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Autore: ChibyLilla    23/03/2014    2 recensioni
Mickey è un aspirante medico, Ian un ragazzo che apparentemente si fa male troppo spesso.
“Sono la tua prima volta?” domandò il più piccolo, fingendo stupore. “Mi sento onorato!”
Mickey avrebbe voluto rispondergli a tono. Magari evitando di essere sgarbato, poiché era pur sempre di fronte al proprio responsabile, ma avrebbe voluto davvero trovare una risposta adatta a fargli capire quale era il suo posto.
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Mickey Milkovich
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
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Meglio tardi che mai!
Per prima cosa vi chiedo scusa per il ritardo nell'aggiornamento, ma... stuff's going on, ecco.

E poi, in genere non mi piacciono gli OC. Mi stanno proprio antipatici, perchè i telefilm/film/libri/qualsiasi altra cosa, sono pieni di personaggi e proprio non serve crearne di nuovi.
Però mi sono incartata da sola. 

Ricordate il John dello scorso episodio? Eccolo di nuovo qui. Pensavo, forse ad una piccola parte per lui. Non ho ancora deciso nulla, ma, in caso, vi piacerebbe? Ditemi un po' che idea vi siete fatti di lui (dopo aver letto il capitolo, ovviamente!), io intanto ci penso bene...

Mi dispiace

John Young non era una persona cattiva.

Non c’era dubbio che il suo rapporto con la maggior parte dei colleghi non fosse dei migliori, ma questo dipendeva soprattutto dall’aver avuto dei cattivi genitori.

Non si era mai trovato a dover subire le conseguenze delle proprie azioni e per questo non si era mai preoccupato per davvero dei danni che le sue azioni causavano in giro. Era un amante delle provocazioni, gli piaceva vedere fino a che punto poteva spingersi, prima che gli altri reagissero.

Ma non era una persona completamente senza cuore.

Per puro caso John aveva ascoltato una conversazione privata di un suo collega il giorno prima. Aveva distrattamente sentito Mickey parlare con la segreteria telefonica, imprecando contro il ragazzo dai capelli rossi che apparentemente era sparito senza lasciare nessuna traccia, lasciando Mickey a logorarsi tra mille preoccupazioni.

E poi eccolo arrivare in ospedale, una mano premuta contro il viso ed un rivolo di sangue che colava attraverso le sue dita.

John gli mise una mano sulla spalla, guidandolo verso una stanza a caso ed invitando l’infermiera Claire a seguirli. Strinse la presa su Ian, mentre ispezionava i suoi occhi gonfi ed arrossati. “Chiama Mickey,” disse con un sussurro, rivolto all’infermiera, poi fece stendere Ian, costringendolo a togliere la mano dalla faccia.

Non ebbe neppure bisogno di pulirgli il viso per capire da dove provenisse tutto quel sangue, il suo labbro superiore era praticamente spaccato in due. John represse una smorfia di disgusto, mentre continuava a chiedersi come avesse fatto Ian ad arrivare lì da solo e come mai non fosse ancora svenuto.

Seguì le procedure standard, tamponando l’emorragia e prendendogli una vena. Gli infilò una cannula nel naso, per assicurarsi che non avesse crisi respiratorie e lo anestetizzò.

“Hai un dente rotto,” gli fece notare John, controllandogli la bocca con le mani guantate e Ian abbozzò una smorfia, col viso quasi completamente addormentato.

John distolse lo sguardo da quello sofferente di Ian appena in tempo per osservare l’entrata trionfale di Mickey che apparentemente non aveva alcuna voglia di essere lì ed ancor meno di trovare le mani di John a trafficare sul viso del rosso.

“Ti ho fatto chiamare io,” gli disse, tenendolo sempre sotto controllo con la coda dell’occhio, “Pensavo volessi sapere che era qui.”

Mickey si morse l’interno della guancia, provando a convincere se stesso a tenere la bocca chiusa. “Ian, che cavolo! È tutto il giorno che provo a chiamarti!” sapeva che avrebbe fatto meglio a star zitto, viste le circostanze, ma era arrabbiato. Furioso, per essere precisi.

Ian aveva preso le sue cose e se ne era andato da casa di Mickey senza dire una parola, non gli aveva risposto per tutto il giorno, lasciandolo marcire tra i sensi di colpa, per averlo aggredito per qualcosa che Mickey a stento ricordava.

Parlavano del processo contro suo padre, qualche frase detta a sproposito ed Ian aveva ingigantito le cose come suo solito. A volte Mickey dimenticava di avere a che fare con un ragazzo di diciassette anni.

 

“Smettila di fare il bambino, cazzo!”

“Hai rotto, Mickey. Non sei mio padre.”

“Ah beh, questo è un bene per te! Che non ci sia tuo padre qui, adesso.”

“Perché? Se ci fosse stato noi avresti potuto fartelo mette-”

“Non finire quella frase!”

 

Ian provò ad articolare qualche parola, ma nessuno riuscì a capire cosa volesse dire. John lanciò un’occhiataccia al collega, “Dico, lo vedi che sto facendo? Non farlo muovere!”

