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Autore: PerseoeAndromeda    06/07/2008    4 recensioni
Come posso continuare a vivere con tale tormento? Come posso sconfiggere i miei demoni? A chi chiedere aiuto? No… a nessuno… non lo farei mai, non lo farei per orgoglio, non lo farei per paura… per terrore… terrore di cosa non so…
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Andromeda Shun, Cygnus Hyoga, Kraken Isaac
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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SHUN

Ringraziando chi di voi ha commentato la prima parte, ecco qui il seguito^^

Originariamente dovevano essere solo due parti ma siccome io non ho il dono della sintesi, saranno almeno tre…

spero solo tre ma non ci giuro^^

Be’ intanto, se vi va, leggete e io mi metto al lavoro per le altre mie fic^*^

 

 

 

 

PARTE 2

 

 

 

Col mio soffio di vulcano cancellerò
il gelo di questa stanza
e col volo di una freccia trafiggerò
quella pallida luna a distanza;
ci sarò e non ci sarò,
continuerò
la mia invisibile danza,
senza tracce sulla neve lieve sarò,
mi dirai di sì o mi dirai di no.
Avrà il silenzio la voce che ho,
e mani lunghe abbastanza,
sarà d'attesa e d'intesa, però
saprò quello che ancora non so,
quello che ancora non so.
Mi dirai di sì o mi dirai di no.
Col mio cuore di matita correggerò
gli errori fatti dal tempo
e con passo di guardiano controllerò
che si fermi o che avanzi più lento;
ci sarò e non ci sarò, ti parlerò
con ogni fragile accento
sarò traccia sulla neve, neve sarò,
mi dirai di sì o mi dirai di no.
Sul manoscritto l'inchiostro sarò
e mi avrai nero su bianco,
saranno gli occhi o i tarocchi, però
saprò quello che ancora non so,
quello che ancora non so.
Mi dirai di sì o mi dirai di no…

 

(Branduardi, L’apprendista stregone)

 

 

 

 

 

 

 

SHUN

 

Sono qui, su quest’aereo con lui. Fino a ieri mattina una cosa del genere mi sarebbe sembrata un sogno ad occhi aperti, ma ora… che dire? A meno che non sopraggiunga qualcosa di orribile a svegliarmi… no, forse non è un sogno.

Il dondolio leggero dell’aereo è così dolce, rilassante tanto da provocarmi il desiderio di chiudere gli occhi e lasciarmi scivolare nel limbo del sonno, ma non voglio farlo. Ho paura, nonostante tutto; ho ancora il terrore che non sia vero e che addormentarmi significherebbe, in realtà… risvegliarmi dal sogno?

Mi sento terribilmente idiota, mi sto costruendo castelli in aria assolutamente senza senso; cosa starà mai succedendo di così straordinario poi? Neanche fosse la prima volta che viaggiamo insieme.

Eppure c’è qualcosa di diverso… non stiamo viaggiando per raggiungere un campo di battaglia e siamo soli… e lui mi ha permesso di violare prepotentemente la sua intimità; sì, perché è questo che sto facendo, non lo posso negare: ho preteso di inserirmi prepotentemente nel suo mondo così sacro… perché me lo ha concesso?

Non mi faccio illusioni, non mi stupirebbe lo scoprire che, in realtà, mi sta odiando a morte per essermi spinto tanto oltre. In effetti, il suo atteggiamento lascerebbe intendere proprio questo: da quando siamo partiti non mi ha rivolto neanche una parola, se non quelle poche inerenti alle necessità pratiche del viaggio eppure, nonostante la sua palese freddezza, nonostante una parte di me continui a dirmi che ho sbagliato e che dovrei sentirmi terribilmente in colpa, io non riesco a sentirmi triste… tutt’altro… perché al di là di tutto non ha rifiutato la mia decisione, non si è opposto e sono consapevole che a nessun altro avrebbe accordato un tale privilegio.

