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Autore: Rorosysy    24/03/2014    1 recensioni
"Era i miei stessi occhi. Ciò che lui vedeva, lo vedevo anch’io. Il giorno in cui la sua vista si fosse oscurata, anche la mia si sarebbe smarrita.
Lo sapevo da sempre. Era stato così sin dal principio. Non avrei dovuto sorprendermi. Suonava ridicolo rendersene ora conto. Ormai era tardi, non era più una mia scelta.
Adesso, non era più DAVVERO una mia scelta.
I suoi occhi blu erano svaniti e al suo posto mi fissavano due pupille nere, nerissime, scure come la brace.
Ero bloccata al posto di guida dell’auto di mia sorella, una Seat Ibiza rosso acceso e ignoravo come ci fossi finita.
Era una gelida sera d’inverno. Per la precisione, era il 12 dicembre 2011 e il sole mi aveva abbandonato già da più di un’ora, qui in alto al mondo, tra la Valle dell’Inferno e la Sorgente delle Donne.
Nella mia mente c’era soltanto il desiderio disperato di fingere di non capire, che con i suoi modi calmi e il sorriso attraente, fosse deciso a darmi ciò che avevo accanitamente cercato negli ultimi tre anni: la mia morte", dal primo capitolo.
Genere: Drammatico, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Altro giorno. Altra notte passata in bianco. Altra mattina trascorsa ad aspettarlo. Iniziavo a stancarmi.
Non si erano arrabbiate. Erano state tentate più volte di avvertire i carabinieri della mia “fuga”, ma per fortuna resistettero all’impulso; e per fortuna, ero stata via soltanto due ore altrimenti, ancora qualche altro minuto, e penso che avrebbero ceduto.
Avevamo fatto un patto: non sarei più sgattaiolata via e loro mi avrebbero permesso d’andare dove volessi, a condizione che riferissi sempre, senza mai mentire, dove mi recavo. Una parte di me lo trovava inaccettabile, neppure proponibile. Perché mai la mia libertà sarebbe dovuta sottostare a quel compromesso? Cos’avevo tredici anni? Ma decisi di mostrarmi tollerante, prima che mi sguinzagliassero dietro una guardia del corpo, o peggio. Da loro ormai potevo aspettarmi di tutto.
 
Al ritorno dalla mia fuga nell’infinito, Giorgia mi regalò la cartina del padre.
 
«Non posso accettarla», avevo replicato. 
«Hai ragione tu, l’avrei gettata via», aveva affermato. «Mio padre l’ha disegnata per essere utilizzata non conservata. A te servirà più che a me, dato che non resisti a far l’escursionista in solitudine!».
«Ma è il tuo portafortuna!».
«Mi ha già donato tutta la fortuna che mi occorreva per superare i miei ostacoli. Ora posso farne a meno, perché so come impedirgli di fermarmi. Ora spero che aiuti te».
«Se lo fai perché pensi che mi commuoverai abbastanza da perdonarti, t’illudi soltanto! Io non voglio più che tu mi faccia da psicologa. Non voglio neanche più vederti».
La mia freddezza aveva disorientato persino me.
«Non sarà necessario», aveva risposto con calma.
Se l’avevo ferita, era riuscita a nasconderlo bene.
«Questa cartina ti suggerirà i miei consigli, come fossi io a parlare, come mio padre ha fatto con me in tutti questi anni … ».
La lasciò sul tavolo della cucina accanto al cesto della frutta. Non volle riprendersela, ormai aveva deciso, sostenne, e non tornava mai sui suoi passi. 
«Io non ho avuto il coraggio di buttarla», aveva sussurrato infine. «Ma adesso è tua. Se tu al contrario mio ne possiedi, allora gettala. Adesso è tua e sei tu a decidere cosa farne».
L’avevo afferrata e, ancor più infastidita per quel suo gesto di stima nei miei confronti, che quasi mi faceva passare per la cattiva della situazione, come se fossi stata io in torto, l’avevo accartocciata e gettata nel cestino, mentre mamma era alla porta a salutarla. Poi avevo sospirato, l’avevo raccolta e dispiegata. Quel tipo di coraggio, a quanto pareva, mancava anche in me.
 
