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Autore: Lechatvert    21/03/2014    1 recensioni
Nel 1500, dopo tre settimane di assedio alla città di Forlì, il Valentino si insedia a Palazzo Numai, ospite del consigliere di Caterina Sforza.
Nello stesso anno, Niccolò Sartori dipinge di verde i cieli della Romagna.
In quel momento, forse, si sentiva un po’ la falena dei racconti di suo padre. Piccolo e impotente dinanzi alle fiamme mentre le grida della guardia cittadina si avvicinavano, eppure così affascinato dalla sua opera da non poterla lasciare.
Continuava a fissare il fuoco a pensare: “
Non smettere, non ancora”. Serrava le palpebre quando gli occhi cominciavano a fare male e subito li riapriva, preoccupato come un bambino dinanzi alla prima nevicata di ottobre, per assicurarsi che nulla fosse cambiato.
Era la sua luce, la sua fiamma, la sua Vittoria che bruciava come la più brillante delle comete.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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polverenera

Polvere nera
Capitolo secondo: luci nel cielo

https://www.youtube.com/watch?v=6Cp6mKbRTQY





Sorella mia,
sai che l’acqua è dolce, ma il sangue è più denso
oh, se il Cielo dovesse mai crollare, per te
non c’è niente che non farei.

Avicii – Hey Brother





Vittoria scese lo scalone centrale del palazzo che il campanile batteva la sesta, avvolta nei più preziosi velluti che il sarto le aveva cucito addosso in un abito color dell’erba.
Capelli castani raccolti sopra il capo da una rete di preziosissime perle, labbra rosse di trucco e un odioso profumo di limone addosso, prese a braccetto prima Giacomo e poi Guglielmo, entrambi in piedi nell’atrio con addosso le loro casacche migliori.
«Buonasera», li salutò, elegante, mentre lo sguardo del maggiore dei due indugiava sul suo corpetto più stretto del solito per mettere in risalto i fianchi magri.
Giacomo scoppiò a ridere.
«Fratello mio, non si fissano così le forme di una signora», lo rimproverò, fingendosi indignato. «Non lo sai che le Scritture puniscono i pensieri impuri?»
Guglielmo lo guardò con un sopracciglio alzato.
«Quanto vino hai tracannato, Giacomo?», commentò, severo.
Vittoria ridacchiò, trascinando entrambi i ragazzi verso l’entrata principale, dove i loro genitori, così come la moglie di Guglielmo, attendevano l’aprirsi delle porte.
Difficile dire chi fosse il più teso.   
Luffo Numai continuava a passarsi la mano sudata tra i capelli scuri, mentre la sua consorte, Caterina, in piedi nonostante la malattia che da mesi la costringeva a letto, non faceva che voltarsi nervosamente verso Giacomo per aggiustargli il colletto della blusa.
Erano tutti in silenzio, tutti in attesa, quasi l’uomo che stava per arrivare fosse il Re di Francia in persona. E un po’ lo era, a sentire i racconti di Guglielmo, che in guerra c’era stato e che le battaglie del Valentino le aveva viste con i suoi occhi.
Vittoria deglutì e il rumore della saliva che le scese in gola le parve rimbombare per tutto il salone, tanto pesante era il silenzio della sua famiglia in attesa.
Poi, senza preavviso alcuno, le porte si aprirono.
Non vi furono applausi, né tantomeno rumorose accoglienze.
Il sussurro di Giacomo fu udito da tutta la sala, da ogni servo, da ogni dama, probabilmente persino da Cesare Borgia stesso, se solo egli non fosse stato impegnato in quell’istante a fare il suo ingresso nell’atrio del palazzo.
Illuminato da chissà quale ordine divino, il più giovane dei fratelli Numai si accostò all’orecchio di Vittoria, spostandole una ciocca di capelli dall’orecchio per poi farsi più vicino.
«Habla, Toro
La sonora sberla che Guglielmo diede sulla nuca del fratello minore coprì per un istante la risatina di Vittoria, la quale si piegò lievemente in avanti per coprirsi la bocca con entrambe le mani.
La ragazza fece appena in tempo ad accostarsi alla tunica scura di Giacomo che questi cadde in avanti, complice il troppo vino, trascinandola con sé verso il pavimento.
Sarebbero di certo finiti a rotolare per terra se non fosse stato per Guglielmo che, con un grosso sospiro, li agguantò entrambi per la collottola e li rimise composti e fermi sui piedi.
«Indisciplinati», commentò poi, dando un sonoro schiocco di lingua. Aprì la bocca per aggiungere qualcos’altro, ma il ciambellano coprì ogni lamentela, annunciando l’illustre ospite a tutti presenti.
«Cesare Borgia, Duca di Valentinois!»
Giacomo ridacchiò.
«Che sciatteria, ridurlo a duca!», commentò, coprendosi la bocca con un gesto elegante della mano.