Sta guardando fuori dal finestrino, adesso, ed il suo volto è un’imperscrutabile maschera di sostenuta indifferenza, non si accorge delle occhiate che gli rivolgo furtivamente... o finge di non accorgersene; spero nella prima ipotesi tuttavia… gli ho promesso che non mi sarei rivelato invadente e non vorrei infrangere la promessa così presto, ma cosa posso farci se non posso fare a meno di sentirmi come un cagnolino adorante che non riesce a distogliere la propria attenzione dal suo compagno umano? In fin dei conti, egli è padrone del mio cuore e proprio come farebbe un cane per l’amico, anche io farei qualunque cosa per Hyoga.

In parte vorrei sotterrarmi per pensieri così sdolcinati, ma sono un sentimentale, non posso negarlo e rinnegare la mia natura; sospiro e mi sforzo, per l’ennesima volta, di distogliere gli occhi dal suo profilo così innegabilmente perfetto… ma non mi importa di questo… lui è bello, sì, ma non per questo si è impossessato a tal punto del mio animo. Gli voglio bene da sempre e, semplicemente, questo affetto si è con naturalezza evoluto in qualcos’altro, con una spontaneità che non ho saputo controllare… come si possono controllare certe cose?

Cullato dal gentile rollio dell’aereo, sento la testa sempre più pesante, le palpebre desiderose di chiudersi; come sarebbe bello posare il capo sulla sua spalla e lasciarmi andare al sogno di saperlo mio… ma non lo posso fare… un simile gesto lo renderebbe furioso, temo, e… se dopo volesse cacciarmi?

Ho tanto sonno; il bisogno di abbandonarmi al sonno sta annebbiando i miei sensi ed incrinando la mia percezione della realtà…

Ti amo, Hyoga, e sono così felice di quello che sta accadendo che non oso pretendere di più…

 

 

HYOGA

 

Ancora sono qui, confuso, a domandarmelo: perché gli ho detto sì? No… non è esatto, non mi ha lasciato la possibilità di dire sì o no. Farei meglio a chiedermi: perché messo davanti al fatto compiuto non gli ho detto, molto semplicemente, che non poteva venire?

E ancora non mi è chiaro quale sia il sentimento prevalente nell’averlo qui, accanto a me; è un’astrusa commistione di rabbia, euforia, noia, interesse, seccatura, sollievo… e una felicità che non mi sembra vero di poter provare.

Sento i suoi sguardi addosso e vorrei rimproverarlo aspramente, urlandogli di farsi gli affari propri, di non seccarmi e al contempo… vorrei coccolarlo, farmi vincere dalla tenerezza che quegli occhi di bosco mi trasmettono, quelle espressioni da cucciolo adorante che non riesco a comprendere, che mi fanno infuriare perché non so come ci riesce… ad adorarmi così!

Credo che il vetro di questo finestrino finirà per liquefarsi sotto il mio sguardo fisso; sto rifiutando ogni comunicazione che travalichi la stretta necessità. Mi sto comportando male, ne sono consapevole, ma in fondo non gli ho chiesto io di venire, ne avrei fatto volentieri a meno… almeno credo…

Un peso lieve sulla mia spalla mi provoca un irrefrenabile sussulto e mi volto, di scatto, con un cipiglio che, lo so, vuole palesare a chi mi sta vicino quanto io sia seccato, ma subito dopo le mie membra si irrigidiscono e io mi blocco, trattenendo quasi il respiro, come una creatura improvvisamente capitata sotto gli infallibili occhi della gorgone.

É probabile che, senza rendersene conto, si sia addormentato e inconsapevolmente abbia lasciato scivolare il capo contro di me.

Perché adesso il mio cuore si è messo a battere tanto forte?

Lui… è come un bambino, con quelle ciglia tanto lunghe da sembrare femminee, le labbra appena schiuse e… sorridenti…

Cosa starà sognando questa piccola peste dolcemente adagiata sulla mia spalla? I suoi capelli morbidi come una nuvola mi solleticano il viso.

Non ci troviamo su un jet privato della famiglia Kido, in quanto preferisco non chiedere laddove non mi sia indispensabile ed arrangiarmi come una persona normale, quindi ci sono altri passeggeri oltre a noi; cosa potrebbero pensare osservando questo bizzarro contatto tra due giovani adolescenti?