Mi alzai dal letto e mi recai in bagno. Meccanicamente, senza quasi rendermi conto dei miei gesti, mi spogliai e m’infilai sotto la doccia. Sapevo che mi lavavo ogni mattina, ma lo sapevo solo teoricamente. Non lo ricordavo. Non ricordavo neppure d’esserne uscita e mi sorpresi di vedermi già asciutta e vestita. Il profumo del doccia schiuma, che evaporava nell’aria, era la prova tangibile che mi fossi appena lavata, malgrado la mia labile memoria.
Lo specchio sopra al lavandino era appannato, altra prova. Gli strofinai un asciugamano e a poco a poco riapparve il mio viso. Rimasi disorientata a osservarlo. Era come se non lo incontrassi da secoli e forse era proprio così. Da quanto non mi specchiavo?
Passai una mano tra i capelli, erano tutti aggrovigliati. Cominciai a spazzolarli. Mi ci volle un bel po’ per farli ritornare lisci. Erano cresciuti, mi arrivavano a metà della schiena. Andai in camera e indossai una maglia viola aderente, che in realtà non mi stava per nulla aderente. Ero dimagrita?
Tornai allo specchio. Quasi non mi riconoscevo. Ero così pallida e poi che occhiaie! C’erano due solchi profondi e violacei, proprio lì, attorno a quegli occhi spenti. Mi facevano sembrare uno zombi. Già, infatti avevo già considerato d’esserlo diventata!
Mi sciacquai il volto. Dalla mensola di fronte presi una cesta con dei cosmetici. Mamma non li usava mai. Era sempre stata un tipo acqua e sapone, ma proprio letteralmente! A volte si concedeva appena un po’ di fard e mai di più.
Erano impolverati. Soffiai sulla scatoletta della cipria, prima d’aprirla e passarla sul mio viso, poi fu il turno del contorno occhi, una sottile linea di matita nera sotto le ciglia e del verde sfumato con del bianco sulle palpebre. Le sbattei atteggiandomi a modella. Quasi mi divertivo a vedermi riflessa da diverse angolazioni. Sentii una risata e quando mi accorsi che fosse la mia, scoppiai a ridere con più gusto.
Toccava ora al mascara e per concludere il lucidalabbra. Feci schioccare le labbra e fu come il richiamo a un numero del prestigiatore. Come quando ordina a qualcuno che poco prima aveva  fatto sparire, di riapparire sotto gli occhi stupefatti del pubblico. Quest’ultimo sapeva benissimo che si trattava di un trucco, ma si meravigliava ugualmente. Ecco, allo stesso modo apparve alle mie spalle!
Sapevo che non fosse reale, come per Occhi Blu, ciononostante non potei fare a meno di trattenere il respiro. Mi sfiorò la guancia, mentre ci guardavamo attraverso lo specchio e su di essa descrisse un cerchio con le dita. Le allontanò senza preavviso per mettersi a giocare con i miei capelli. Ne impugnò una ciocca, poi la lasciò scivolare, come fosse sabbia.
Tornò sulla guancia, vi si fermò con il palmo, lo strisciò sulla pelle. Quel contatto, che avrebbe dovuto essere allucinazione, la infiammò e non per finta! Scese giù per il collo e poi di nuovo su, sino a soffermarsi con l’indice sulle labbra.
Accostò la sua testa alla mia, di lato, guardandomi dallo specchio. I nostri occhi si riflettevano insieme, di nuovo insieme. I miei occhi verdi però non erano felici, erano malinconici, e i suoi blu, d’un tratto, svanirono.
Ansimavo senza controllo. Mi voltai, ma ero sola. Ritornai alla mia immagine. Non c’era più nessun altro che si rifletteva con lei. Aprii il rubinetto e mi risciacquai la faccia, in fretta, con impazienza, quasi con violenza. Afferrai un elastico e mi legai i capelli. Mi tolsi la maglietta viola, in favore di una felpa avana e decisamente enorme per il mio petto.
Scesi in cucina. Mamma aveva preparato la colazione. Mi sforzai di bere di latte caldo, poi la salutai indossando una giacca di lana lunga fino alle ginocchia e un cappello fatto a mano, sempre di lana, color miele.
«Dove vai?», domandò affettuosamente, ma con una punta d’ansia nella voce.
«Non darti pena mentre sto via. Ho intenzione di tornare con tutti i miei organi funzionanti», scherzai.
Sembrò sollevarsi dalla mia ironia. Mi fece comunque promettere di tornare prima di pranzo. Sì, era proprio un ritorno al periodo adolescenziale! Chiudendomi la porta alle spalle, la vidi correre al telefono, anche se non aveva squillato. Avrebbe informato Giorgia anche di questo?
 