Mickey sbuffò rassegnato e fece per andarsene. Era a due passi dalla porta quando delle lamentele, stavolta più forti, lo costrinsero a fermarsi.

John si era allontanato da Ian, un sopracciglio aggrottato rivolto a Mickey ed il rosso aveva iniziato a dimenarsi. Aveva la bocca piena di sangue e stava cercando di strapparsi l’ago dal braccio. Perché doveva essere sempre così melodrammatico?

“Ian, calmati, dai. Lasciami finire un attimo, almeno.”

Mickey non riuscì a trattenere una risata nevrotica di fronte al commento inappropriato del collega. Tra tutti i medici di quell’ospedale, non poteva certo non capitargli di fronte Mister Simpatia. Era evidente che in un’atra vita Mickey aveva commesso qualche peccato imperdonabile, quella era l’unica spiegazione alla sua sconfinata sfortuna.

Sbuffò per l’ennesima volta, sforzandosi senza successo di non sembrare troppo duro, “Non sono arrabbiato,” disse, avvicinandosi ad Ian e mettendogli una mano sulla fronte, per bloccargli la testa.

Aspettò che John finisse quello che aveva cominciato, sentendo gli occhi pieni di lacrime di Ian sul suo viso, ma preferì alzare lo sguardo, improvvisamente attratto da una crepa nel muro.

Ian se ne era andato e lui non riusciva a capacitarsene; lo aveva lasciato sveglio tutta la notte, a chiedersi che cosa gli fosse successo, senza degnarsi di rispondere a telefono.

 

“Smettila di fare lo stupido e rifletti. Non puoi andartene così.”

“Sei tu che non mi vuoi.”

 “Esci da quella porta ed è meglio se non ti fai più vivo.”

“Tranquillo, non ho nessuna intenzione di tornare.”

“Ah si? E dove hai intenzione di andare, Ian?”

Silenzio.

 

Ma forse avrebbe potuto aspettare qualche altro minuto per farglielo notare. Restò fermo nella stessa posizione, teso, perché ogni fibra del suo corpo gli urlava di allontanarsi, mentre il buon senso gli diceva di aspettare ancora un po’.

“Finito!”

Appena John si scostò da Ian, Mickey retrasse la mano, come se improvvisamente il rosso fosse diventato troppo caldo per essere toccato e si avviò alla porta, per la seconda volta nel giro di cinque minuti. E per la seconda volta, Ian rischiò di buttarsi giù da quel dannato lettino per fermarlo.

John si avvicinò a Mickey, mettendogli una mano sulla spalla, “Penso che abbiate qualcosa da risolvere voi due,” gli disse a pochi centimetri dal viso e lasciò la stanza prima di lui, chiudendo la porta alle proprie spalle. Mickey a quel punto si aspettava quasi che John lo chiudesse in camera con Ian e gettasse via la chiave.

Grugnì alla porta chiusa ed incrociò le braccia al petto, voltandosi verso Ian, senza però guardarlo.

“Mi dispiace.”

Mickey ci mise un po’ a decifrare quello che Ian aveva detto, sia perché il rosso aveva ancora difficoltà a muovere le labbra, sia perché aveva appena soffiato fuori quella piccola frase. E forse Mickey si era talmente tanto convinto di essere il colpevole della situazione, che tutto si aspettava tranne che delle scuse. Lo aveva cacciato via lui, dopo tutto. Ed Ian era più fragile di quanto volesse dar a vedere.

“Lascia perdere,” si arrese il moro, quando posò finalmente gli occhi su Ian e lo trovò ad incespicare con la propria lingua per riuscire a parlare. “Per una volta, chiudi quella bocca ed ascolta.”

Ian serrò i denti, gli occhi pieni di lacrime.

“Puoi restare da me tutto il tempo che vuoi, ma ci sono delle regole. Non puoi sbattere la porta e sparire, non fino a quando tuo fratello pensa che io mi stia occupando di te.”

Qualcosa di vagamente simile ad un “Non sono un bambino.” Era quello il genere di risposta che Mickey si sarebbe aspettato; Ian invece annuì soltanto, giocherellando con l’orlo delle lenzuola, stavolta era lui a non poter reggere lo sguardo dell’altro.

Dopo una manciata di minuti di imbarazzante silenzio, Mickey si avvicinò di nuovo a Ian, lasciandosi cadere sul bordo del lettino. “Ti si è gonfiata la faccia.”

“Non voglio andare al processo.”

“Ed io non voglio ricominciare.”

 

“Non puoi restare qui per sempre, Ian. Prima o poi dovrai tornare dalla tua famiglia e l’unico modo che hai per farlo è chiudere questa cosa con tuo padre.”

“Che significa? Non posso restare qui?”

“Non sto dicendo questo.” Mickey si passò nervosamente una mano tra i capelli. “Dico solo, cazzo Ian! Vuoi davvero vivere così?”

“Pensavo ti piacesse così.”

“Non cambiare argomento. Tu stai scappando.”

“Tu non hai capito niente.”

 

“Non ci voglio andare perché ho paura.”

  
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