Sono uno stupido; cosa dovrebbe importarmene dopotutto? Proprio io, che mi vanto di non aver nulla da spartire con il resto del mondo, perché dovrei tenere in qualche conto il giudizio altrui?

Ciò non toglie che Shun non dovrebbe dormire così sulla mia clavicola, non che ci sia qualcosa di male, di forzatamente ambiguo o di sconveniente, ma non mi piace: in qualche modo mi turba e mi spaventa, anche se ammettere e respingere queste mie sensazioni è un tutt’uno, una continua lotta contro me stesso.

Allungo una mano, per allontanarlo da me, anche se vorrei riuscire a farlo senza che si svegli ma, non appena gli do una piccola spinta, il sorriso sulle sue labbra si spegne ed egli brontola qualcosa nel sonno, opponendo resistenza al mio gesto. Stringo i denti, mi arrabbio, ma qualcosa mi impedisce di insistere, la sola idea di mostrarmi più brusco con lui, in questo momento mi trasmette la voglia di piangere. Già il fatto di avere spezzato, così crudelmente, il suo sorriso, il suo sonno incantevole, mi dipinge ai miei stessi occhi come un cinico senza cuore, come un ragazzo malvagio che ha calpestato, senza riguardo e per il solo gusto di farlo, la più graziosa margherita di un prato; io ho calpestato il suo bel sogno, qualunque esso fosse.

E il mio maledetto cuore continua a battere come se volesse scoppiare, non riesco a riacquistare un minimo di controllo sul mio organismo in subbuglio… tutto il mio organismo… passi il cuore, ma quell’altra cosa, quella tensione che sento nel basso ventre…

Sbuffo tra me… tanti rigiri di parole per non confessare a me stesso che mi sono eccitato e che sono nel totale imbarazzo dovuto al timore che qualcuno se ne accorga!
É tutto sbagliato, non dovevo permettergli di venire e non devo permettergli di intromettersi a tal punto nella mia vita!

Sono un debole… perché non riesco a proteggerlo da me stesso?

 

 

SHUN

 

É uno scossone poco gentile a svegliarmi e per un istante fatico a ricordare dove mi trovo e cosa ci faccio lì.

“Muoviti. Siamo arrivati!”

La secca imposizione, pronunciata con una durezza che quasi mi umilia, mi scuote del tutto dal torpore e mi rendo finalmente conto della realtà delle cose… mi rendo conto di cosa è accaduto e vorrei scomparire… non posso averlo fatto davvero!

La mia testa è ancora appoggiata sulla spalla di Hyoga nel momento in cui la mia mente si illumina e, non appena me ne accorgo, scatto come una molla per staccarmi da lui.

Mi sento avvampare e la mia goffaggine mi impedisce di trovare qualunque parola, fosse anche solo per scusarmi o giustificarmi. Il viso di Hyoga non lascia trasparire assolutamente nulla, ma sembra teso, arrabbiato; ho cominciato sinceramente male, infrangendo fin da subito i limiti che mi ero imposto e che avevo giurato a me stesso ed a lui di non oltrepassare.

Muoviti, qui non aspettano i tuoi comodi!”

Si è già alzato in piedi quando mi aggredisce con questo nuovo ordine, ma non può lasciare il proprio posto se prima non mi alzo anche io e la sua impazienza è palese; allora, ancora in preda ad un turbine di confusione, mi metto in piedi, maldestramente, mantenendo a stento l’equilibrio. L’occhiata con cui mi trafigge è quanto di più eloquente si possa pensare, almeno per come la recepisco io; se con essa decidesse di congelarmi, diventerei un blocco di ghiaccio, qui e ora, istantaneamente.

Mi affretto ad uscire dalla mia poltroncina e per la foga scontro un passeggero che transita in quel momento; probabilmente arrossisco in maniera vistosa e mi scuso con un inchino, lui risponde qualcosa che non capisco, probabilmente in russo, ma dal tono sono portato a pensare che si tratti di un insulto o comunque di qualcosa di non troppo carino.