Il giorno precedente avevamo concordato d’incontrarci alle porte di Alfedena.
Passeggiando mano nella mano, senza fretta, raggiungemmo la Sorgente Sambuco che il sole era quasi dritto sopra le nostre teste. Mi ero portata con me la cartina del padre di Giorgia, ma non servì. Stefano sapeva muoversi fra sassi e radici anche meglio della mia ex psicologa, come se fosse nato e cresciuto nella Valle dell’Inferno, che poi era proprio così. Non mi aveva forse detto di abitare al di là di Lago Vivo, nella Valle Cupella?
«Ti porto da un’altra parte, ti va?».
Mi andava.
Percorremmo altri cinquanta metri poi svoltò a sinistra, tra i faggi, dove non c’era nessun sentiero. Mi arrestai.
«Fidati», disse riprendendomi per mano. «Non ci perderemo e ti piacerà».
«Ma Gior … Mi hanno detto che non è prudente abbandonare un sentiero tracciato», stavo per nominarla, ma non mi andava di tirarla in causa. Sarebbe stato come approvare tutti i suoi insegnamenti non richiesti sull’escursionismo. «Non c’è un sentiero che porta dove mi vuoi portare?».
«Sì, c’è, ma questa è una scorciatoia», rispose e vedendomi ancora diffidente aggiunse. «Chi ti ha detto che non è prudente, aveva ragione, perché non bisogna mai avventurarsi al di là dei percorsi già tracciati. E tu non lo devi mai fare, per nessun motivo, specie se da sola! Ma ci sono sempre le eccezioni. Ti mostro il luogo in cui la mia esistenza è mutata per sempre, perciò non posso sbagliarmi».
Stavo per chiedergli di più, ma aggiunse in fretta: «Non voglio mentirti, perciò non domandarmi niente. Vedrai da te».
Contro ogni prudenza accettai e mi lasciai guidare tra i faggi e gli aceri, abbandonando alle nostre spalle il K5. Stefano aveva qualcosa d’irresistibile. Qualcosa che non si poteva rifiutare.
Ci facemmo strada in mezzo alla Valle dell’Inferno e mi resi conto che stavamo scendendo di quota. Al nostro fianco sinistro s’innalzava la vetta del Monte Serrone. Mi spiegò, che da qualche parte accanto a noi, la faggeta veniva percorsa dai segnavia del K4, che aggirava le pendici boscose del monte, invece noi le stavamo tagliando al centro.
Nonostante la mia scarsa abilità nello scalare, riuscii a non scivolare neppure una volta. La mano di Stefano mi guidava e avevo la sensazione di poter fare qualsiasi cosa accanto a lui. Non avevo paura. Non ero stanca. Era come se anche per me non fosse la prima volta che mi aggirassi in quell’ombrosa faggeta dai rami ricoperti da colonie di lichene. Ai piedi dei tronchi c’erano diverse specie di funghi.
Avrei potuto proseguire così, con le dita intrecciate alle sue, i nostri sorrisi che di tanto in tanto si rallegravano dell’altro, anche per anni e anni. Senza mai lamentarmi della sete né della fame né della fatica, ma non molto dopo arrivammo in una terrazza erbosa che affacciava su una valle. M’informò si chiamasse Val Porcile.
Mi raccomandò di fare silenzio e di prestare attenzione. All’inizio non sentii nulla, poi il mio udito si acuì: acqua. Udivo lo scrosciare dell’acqua. C’era un fiume?
«Un torrente», diceva quanto vi eravamo già giunti. «Questo è Rio Torto. Alimenta il bacino artificiale di Lago Montagna Spaccata, più a valle».
Rio Torto era largo dai tre ai cinque metri. I faggi e gli aceri lo costeggiavano, mentre la distesa di neve bianca lo faceva risaltare al suo interno.
«Dispiaciuta d’avermi seguito?».
Dispiaciuta? Mi venne quasi da ridere. Dispiaciuta era quanto di più lontano si potesse dire di me in quel momento. Stefano sorrise, quasi mi avesse letto nel pensiero, probabilmente era chiaro dal mio sguardo. Chissà se Giorgia lo avrebbe trovato ancora spento. Chissà se conosceva Rio Torto. Probabilmente, sì. Forse non si era fidata abbastanza del mio equilibrio, fisico e mentale, per portarmi fin lì.
«Cosa ti è successo qui? Puoi dirmelo adesso?».
Alzò una mano e passò le dita tra i capelli della mia coda che sventolava.
«Sai che non mi ero mai accorto di quanto fossero lunghi e morbidi?».
Mi scostai bruscamente.
«Allora memorizzali», ribattei aspra. «Perché non ti capiterà d’accorgertene di nuovo».
Non replicò nulla.
Mi lasciai scivolare seduta su di un masso, meno innevato di altri. Mi aveva fatto ricordare il turbamento di quella mattina. La sensazione d’aver perduto Gabriele. La malinconia mi assalì e di certo quel luogo non aiutava a diminuirla, sembrava un contorno perfetto.
Stefano mi sedette accanto, con il sedere sulla neve e le spalle contro il sasso in cui stavo io. Si levò lo zaino dalle spalle e feci lo stesso con il mio. Lo aprii e bevvi un sorso d’acqua da una bottiglietta, invece lui tirò fuori il suo walkman arancio. Mi passò una cuffia. Stavolta decisi d’accettarla.
Dopo alcuni minuti, mentre eravamo nel bel mezzo di una canzone di Laura Pausini, cliccò il tasto “avanti”, ripetutamente. Si bloccò e cliccò il tasto “indietro”, come se avesse saltato per sbaglio la meta della sua ricerca. Si fermò sull’ottava traccia. Lo guardai perplessa. Sentii partire la melodia. La riconobbi subito, era In assenza di te.
«È la tua preferita?», gli domandai incuriosita.
«Credo che potrebbe essere più la tua che non la mia, se riesci ad ascoltarla …», mormorò. «O così mi era parso».
Non avevo capito ciò che intendesse, ma sapevo a cosa si riferisse. Era la stessa canzone che si era messo a canticchiare al nostro secondo incontro. Chiusi gli occhi. Al contrario della precedente volta, le permisi d’entrarmi nell’anima ...
«Mentre la neve va giù/ è quasi Natale e tu non ci sei più».
E lo sentii sopraggiungere: il dolore. Era straziante, ma non gli resistevo. Mi strinse la mano più forte, nello stesso istante in cui capii che il mio viso si era rigato di lacrime silenziose.
«Perché di noi è rimasta l’anima/Ogni piega, ogni pagina/Se chiudo gli occhi sei qui/ che mi abbracci di nuovo così».
E lo rividi. Davanti la vetrina e sotto le luci di quel lontano Natale. Che mi abbracciava. Rivissi quel momento come se si svolgesse nel presente. Dietro i miei occhi chiusi, tremanti, accompagnata nel viaggio da Stefano: il mio ritaglio di paradiso nell’inferno di quei ricordi. Quegli ultimi brevi ricordi in compagnia del mio amore scappato via. Via da me. Perché?
«E vedo noi stretti dentro noi/ legati per non slegarsi mai/ In ogni lacrima tu sarai/ per non dimenticarti mai».
A volte sembra che le canzoni siano state scritte appositamente per te. Ricalcano alla perfezione ciò che provi. La storia e le emozioni. O forse più semplicemente, ognuno di noi trova in esse un pezzo di sé, per renderle più vere. Per farle più sue. Perché forse aveva ragione Victor Hugo: “La malinconia è la felicità di sentirsi tristi”; ed era così, che mi faceva sentire quella canzone.
«E mi manchi amore mio/ così tanto che ogni giorno muoio anch’io/ Tu mi manchi amore mio/ il dolore è freddo come un lungo addio».
«Vuoi che la interrompa?».
Non mi ero accorta che andasse a ripetizione.
«Mi spiace. Non volevo piangere», mormorai asciugandomi le guance con la manica della giacca.
«Vorrei invece che tu piangessi, ogni volta che te lo senti», disse. «Non t’imporre il contrario perché ci sono io. Non è di questo che ti devi preoccupare».
«Mi spiace comunque di riuscire sempre a rovinare i bei momenti con la mia … la mia tristezza», dissi, anche se definirmi triste mi sembrava limitativo.
«A me dispiace che tu sia triste».
«È proprio quello che intendevo», ribattei. «Contamino la tua felicità».
«Ti stai preoccupando di come stia io?», esclamò stupito.
«Mi credevi tanto egoista da fregarmene?», ma non era un’accusa, perché in fondo mi consideravo esattamente così.
Avevo mai prestato attenzione ai sentimenti di chi mi stava accanto? Restavo sempre in silenzio o piangevo o strillavo, di come reagissero gli altri a queste mie reazioni, non mi era mai importato nulla. Se questo non era egoismo! E c’era di più, perché pur sapendo ciò, avrei continuato a comportarmi in questo modo.
«No, è che non dovresti preoccuparti di quel che provo io», rispose a denti stretti. «È …», ma non lo disse cos’era.
Come se non avesse trovato la parola adatta a esprimere il concetto o come se non se la fosse sentito di pronunciarla. Abbassò invece lo sguardo e strinse le mani a pugno. Sembrava sul punto di dirmi: torniamo indietro, sarebbe stato meglio non essere mai venuti fin quaggiù.
Mi assalì il panico. Perché spingevo a scappare via da me chiunque sfiorassi? Lo sentivo improvvisamente distante. Dovevo riacquistare la sua attenzione. Mi chinai con la schiena per accostare la mia bocca al suo orecchio.
«E di chi altri dovrei, allora?», gli bisbigliai con un tono sensuale, che mi uscii spontaneo, senza ricercarlo.
Mi prese la mano e se la portò sulla bocca.
«Di te», sussurrò baciandola sul dorso. «Di nessuno e di tutti».
La girò e accostò il naso al palmo. Inspirò socchiudendo gli occhi. Sembrava che per lui fossi il profumo più buono che avesse mai annusato. Avrei voluto avere la sua stessa espressione beata ed ero incredula che fossi io a procurargliela.
«Ma tu non devi», aggiunse. «Solo se vuoi. Di chi vuoi. Se devi in qualcosa, è volerlo».
Staccai la cuffia direttamente dal walkman e m’inginocchiai fra le sue gambe aperte.
«Ora voglio di te», scandii e lo baciai.
 