Vittoria lo prese per le spalle, sporgendosi quel che bastava per lanciare alla sala qualche occhiata indiscreta senza che alcuno notasse la sua indiscrezione. Aveva promesso alle sue dame una descrizione esaustiva del Valentino e non aveva intenzione di tornare nelle sue stanze a mani vuote.
Vide suo padre aprire le braccia in un gesto di benvenuto, mentre con passo deciso si muoveva verso Cesare Borgia e il suo ciambellano come ad elemosinare un abbraccio che non tardò ad arrivare.
«Mio Signore! Benvenuto a Forlì!»
Il Valentino, impettito in una veste scura bordata d’oro in parte nascosta dall’ampio mantello, si scostò appena dal padrone di casa, ringraziandolo con voce calda dell’ospitalità concessagli. Aveva i capelli castani e mossi, lasciati liberi di cadere sinuosi sulle spalle larghe. Gli occhi erano spilli, tanto brillanti da parere ghiaccio. Sotto una barba scura e ben curata, Vittoria scorse un sorriso che, più che di riconoscenza, le parve di mera soddisfazione.
Sentendosi le guance in fiamme, la ragazza spalancò la bocca, tuffando il mento tra i capelli scuri di Giacomo.
«È bello davvero!», sussurrò, attenta a non farsi udire da nessun’altro eccetto suo fratello minore. «Madonna Ricci aveva ragione!»
Il ragazzo alzò le spalle, arricciando il naso.
«A me mette solo inquietudine», rispose.
Guglielmo si piegò in avanti, abbassandosi quel che bastava per raggiungere la loro altezza.
«Silenzio», decretò, portando le mani dietro la schiena. «Prestate attenzione.»
Solo in quell’istante, Vittoria si accorse dell’avvicinarsi di suo padre.
Sgranando gli occhi, si mise ben dritta sulle gambe, gonfiando un poco il petto e assicurandosi che ogni piega dell’abito fosse al punto giusto.
Di fianco a lei, Giacomo commentò quel gran da fare con una risatina nervosa.
Luffo Numai passò loro accanto, fermandosi per fare le presentazioni del caso.
«Duca, i miei due figli più giovani: Giacomo Alessandro e Vittoria.»
Giacomo portò le mani alla veste, tirandola come a voler ampliare la gonna di un vestito da signora.
«Énchanté!», esclamò, scatenando le risatine soffuse della servitù.
L’unica cosa che lo salvò dal ricevere una seconda sberla fu Vittoria, che gli si mise davanti troppo velocemente, togliendo a Guglielmo l’opportunità di agire.
«Incantata», disse, lanciando un’occhiata preoccupata al fratello maggiore prima di rivolgersi al Valentino. «Davvero.»
L’uomo rimase fermo un istante a guardarla, schiudendo appena le labbra sottili come a voler commentare quella scena, ma subito si bloccò. Piegò il capo di lato, affilando lo sguardo di ghiaccio in un’espressione che Vittoria non seppe interpretare. Poi, richiamato alla realtà da chissà quale pensiero, prese la mano della ragazza nella sua e la portò alle labbra, lasciandole sul dorso un bacio freddo come il suo sorriso.
«Messer Numai», disse, senza staccare gli occhi dal viso di Vittoria che ancora proteggeva Giacomo dietro le sue spalle esili. «Avete una famiglia deliziosa.»
Si voltò di scatto con uno sbuffo, seguendo il padrone di casa verso la sala da pranzo, e fu allora che Guglielmo prese entrambi i suoi fratelli per le orecchie, portandoseli dinanzi quasi fossero più leggeri di un pugno di piume.
«Volete morire stanotte», soffiò, tanto minaccioso che quella domanda suonò come un’affermazione vera e propria.
Vittoria deglutì, mentre Giacomo si lisciava con noncuranza la veste.
«Borgia permettendo, sì grazie», ribatté, offeso.
L’espressione di Guglielmo si fece ancora più dura.
«Non sapete con chi avete a che fare», disse, stretto tra i denti. «Ho visto quell’uomo uccidere per molto meno della tua ridicola uscita, Giacomo. Un’altra trovata del genere e ti ritroverai appeso a testa in giù sul Montone.»
Vittoria roteò gli occhi.
«Guglielmo, lascialo in pace», borbottò, portando le mani ai fianchi. «Questa è casa nostra e ci comportiamo come ci pare e piace!»
Il maggiore dei Numai scosse il capo.
«No, Vittoria», rispose, sottovoce. «Questa adesso è casa del Valentino e lo resterà fino a che non avrà altre anime da torturare.»
Scambiò con i suoi fratelli un altro paio di occhiate, dopodiché si allontanò di gran carriera, facendo stridere gli stivali sul pavimento di marmo lucido.
Vittoria rimase immobile a guardarlo andare via, senza aver la forza di fermarlo. Accanto a sé udì Giacomo tirare su col naso.
«Olé!», commentò il ragazzo, alzando le braccia sopra il capo come a imitare i cantori spagnoli che di tanto in tanto giungevano alla Rocca.
Vittoria inarcò un sopracciglio.
«Ottima interpretazione», commentò, sarcastica.
Giacomo le strizzò l’occhio.
«Quando il pubblico vale, l’attore dà il meglio di sé.»