“Maledizione, Shun, ti vuoi muovere?”

Hyoga è sicuramente seccato e, probabilmente, si sta anche vergognando di viaggiare in compagnia di un ragazzino imbranato che lo sta mettendo in cattiva luce agli occhi del mondo; mi sento come un goffo bambino rimproverato dal padre.

Mi affretto ad unirmi alla scia di persone finché, a testa bassa, scendo dall’aereo: non oso guardare in faccia nessuno e non vedo l’ora di allontanarmi da questa folla dalla quale mi sento scrutato e giudicato.

 

 

HYOGA

 

L’aeroporto di Yakutsk è affollato oggi, ma la strada che prenderemo noi sarà assolutamente deserta e probabilmente sconosciuta a tutte queste persone.

Com’è strano.

Shun sembra un cucciolo spaventato e io sto odiando me stesso per la durezza con cui l’ho trattato fino ad ora; il fatto è che mi sento stressato e ho i nervi a fior di pelle, non riesco a controllare l’elettricità che attraversa il mio organismo. Sembra quasi che il prolungato contatto della testolina di Shun con la mia spalla mi abbia psichicamente distrutto e tale consapevolezza mi rende furioso verso me stesso.

Il mio compagno è stranito e, quando quell’uomo odioso gli rivolge quell’insulto in russo, sono tentato di espandere il mio cosmo per congelarlo e ridurre poi la statua di ghiaccio che ne sarebbe derivata in tanti pezzettini minuscoli… perché nessuno deve trattare così Shun in mia presenza! Quel tizio non sa quanto sia infima la sua persona al nostro cospetto, ci deve la vita, come ce la deve il mondo intero! Non mi piace farmene un vanto, non pretendo nulla in cambio, ma il rispetto sì… e rispondo alla superbia di simili esseri strafottenti con una pari superbia… anzi, una superbia che forse ha qualche ragion d’essere in più.

Shun sembra così triste, adesso, dopo avere accumulato una sbadataggine sull’altra; probabilmente si vergogna anche nei miei confronti e non può immaginare, invece, quanta tenerezza mi faccia e quanto io tenda ad essere, di solito, molto più goffo ed intimidito di lui se mi immergo nella quotidianità… semplicemente lo maschero meglio sotto il mio strato di ghiaccio infrangibile… non sono candido come lui, non sono così limpido e vero.

Ritiriamo in fretta i bagagli e ci avviamo nella neve; l’atmosfera è cupa, un inizio di tempesta imperversa, ma non sarà un problema, neanche per Shun che ha affrontato senza crollare le bufere di Asgard. Ciò nonostante provo una fitta al cuore al pensiero della camminata che lo attende in mezzo a quello che assumerà l’aspetto di un inferno ghiacciato.

Mi segue a pochi passi di distanza e non ha ancora sollevato il capo… mi dispiace, ma non so che fare… non sono in grado di risollevargli il morale.

Sta rimuginando tra sé, probabilmente sta cercando le parole giuste per dirmi una cosa, sta combattendo contro se stesso per trovare il coraggio e, se lo conosco bene, tra poco partirà all’attacco.

Mi viene quasi da ridacchiare quando sento i suoi passetti farsi più veloci, con il chiaro intento di giungere al mio fianco e, al tempo stesso, la sua vocetta concitata mi aggredisce l’orecchio:

“Hyoga, senti! Io… devo chiederti scusa!”

“Per che cosa?” chiedo, senza mascherare la sorpresa; nel frattempo mi fermo e lo scruto, cosa che sembra fiaccare ogni sua risoluzione; mi scopro improvvisamente addolorato rendendomi conto di quanta paura lui abbia di me. Una volta non lo intimidivo a tal punto, ma non posso pretendere altro; in fin dei conti, io stesso sto lottando perché non mi si appiccichi addosso come una colla… lo sta già facendo fin troppo.

China nuovamente il capo, gli occhi tremano sotto le palpebre un po’ abbassate e le sue guance si fanno di porpora.