Era come se non avessi mai mangiato prima.
I fusilli al formaggio di mamma inebriavano il mio palato. Scendevano giù per la gola con così tanta fluidità, che sembrava ci fosse una calamita che li attirasse a sé quasi senza darmi il tempo di masticarli.
Mamma mi sedeva di fronte, i gomiti sul tavolo, gli occhi fissi su di me. Sapevo cosa voleva. Era da settimane che si era intestardita su un’ipotetica conversazione che avremmo dovuto intraprendere “in tutta sincerità”. Ero quasi certa che l’artefice della brillante idea fosse Giorgia.
Non era più venuta. Non volevo vederla. Avevo appreso che se il paziente non collaborava, la terapia era del tutto inutile. Quindi non collaboravo e lei si era dovuta rassegnare, ma a quanto pareva non del tutto, non a non interagire a distanza, non ancora.
Bevvi un bicchiere d’acqua, poi passai al secondo piatto, una fettina alla pizzaiola. Mamma si era data da fare. Hmm, deliziosa! Il suo insistente e pretenzioso sguardo tuttavia, non mi permetteva di gustarla a piano. Era irritante.
«Tu non hai fame?».
Al contrario mio, non aveva ancora toccato il suo pasto.
«Non sanno buoni freddi», dissi riferendomi ai suoi fusilli, adesso avviluppati al grana in una poltiglia compatta e appiccicosa.
Non rispose. Attendeva che riaffrontassi l’argomento. Perché doveva costringermi? Cos’era, sadismo? Lo sapevamo bene entrambe che avremmo finito per litigare come le precedenti volte. Mi guastò l’appetito. Scansai il piatto e mi misi a braccia conserte. Se non potevo evitarlo, che quantomeno si sbrigasse!
«So come ti senti, lo capisco», iniziò e già si sbagliava. «Ma devi parlarne. Ti farà bene».
«Lo dice Giorgia?», la interruppi.
«Giorgia è una brava …».
«… psicologa?», conclusi.
Incrociò le braccia e quel gesto ricordò me. Ero sempre più simile a lei. Ciò m’irritò ancor di più. Che palle! Ma in genere le figlie femmine non somigliano ai padri? Sciolsi le mani e le incastrai sotto le cosce.
«Volevo dire, che è una brava persona», chiarì.
Sospirammo entrambe.
Voleva che le parlassi apertamente, ma la realtà era che non voleva sentire ciò che avevo da dire. Voleva che dalla mia bocca uscisse ciò che lei desiderava ascoltare. Appena nominavo Gabriele e accennavo che lo stessi aspettando, lei s’infuriava.
Lo devi accettare, mi sgridava. Accettare cosa? Che non sarebbe mai più tornato? No, Gabriele mi amava! Dovevo soltanto aspettare. Aspettare, sospirai ancora. No, non stavo perdendo la speranza, neppure la pazienza. Era solo che … che cominciavo a sentirmi stanca.
Stanca di rimanere in bilico.
«Dove vai?», chiese adirata, mentre mi alzavo.
«Al lago».
«Ovvero da quel ragazzo?».
Percepii una nota di biasimo che non mi piacque.
«Sono maggiorenne da un po’ ormai, ricordi?».
E uscii a incontrare Stefano.
 
Era trascorso il Natale.
La preoccupazione di tutti nei miei confronti si era notevolmente amplificata, ma io stavo bene. Sapevo che il vuoto che mi opprimeva presto si sarebbe colmato. Occorreva solamente un altro po’ di pazienza, e se tutti quanti non mi avessero ricordato ogni singolo giorno della mia perdita e del tempo impiegato esclusivamente e totalmente nell’immobile attesa del suo ritorno, sarei stata ancora meglio. Non avrei vissuto con l’ansia dell’arrivo del fatidico giorno, così che al contempo sopraggiungesse il termine delle loro lamentele e dei loro sguardi compassionevoli.
Era successo più di due anni fa. Oggi era febbraio e i giorni che si erano susseguiti fino a quest’ultimo erano avvolti da un alone. Giorni inutili che si erano susseguiti. Giorni in cui non avevo fatto nulla di più che sognarlo di nuovo con me, che sperare nella sua clemenza.
Perdonai Giorgia. Forse perché pregavo d’esser perdonata a mia volta, anche se non avevo identificato il mio sbaglio, sapevo che dipendesse da me. Gabriele non mi avrebbe mai punita con la sua assenza inutilmente, tanto per vedermi soffrire. Non era meschino e pensava sempre al mio bene.
Eravamo ancora una volta a Lago Vivo e mi smarrivo nei dettagli di una pigna. L’avevo trovata ad Alfedena, fuori dalla porta. Erano due, l’altra era accanto al mio ginocchio. Mi avevano affascinata e così le portai con me.
Era una sorta di bocciolo indurito con squame legnose. Qualcuno aveva mai fatto “m’ama o non m’ama” con una pigna? Sarebbe stato un po’ difficoltoso strappare i falsi petali, però sarebbe stato più ammirevole. Perché si sa che una relazione d’amore non è mai semplice, come strappare petali alle margherite. Una pigna lo rappresentava maggiormente.
Raccolsi la seconda, adesso ne tenevo una su ciascuna mano.
Stefano non c’era. Aveva l’esame di storia contemporanea, il cui programma andava dalla rivoluzione francese al crollo del muro di Berlino, 1989, l’anno della mia nascita e in più doveva portare una monografia a sua scelta, sempre sullo stesso arco di tempo storico. Aveva scelto: “Il Risorgimento Italiano: vita segreta dei Carbonari”. Non so chi fosse l’autore, non se lo ricordava.
 
