesso manca solo l'epilogo.
Ancora grazie a tutti voi *-*