“Per… per prima” balbetta con la voce ridotta ad un lieve sospiro “Io… mi sono addormentato… non mi ero accorto di…” deglutisce, si passa lievemente la lingua sulle labbra e si blocca. É palesemente in crisi; le mie braccia bramano di allargarsi per stringerlo forte, ma la razionalità prende ancora il sopravvento e il controllo delle mie azioni, così mi limito a dargli le spalle e a rivolgergli una risposta lapidaria:

“Non importa, ma la prossima volta fa più attenzione!”

Il mio atteggiamento sconsiglierebbe ogni tentativo di proseguire il discorso… ed effettivamente Shun non riprova, ma percepisco il suo sospiro mentre riprende il cammino alle mie spalle.

Dopo qualche minuto, la sua vocina si fa risentire, timida e sommessa, a stento udibile perché coperta dal fischio del vento:

“Hyoga…”

“Dimmi” rispondo laconicamente, siccome lui sembra non voler continuare senza attendere il mio permesso.

“Come arriveremo al tuo villaggio?”

Mi fermo, perplesso:

“A piedi, naturalmente! Come si potrebbe raggiungere altrimenti un villaggio collegato ad una scuola segreta di Atene?”

Schiude un po’ le labbra, poi annuisce; ha di nuovo quell’espressione mortificata sul viso.

Per più di un’ora non diciamo nulla e l’aria gelata impregnata di ghiaccio sferza i nostri volti, unico frammento di corpo non riparato dall’imbottitura pesante che ci avvolge. Io potrei anche fare a meno di tale protezione, ma finché eravamo in mezzo alla gente non volevo certo dare nell’occhio e ora, per comodità, mi lascio tutta questa massa di abiti addosso per non aprire la valigia e infilarli dentro.

Un sussurro da pulcino implume mi raggiunge dopo un interminabile silenzio durante il quale mi ero illuso di essere completamente solo:

“Hyoga…”

“Che cosa c’è?” brontolo, trattenendo a stento uno sbuffo di impazienza.

“Quanto manca ancora?”

Cerca di nascondere la stanchezza sotto un tono di semplice curiosità ma non mi inganna.

Praticamente siamo appena partiti” è la mia cinica risposta e per poco non scoppio a ridere alla sua esclamazione di assenso con la quale cerca di nascondere il disappunto.

“Rassegnati a camminare per… parecchio tempo.

“Non c’è alcun problema… era solo per sapere…”

Mi sono già voltato per riprendere il cammino quando pronuncia tali parole, quindi non posso guardare l’espressione che ha sul viso, ma l’inflessione della sua voce, benché faccia di tutto per fingere, cosa di cui non è assolutamente in grado, tradisce una sorta di disperazione. Mio malgrado provo una gran pena, così mi fermo ancora, per osservarlo.

É a capo chino, immerso in un suo mondo personale, così non si accorge che mi sono fermato se non quando mi è quasi addosso; fa un balzo indietro, confuso e ricomincia con il suo sommesso e timido balbettio:

“Sc… scusa…”

Si sente in dovere di scusarsi per ogni minima cosa, è evidente che si sente un peso ed un intralcio. Il problema è che io stesso non ho ancora compreso come sto vivendo questa situazione… lo considero davvero un peso?

Si ferma e deglutisce, i suoi occhi mi sfuggono e basta guardarlo per comprendere che, probabilmente, vorrebbe fuggire anche lui, il più lontano possibile da me.

Hai freddo?”

La domanda mi è uscita prima che potessi fermarla, o che semplicemente mi accorgessi di essere in procinto di formularla; sobbalza, come morso da un serpente e la sua risposta è una specie di squittio poco udibile nel turbinio di elementi scatenatosi intorno a noi:

“N… no… no…”

Non gli credo ovviamente; l’intirizzimento delle sue membra è palese.

Evidentemente consapevole di essere poco credibile, Shun rintana ancora di più la testa tra le spalle e replica, con voce ancora più bassa, tanto che non potrei udirlo se non l’avessi attesa da prima e non avessi immaginato le successive parole:

“Forse… un pochino…”

Un pochino… probabilmente significa che sta morendo congelato.