«Odio quegli anni», aveva dichiarato.
«E perché allora hai scelto questo periodo?».
Erano più di duecento gli anni di storia contemporanea. C’era soltanto l’imbarazzo della scelta.
«Perché lo conosco fin troppo bene».
«Ciò non toglie che avresti potuto concentrare il tuo studio su altro», avevo ribattuto e subito mi ero pentita della mia saccenteria. «Certo, è comunque comodo studiare qualcosa che già si sa. Non che voglia criticarti su questo, indubbiamente si risparmia tempo, non è insensato …».
Mi stavo ingarbugliando. Lui sorrise fermandomi in tempo, prima che peggiorassi la mia situazione.
«Non posso scegliere di non sapere qualcosa che già so. Quando la conoscenza di qualcosa ti entra dentro non puoi più tornare all’ignoranza, anche se dopo ti rendi conto che avresti preferito continuare a non comprendere», aveva sostenuto. «Ma tu questo, dovresti capirlo meglio di me».
«Che intendi dire con ciò?», mi ero rabbuiata.
«Sono uno sciocco», aveva risposto abbracciandomi. «Parlo sempre più di quando dovrei».
 
Neppure Gabriele c’era, ma lui non sapevo dove fosse. Meritavo davvero la sua prolungata assenza?
«Continui ancora ad aspettarlo?», la sua domanda a bruciapelo mi colse di sorpresa.
«Chi?», esclamai ingenuamente, fingendo di non aver capito.
«Lo sai».
Non la ingannai. Strinsi le pigne.
«T’importa?».
«Mi sono affezionata a Stefano».
Stefano? Allora intendevamo due persone diverse, ma non la corressi. Le ressi il gioco, perché adesso volevo capire.
«Vorresti che la smettessi?».
Le interessava? Sentii digrignare la gelosia, ma la misi subito a tacere rimproverandola di non averne il diritto. Teoricamente non stavo con Stefano, non ne avevamo mai parlato. Era ancora libero? E in ogni caso, io non lo ero. Rabbrividii. Già, io non lo ero?
«Sì», asserì. «Per te».
Per me?
«Ma anche per Stefano, perché mi dispiacerebbe per lui», aggiunse.
Non mi reputava alla sua altezza?
«Che intendi?».
«Non mi sembra corretto nei suoi confronti».
Mi sentii pungere nel profondo. Stavo tradendo Gabriele? Mi venne la nausea.
«Lo stai ingannando», riprese. «Stefano non se lo merita».
Mi cadde una pigna dalle mani.
«Cosa?».
«Nell’attesa di Gabriele, usi Stefano come ripiego?», domandò. ma somigliava più a un’affermazione mista ad accusa.
Prima, come mamma, non voleva che si parlasse di Gabriele in termini d’attesa e ora mi accusava di non starlo facendo come si deve? Mi stava confondendo.
«Certo che no!», negai indignata.
Afferrò la pigna caduta e prese a rigirarsela tra le mani.
«Obbiettivamente», disse con un distacco tale che mi mise soggezione. «Se lui prova qualcosa per te e gli fai credere d’esser ricambiato, mentre ami un altro … Beh! Questo per me è illudere».
«Ma io non … non … non voglio illudere nessuno», balbettai disorientata.
Non ci avevo mai riflettuto prima. Come avevo potuto non considerarlo prima?
«Allora non c’è altro da fare», sostenne risoluta. «Devi scegliere».
Osservavo inorridita la pigna che teneva lei, che continuava a girare e rigirare, e poi quella in mio possesso. Chi stavo stringendo dei due in quel preciso istante? Sconvolta le strappai la pigna dalle mani. Tornò il sollievo. Erano di nuovo entrambi con me.
 