La notte era fredda, gelida e infima, così come l’aria che saliva dalla palude a intorpidirgli persino le ossa con la sua odiosa umidità.
Appoggiato a una delle colonne del cortile interno, Niccolò sbadigliò, portandosi con stanchezza una mano alla fronte.
«Hai una brutta cera, bombarolo», esordì la voce di Margherita, una delle giovani dame di Madonna Vittoria, in piedi accanto a lui tra l’erba secca. «Stai bene?»
Niccolò alzò le spalle.
«Provate a fare l’artigliere in una stramaledetta città che ha acqua persino nell’aria», rispose, sarcastico. «Dannazione, con questa umidità non prenderebbe fuoco neanche una biblioteca!»
«Poche storie, Sartori!», lo riprese Luffo Numai, in piedi sotto il colonnato assieme ai suoi illustri ospiti. «Da sette anni venite a deliziarci con i vostri fuochi e da sette anni vi lamentate dell’umidità di Forlì!»
Niccolò sorrise sghembo, portandosi al centro della corte interna, accanto a un albero di limoni rinsecchito che pareva a un passo dallo spezzarsi sotto i soffi del vento notturno.
«Mi han fatto nascere artigliere in questo luogo», ribatté, mentre uno dei servi si avvicinava per passargli una torcia ardente. «Ma di padre son veneziano: devo pur lamentarmi di qualcosa, no?»
Si inchinò appena, ignorando con vigore un giramento di capo che lo colse alla sprovvista. Decisamente, quella sera non si sentiva in gran forma. Sentiva le dita intorpidite, il capo leggero, assente, la vista offuscata.
Con noncuranza, diede fuoco ai primi tre sacchi di polvere, mettendosi ben al riparo quando questi vennero sparati verso il cielo, dove esplosero con i colori della bandiera forlivese.
Qualche applauso si levò dalla piccola folla di presenti, mentre Niccolò si riportava al centro del cortile.
«Messeri e Madonne», esordì, gonfiando il petto con quel poco fiato che la fiacchezza gli aveva lasciato. «Cari amici, amiche.» Fece una pausa, portando lo sguardo su quello che un servo gli aveva indicato essere Cesare Borgia. «Duchi», aggiunse, affabile. «Vi avevo promesso uno spettacolo al di sopra di ogni aspettativa, un’esibizione in cui il cielo non sarebbe rimasto scuro neanche per un istante.»
Si voltò per dare fuoco a un sacco posizionato accanto alla vasca di raccolta dell’acqua piovana. Proprio mentre si stava allontanando di qualche passo, una fiamma bianca schizzò verso l’alto, disperdendosi nel cielo notturno prima di ricadere a terra sotto forma di tante piccole spirali di scintille gialle e verdi.
Dal colonnato, la folla applaudì, stavolta sbilanciandosi in qualche commento vivace.
Niccolò sorrise.
«Tuttavia», riprese, fingendosi pensieroso. «Quando il mio buon amico Luffo mi ha confidato chi sarebbe stato l’ospite d’onore, mi sono a lungo interrogato sulla buona riuscita o meno di questo mio esperimento.»
Fece cenno ai servitori ai lati delle colonne di accendere le micce che aveva posizionato attorno al cortile e, in una manciata di secondi, una dozzina di razzi partì verso la volta celeste, schiudendosi infine in dodici bellissimi fiori di fuoco, ciascuno di colore diverso, che ricaddero con eleganza al suolo appassendo in piccoli fili dorati.
Giacomo Numai emise un piccolo strillo, prendendo a fischiare e ad applaudire con il brio che solo lui, in quella corte, possedeva.
«Ma non era ancora abbastanza», continuò pensieroso Niccolò, avvicinandosi di un altro passo al colonnato sotto il quale il Valentino osservava lo spettacolo. «Voglio dire: come impressionare chi ha addirittura combattuto una guerra? Non di certo con simili sciocchezze!»
Una fiamma color dell’alba s’innalzò nel cielo partendo dalla vasca, cogliendo tutti gli ospiti di sorpresa e facendo muovere loro un passo indietro.