Ripensai a lungo a quell’inaspettata conversazione con Giorgia e anche se avevo la sensazione che avesse usato con me di nuovo uno dei suoi giochetti da psicologa, giunsi alla conclusione che su di una cosa avesse ragione: non mi stavo comportando onestamente con Stefano e probabilmente neppure con Gabriele, anche se non ero io quella che se n’era andata.
In ogni modo, non c’era nessuna scelta da fare. Era palese la direzione che avrei preso. Quindi, dovevo dirgli addio. Ma ogni volta che lo incontravo al lago, ogni volta che mi sfiorava la mano, ogni volta che sentivo il suo respiro sul mio, ogni volta che il suono della sua voce mi cullava dolcemente nel nostro ritaglio di paradiso, ogni volta mancavo di coraggio.
La mia volontà soccombeva all’attrazione. All’incredibile senso di benessere che mi travolgeva standogli vicino. Semplicemente scorgendo il suo sorriso che gli si allargava in viso non appena mi vedeva. Coinvolgeva il mio e in quel momento, dirgli addio, diveniva impossibile, a dir poco impensabile, ma non era corretto. Perché sapevo che l’avrei immediatamente abbandonato, se si fosse presentato alla mia porta Gabriele e sapevo che ciò sarebbe accaduto presto o tardi.
Elisa era venuta a farci visita.
Elisa Zei era mia sorella. Era sposata con Massimo Donatrici, con cui aveva una bambina di tre anni. Il matrimonio si era svolto nel settembre del 2005. Nell’album di quel giorno comparivamo pure Gabriele ed io. La mia nipotina si chiamava Emanuela. Ero zia e l’avevo dimenticato. Chissà se anche lei lo ignorasse. Sicuramente riusciva già a camminare da sola, molto probabilmente anche a parlare più o meno bene, ma per quanto mi sforzassi, non riuscivo a immaginarla. Il mio ricordo di lei era di un bebè ancora in fasce.
Mamma era sempre straordinariamente entusiasta quando Elisa veniva a trovarci. Come darle torto?
Dopotutto, lei era la figlia perfetta. La figlia dei suoi sogni. La figlia che si era laureata in lingue, che aveva formato una famiglia, che l’aveva fatta divenire nonna, mentre io ero la figlia che le aveva impedito di partecipare alla laurea della primogenita, che le impediva di vedere sua nipote e il suo genero e chissà chi e quanti altri. Mi sentivo il nulla più pesante che fosse mai esistito.
Emanuela non c’era e neanche Massimo, erano rimasti ad Agnone, nel Molise, a poco più di un’ora di distanza. Era lì che ora abitavano. Elisa si sarebbe fermata da noi per una settimana. Chissà se la mia nipotina avrebbe avuto paura di me come Simona. La cuginetta che non avevo più rivisto da quell’episodio annebbiato …  
Mamma scese in cucina e Elisa si sedette sul letto accanto a me. Ero con la schiena appoggiata alla spalliera e le gambe incrociate. Lei era nella stessa posizione, ma sul lato opposto. Le avevo chiesto di Emanuela e con una tenerezza fuori misura si era messa a raccontarmi di lei. Ogni dettaglio e cambiamento era il miracolo di Emanuela, un fatto eccezionale, come fosse stata l’unica bambina al mondo a crescere. L’ascoltai in silenzio, finché non sentii una domanda pulsarmi nella lingua.
«Posso farti una domanda?», chiesi abbassando lo sguardo, pentendomene già.
«Certo, sai che puoi chiedermi qualunque cosa».
In fondo non stavo andando mica in guerra! Dovevo soltanto raccontare con sincerità delle mie incertezze sentimentali, parlarne francamente con mia sorella. D’un tratto, chissà come, mi sembrò più facile arruolarmi nell’esercito.
«Se dovessi scegliere fra un ragazzo che ami, ma che per varie ragioni non può stare con te … non per ora, ma non si sa neppure quando ripotrà … e un ragazzo che invece c’è sempre, che sembra provare per te qualcosa di vero, d’importante, di bello .. Che non c’è soltanto, ma sa come esserci … Tu chi sceglieresti?».
Rimase per qualche secondo sbigottita dalla direzione che avevo dato alla chiacchierata. Evidentemente non se lo aspettava.
Tossì e rispose: «Non saprei … ehm, il primo ragazzo ti ama a sua volta?».
«Forse non mi sono spiegata bene», mi affrettai a precisare. «Noi ci amiamo e non è che lui non si faccia proprio più vedere … solo che non possiamo stare insieme come qualunque altra coppia. Non per il momento».
«E tu ti sei stancata di aspettarlo», trasse inaspettatamente la sua conclusione. «È normale. Si ha bisogno di sentire il contatto con la persona amata e se non si ha per troppo tempo, senza neppure avere una scadenza per riprendere a viverla, è facile arrivare al punto di dire “Basta!”».
«Ma se un amore è vero, non esiste confine né tempo che lo annulli», ribattei quasi offesa.
«Certo, certo», mormorò un po’ a disagio. «Ma allora non capisco il problema … Se sei così certa di ciò che provate l’uno per l’altra …».
Mi misi a giocare con la calza al mio piede, tirando un filo che fuoriusciva da sopra al pollice.
«Il problema è che nel frattempo io vedo l’altro …», dissi con un filo di voce.
«Ah!», esclamò come se avesse appena fatto una scoperta. «Pensi d’essere scorretta».
Annuii.
«Con il primo?».
«Con tutti e due».
Non osavo incrociare il suo sguardo. Ero così patetica! Neanche quando avevo tredici anni parlavo di ragazzi in modo così infantile, forse era a causa del modo in cui mi trattavano. Se mi trattavano da bambina, finivo per comportarmi come tale.
«E cosa provi per il secondo?», chiese. «Solo attrazione o è amore?».
Tirai troppo impetuosamente il filo che mi rimase tra le dita, mentre il pollice del piede fuoriuscì dalla calza che si era scucita in un grosso anello perfettamente circolare.
«Maledizione!», esclamai.
Elisa scoppiò a ridere.
«Sai chi sceglierei io?», esclamò. «Nessuno. Perché io non provo niente per nessuno dei due. Non posso dirti io chi scegliere. Puoi farlo soltanto tu. L’unica cosa che posso consigliarti è di non lasciarti influenzare da niente e da nessuno. Pensa prima di tutto a te stessa. Perché se scegli in funzione di chi non vuoi far soffrire, il risultato sarà di fargli un torto maggiore. Tutti meritano la verità e l’onestà nei sentimenti. E in quel caso mentiresti sia a te, sia a loro. Non potresti mai veramente amarli come vorrebbero né come vorresti. E nascerebbero così i sensi di colpa, che di conseguenza ti porterebbero a essere intollerante con lui e perennemente arrabbiata con te stessa. Infine i rimpianti ti soffocherebbero», mi afferrò le mani e mi costrinse a guardarla negli occhi. «Ascolta il tuo cuore, anche se ti suggerisce la scelta più insensata e meno giusta per chi ti sta intorno. Forse avranno ragione a rimproverarti o a metterti in guardia, ma non ascoltarli! Perché sarebbe tuttavia una tua scelta, che non ti farebbe trascinare dietro alcun tipo di ripensamento. Comunque andrebbe a finire, saresti rimasta tu, senza scendere a compromessi con altri tipi di sentimenti o con la razionalità, ma restando leale fino in fondo all’Amore».
Lealtà verso l’amore, dunque, ma verso quale amore? Quello mio passato per Gabriele? Quello che ancora perdurava per Occhi Blu? Quello che non sapevo ancora bene identificare per Stefano? O che avevo paura a riconoscere … O quello per me stessa? Del mio bisogno d’amore a prescindere da chi sia il lui a soddisfarmelo?
E poi c’era l’amore che provavano Gabriele, Stefano, i miei genitori, mia sorella, Giorgia, mia zia, la mia ex migliore amica, mia nipote, mia cugina … Così tanti diversi amori rivolti verso altrettante numerose direzioni. Cosa rendeva un amore più importante di un altro se non l’egoismo?
 
La sera del 23 dicembre 2008, dopo aver passeggiato per negozi, nella via illuminata dalle numerose file di luci dai colori cangianti, Gabriele doveva presiedere a una cena di fine anno con i suoi colleghi di corso. Dopo avermi riaccompagnata nella nostra casa, mi salutò sotto la porta, dove avevo appeso il vischio. Glielo avevo fatto notare, lui ridendo mi aveva baciata.
«Non so a che ora torno», mi aveva detto. «Non occorre che mi aspetti sveglia».
Avevo strofinato il mio naso contro il suo.
«Invece ti aspetterò», gli avevo promesso. «Ti aspetterò in ogni mio secondo distante da te».
 
Era stata una promessa, perciò non importava quale lealtà d’amore fosse più ammirevole o più egoistica: io non potevo infrangerla.
 
«Cristina?», mi chiamò mamma, mentre indossavo la giacca. «Ti sembra proprio il caso d’incontrarlo ogni giorno?», chiedeva roteando la punta della scarpa sul pavimento. «Sai … potrebbe finire tutto e … non so», balbettò senza incontrare il mio sguardo, come se si vergognasse. «Sei maggiorenne certo, ma … ma io la prenderei con calma».
«Io invece la prenderei come viene», replicai prendendo le chiavi della Punto nera di mamma.
Era uno dei primo modelli, costruiti nel ‘93. Iniziava a essere più flessibile. Era stata Giorgia a suggerirglielo, sostenendo che fosse meno pericoloso che io guidassi un’auto, anziché vagabondare per le strade da sola. Fortunatamente mamma le dava sempre ragione.
Stefano era già alla Sorgente Sambuco. Posteggiai e scesi dalla Punto. Era seduto per terra, all’ombra dell’edificio di cemento, con un libro aperto tra le gambe.
«Cosa leggi?», gli chiesi quando gli fui abbastanza vicino.
«Studio», rispose brusco, senza alzare lo sguardo.
Il suo tono mi spiazzò. Non lo aveva mai usato con me, ma cercai di mostrarmi comprensiva. M’inginocchiai al suo fianco.
«Sono usciti i risultati del tuo esame?», indagai.
Non rispose. Mi sporsi verso di lui e lo circondai con le braccia.
«Vedrai che recupererai al prossimo appello», dissi fiduciosa, schioccandogli un bacio sulla guancia.
Lui alzò un braccio e mi scansò. Rimasi perplessa, quasi offesa, a guardarlo impacciata con il sedere sul pietrisco. Lui non si degnò di scusarsi né di spiegarmi. Capivo che fosse arrabbiato, forse anche deluso per l’esito, a quanto pareva, negativo del suo esame, ma non poteva riversarlo su di me. Che colpa ne avevo io?
Come sempre, come se mi leggesse in mente, polemicamente mugugnò: «Non credi che dovrei avere una vita all’infuori di qui?».
«Non sei costretto a venire», ribattei adirata, anche se speravo non mi prendesse in parola.
Avevo una vaga percezione che mi stesse accusando d’avergli occupato troppo del suo tempo, che avrebbe invece dovuto dedicare ai suoi studi. Ricordavo anche una conversazione in cui mi raccontava che quando poteva distaccarsi dalla città si recava nel suo “ritaglio di paradiso”, ma non era sempre fattibile. A dispetto di ciò, negli ultimi mesi, il tempo che aveva trascorso al lago si era decisamente incrementato. Tuttavia, credevo che per lui fosse un piacere. Mi sentivo in parte insultata e in parte responsabile, ma più di tutto, sentivo la terra franare sotto di me alla sola possibilità che non tornasse davvero mai più.
«Non è ciò che intendevo», disse.
«Spiegati».
Chiuse il libro con un colpo secco che mi fece sussultare. Stava per dire qualcosa, ma sembrò cambiarlo in corsa.
«Vuoi passare il resto della tua vita a incontrarmi in questo lago? A fare da spola da qui a casa tua?».
Adesso avevo capito, ma come non potevo dargli torto, allo stesso modo non potevo cambiare la situazione.
«Non voglio trattenerti», mormorai.
«Non è me che trattieni».
Mi fissò a lungo e i suoi occhi erano carichi di ostilità, tanto quanto lo erano stati Occhi Blu, quando mi sognai annegai nelle acque del lago. Scossa, mi discostai velocemente dal suo viso.
«Chi stavi guardando, eh?», esclamò con foga e un filo di risentimento.
Mi sentii mancare. Mi sentivo nuda e piccola, perché era evidente che lui sapesse molto più di quanto non pensassi. Ero anche un po’ sollevata che non dovessi spiegarmi con futili giustificazioni. Ciò significava, anche e purtroppo, che non potevo contraddirlo.
«Mi dispiace …».
«Non le voglio le tue scuse», m’interruppe.
«E cosa vuoi?».
«Che guardi me».
Quella sua richiesta, tanto simile a un lamento, mi attanagliò lo stomaco. Sentii gli occhi gonfiarsi di lacrime. Gli alzai su di lui e vidi che anche i suoi erano lucidi, ma sapevo che intendeva di più di questo e io non potevo darglielo.
«Mi dispiace», ribadii con un groppo alla gola che respingevo a fatica, mentre mi alzavo. Ero sicura, in quel momento, che fosse giunto l’addio tanto inseguito e altrettanto temuto.
Si tirò su anche lui.
«Perché?», quasi supplicò e mi udii farlo a mia volta.
«Ho promesso», sibilai. «Ho promesso di aspettarlo».
Abbassai la testa e lui mi afferrò per le braccia.
«Perché?», ripeté.
«Non capisci?», dissi con voce stridula, quasi isterica. «Non posso. Io non posso».
Mi scosse affondando le dita sui miei avambracci.