Mentre le scintille rosate dell’esplosione ricadevano a terra, Niccolò si avvicinò ulteriormente a Cesare Borgia.
Represse un lieve conato di vomito, obbligandosi a concentrarsi sullo spettacolo.
«Ci sono! Quale più lieta idea per festeggiare il nostro ospite, se non utilizzare il mezzo stesso con cui egli è stato portato alla vittoria?»
Piegando appena il lato, allungò la mano verso la spada che il Valentino portava legata al fianco, sorridendo affabile al pubblico.
In un attimo, le guardie mossero un passo su di lui per bloccarlo, ma Cesare Borgia le fermò con un cenno del capo, ricambiando con freddezza il sorriso di Niccolò.
«Che faccia», disse, sguainando la spada e porgendogliela con garbo.
Niccolò afferrò l’arma, voltandosi verso la corte con una piroetta. Portò la mano libera in alto, facendo cenno ai servitori di dare fuoco agli ultimi sacchi di polvere accatastati nel cortile.
Con un fischio acuto della polvere che veniva lanciata verso l’alto, il cielo si tinse di un giallo intenso, brillante, che rimase a illuminare la corte più a lungo dei fuochi precedenti.
Poi, mentre il pubblico riprendeva il fiato tolto da quell’esplosione di luce,  un altro razzo partì in ritardo, scoppiando in verde erba che andò a sovrapporsi parzialmente al giallo già presente.
Niccolò annuì, contento della sua opera, dopodiché aprì la sacca che portava legata al fianco e ne estrasse una crema scura che passò su tutta la lama della spada. Passò poi l’arma su una fiaccola accesa e la guardò prendere fuoco, sempre più soddisfatto mentre i colori in cielo continuavano a brillare.
«Gloria ai Borgia!», gridò, prima di agguantare la borraccia che aveva preparato accanto a una delle colonne e prese un sorso della mistura che aveva creato qualche giorno prima in laboratorio.
Senza indugio, portò la spada in fiamme sopra il suo capo.
Riempì i polmoni con un grosso respiro e soffiò tutta l’aria che aveva in corpo sulla fiamma, la quale s’ingrossò fino a raggiungere il cielo e si tinse del colore vivo del sangue.
Quando Niccolò abbassò l’arma per piantarla a terra e spengere così il fuoco che la bruciava, il cielo era tinto dei colori dello stemma dei Borgia.
Il giallo della bandiera, il verde dell’erba, il rosso del toro.
Il pubblico scoppiò in un applauso entusiasta e, mentre le prime scintille cadevano sul cortile, Niccolò fece un grande inchino, soddisfatto di sé e della riuscita dello spettacolo al quale aveva lavorato per notti intere.
Ignorando i giramenti di capo che ancora continuavano a tormentarlo, riprese in mano la spada, facendola ruotare un po’ prima di riconsegnarla a lama bassa al suo legittimo proprietario.
«Gloria ai Borgia», ripeté, scambiando con il Valentino una lunga occhiata.
Lui smise di applaudire per riappropriarsi della sua arma.
«Siete abile», gli disse.
Niccolò barcollò un po’, rimettendosi composto per inchinarsi ulteriormente.
«Agli uomini di guerra l’onore delle armi, a noi artisti il diletto dei colori», rispose, divertito.
Fu nell’alzarsi che perse ogni controllo di sé.
A causa di un capogiro, si sbilanciò all’indietro, ma le gambe non furono in grado di muoversi, il bacino non riuscì a riportarlo dritto.
Sentì le voci che lo circondavano farsi più acute, un paio di servi accorrere per soccorrerlo, poi più niente.
Luci e ombre si mischiarono inesorabilmente nel vuoto, forme e colori persero ogni significato, d’un tratto non vi fu nemmeno il fischio del vento a ronzargli nelle orecchie.
Niccolò tentò di allungare una mano verso l’alto, ma sentì gli arti pesanti e immobili.
Aprì la bocca per gridare; non uscì che un rantolo.
Poi, il nero lo avvolse.