«Non puoi o non vuoi?».
«Io non …», balbettai. «Non sarebbe giusto».
«Accidenti!», mi provocò. «Doveva amarti davvero tanto, per vincolarti a lui in questo modo oltremodo – perdonami, ma non si può dire in altro modo! – MESCHINO!».
«Io non voglio!», sbottai. «D’accordo? Sono io che non voglio! Non è lui. Tu non sai. Non sai com’è andata».
«Illuminami, allora!», mi pungolò in tono arrogante. «Dimmi perché il Grand’uomo può permettersi di tenere in ostaggio la tua vita!».
«Non ti permettere, sai!», strillai. «Tu non lo conoscevi! Lui mi amava! E se sto così è tutta colpa del mio egoismo! Tu non ti puoi permettere di biasimarlo! Non sei niente al confronto!».
Mi lasciò immediatamente. Forse avevo esagerato. Non volevo offenderlo, ma era tardi per i rimorsi. Il tempo non si poteva mai riavvolgere, lo avevo appreso nel modo peggiore.
«Non lo conoscevo?», parlò serio, fissandomi eloquentemente. «Hai detto: “Lui mi amava” e “Tu non lo conoscevi”. Perché?».
«Perché, che cosa? È solo la verità».
«Non fingere di non aver capito. Ma sarò più chiaro, così che non potrai eludere il punto come tuo solito … Perché hai usato l’imperfetto?».
«Non lo so», trasalii. «Ho sbagliato? Vuoi perderti in questi dettagli?», cercai di svincolarmi. 
«Non sono dettagli e lo sai. Credo che sia quel che se dica, lapsus freudiano».
«Lapsus di che? Per un Tempo sbagliat …».
«Non sei stanca di fingere?», m’interruppe pacato, ma severo, un controcanto alla mia parlantina agitata e mezza isterica.
«Mi stai dando della bugiarda?».
A quel punto mi aspettavo che negasse, invece affermò: «Precisamente».
Aprii la bocca, ma non seppi cosa dire. Così fu lui a riprendere parola.
«Come puoi non capire quanto tu sia fortunata a essere ancora in vita?».
«Fortunata?», esclamai senza riuscire a nascondere un’amara ironia. «Non esiste fortuna in questa vita. O non per me».
«Senti il vento soffiarti fra i capelli e il sole colpire affettuoso la tua pelle. L’acqua può ancora bagnarti. Puoi rabbrividire dal freddo. Puoi gustare un gelato. Puoi baciare qualcuno e avvertire il suo sapore in bocca. Puoi sentirti pervasa dal desiderio e se vuoi, puoi anche soddisfarlo. Tutto questo come lo definiresti? Una sventura?», sosteneva con enfasi, come se mi detestasse per la mia reticenza. «Respiri ancora, non puoi ignorarlo! È una di quelle cose che sai e non puoi mentirti sul contrario».
«Certo che lo so e anche fin troppo bene», asserii cupa. «Ma dire di esserne contenta, è tutta un’altra storia».
«Sei incredibile!», borbottò arrabbiato. «Dovrei fregarmene».
«Lo credo anch’io».
«Ma non ci riesco», aggiunse sottovoce. «Esattamente come te, che non riesci a dirti la verità».
Non dissi nient’altro. Sperai che quella tortura fosse terminata lì, ma col mio silenzio invece si ridestò la sua durezza.
«Non rifugiarti di nuovo nel torpore!», mi sbraitò. «Resta qui! Resta a sentire ogni cosa! Non c’è niente di sbagliato nel soffrire. Puoi cavartela. Io lo so. Se sei ancora qui, significa che puoi riprendere il controllo della tua mente».
Come faceva a sapere anche questo? Come faceva a conoscermi così bene?
«Forse potrei», acconsentii, se lui tornasse, pensai, e Stefano di nuovo sembrò udirmi.
Forse non mi accorgevo di parlare ad alta voce?
«Perché t’incolpi della sua assenza?», si stizzì. «Credi che starebbe meglio, dovunque si trovi, sapendo che insulti il tuo cuore che batte ancora per te?».
Non risposi. Osservavo i miei piedi e li vedevo sdoppiati. Mi sentivo sul punto di vomitare, come fossi divenuta intollerante alla sua voce. Dovunque si trovi, ripeté la mia mente e subito cercò di dimenticare per il solito e ormai automatico meccanismo di difesa. 
«No, devi risponderti!», urlò scuotendomi per la spalla. «Dove può trovarsi?».
Perché non la smetteva? Perché mi torturava così?
«Stai zitto! Basta, ti prego!», l’implorai, ma non si commosse.
«Perché non può tornare da te?».
«Perché è morto! Dannazione, lo capisci? MORTO!», gridai esasperata e all’udirmi pronunciare quelle parole, proprio da me, sentii cedermi le gambe.
Mi accasciai al suolo fissandolo senza vederlo. Avevo la nausea e sentivo i singhiozzi crescermi in petto.
«Morto», continuavo a mormorare monocorde.
Era come se mi fossi svegliata improvvisamente sotto la grandine, e picchiava, picchiava, picchiava … Tuttavia era un dolore familiare. Come se non avesse fatto altro da mesi e mesi, ma soltanto adesso me ne rendessi conto. E capii d’avermi mentito per tutto quel tempo e che non sarei più stata in grado di proteggermi dalla realtà. Perché mi ero ormai svegliata e sapevo che non sarei più potuta ricadere in quel sonno tanto profondo, simile al coma. Adesso ricordavo. Adesso vedevo la realtà.
Stefano mi s’inginocchiò di fronte. Lo vidi esitare poi mi abbracciò e piansi per molto tempo.
Non smisi. Non smisi neppure quando i miei occhi si asciugarono. 


Allora vediamo, cosa posso dire ... Nel prossimo capitolo si saprà qualcosa di più su Gabriele e sul suo incidente ... 


 
  
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