Note d'autore


Buonasera, madonne e messeri!
Come state? Io alquanto indolenzita dopo i festeggiamenti di laurea (quella di un'amica, la mia ancora è ben visibile con il cannocchiale!) ma ottimista in vista di un weekend tra le coperte e dormire *-*

Non so bene cosa inserire in queste note, perché avevo programmato di spiegare la faccenda dei tritoni velenosi ma preferisco rimandarla al prossimo capitolo. Avevo pensato allora a qualche composizione del colore dei fuochi artificiali, ma anche questo avrà una larga spiegazione più avanti quindi per ora mi chiudo nel silenzio stampa.

Confesso invece di aver "citato" il Quartetto Cetra (<3) in quell'Habla Toro (per chi non mastica lo spagnolo: Parla, Toro!) nella loro divertentissima interpretazione de "Il testamento del Toro". Ebbene sì, anche l'Olé di Giacomo arriva da lì.

Vi lascio ora con un video sui combattimenti con le spade infuocate (a cui tra l'altro ho rubato la "ricetta" per infiammare la lama). Prometto che passerò a spiegare anche la composizione di ogni razzo, ma non ora. Per questo capitolo ancora, vi chiedo di pazientare :)

Dal prossimo in poi, ogni elemento troverà il suo posto nella storia e scopriremo di più sul passato di Niccolò, che a quanto pare si è liberato all'idea coccolosa che avevo di lui nella mia testa per costruirsi un background più scanzonato. Ma vabbé, da quand'è che gli autori hanno potere sui personaggi?

Colgo l'occasione per ringraziare ulteriormente i lettori, silenziosi e non, quelli che spammano la storia alla zia (ma, perché no, anche allo zio!), quelli che mi mandano messaggi inquietanti al limite dell'euforia (Sì, Coco, sto parlando a te.), e quelli che invece ci sono e basta.



Tanti abbracci,

    Lechatvert


   
 
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