E probabilmente si sarebbe morso la lingua piuttosto che ammettere un proprio disagio ma non riesce a fingere, neanche con tutto l’impegno che ci mette.

Come io non riesco a nascondere la rabbia che mi provocano gli impulsi istintivi del mio organismo e la valvola di sfogo non può che essere lui. Mi impongo di reprimere ogni gentilezza celandola sotto tale rabbia, che si tramuta in indisponente sarcasmo nei suoi confronti:

“Nessuno ti ha obbligato a venirmi dietro, ora subisci le conseguenze delle tue decisioni.

Non osa ribattere, si è fatto piccolo come un cagnolino bastonato, anche se prova a mostrarsi forte ed in grado di incassare qualunque cosa; davvero, è poco credibile.

Sto per incamminarmi ancora, ma qualcosa mi blocca sul posto e mi impedisce di muovermi. Solo le mie mani si sollevano, per sfilare via dal mio corpo il giaccone che per me è decisamente di troppo, non ho un reale motivo per non concedermi uno spontaneo gesto di gentilezza.

Accostandomi a lui gli poso la giacca sulle spalle e lui sussulta, specchiando nei miei i suoi immensi occhi interrogativi; per lo meno, finalmente riesce a guardarmi, anche se la sua voce non vuole uscire per pormi quella domanda che resta silenziosa, impressa in quel volto tanto singolare con le sue sfumature perfette, dolcemente mascoline ed effeminate al contempo.

Altre volte mi sono scoperto a chiedermi se ci fosse un modo, una parola adatta a definire quei lineamenti unici e, come ora, risposte non ne ho trovate mai. Le mie elucubrazioni non possono che terminare in un rimprovero verso me stesso: per quale motivo dovrei attardarmi a decantare le lodi del viso di Shun, il mio fratellino, alcune volte persino troppo invadente nei miei confronti?

“Indossala” ordino senza cerimonie, con un tono che non ammette repliche “Io non ne ho bisogno.

Non riesce a fare altro che obbedire, con movimenti impacciati e goffi, segno inequivocabile che è ancora in preda all’agitazione. Quando giunge il momento di abbottonare la mia giacca sopra la propria, sembra più in difficoltà che se dovesse scalare una montagna, anche perché quella massa di tessuto pesante è decisamente ingombrante ed arduo da tenersi addosso. Ancora il mio istinto mi tradisce: prendo tra le dita il colletto dell’indumento e faccio aderire i due lembi, perché riparino perfettamente la gola del mio piccolo scocciatore e chiudo l’ultimo bottone proprio sotto al mento. Lo sento rigido come una statua e percepisco i suoi occhi ancora sbarrati su di me, benché io non lo stia guardando in volto.

Le mie mani, ancora strette sul tessuto, hanno un tremito involontario e io le sto fissando per non essere costretto a fissare quei suoi occhi. Le stacco quasi a forza e mi volto, vinto dall’assoluto bisogno di dargli le spalle:

“Diamoci una mossa!”

Mi incammino senza curarmi di controllare che mi segua. Per quel che mi riguarda ora sta a lui liberarsi di quell’ondata di stupore che lo ha assalito… io ho fatto anche troppo e ho ancora il mio bel daffare per dissipare il mio di stupore.

 

SHUN

 

Il momento di grazia finisce ben troppo presto e, dopo un istante di avvicinamento nel quale non avrei mai osato sperare, l’impenetrabile muro di ghiaccio si riforma; quando Hyoga mi dà le spalle mi sento nuovamente, spaventosamente solo in mezzo ad un deserto di gelo.

I due giacconi sovrapposti pesano sul mio corpo quasi impedendomi di muovermi ma ammetto che il mio organismo accoglie con sollievo il tepore che mi donano; ho combattuto ad Asgard in condizioni proibitive, eppure non sono mai andato eccessivamente d’accordo con il freddo, non solo per il disagio fisico, ma anche perché mi fa sentire tanto più triste. Il gelo del corpo si riflette sul gelo dell’anima e la mia condizione insieme a quella dell’universo intero mi appare quasi insopportabile in un ambiente di questo genere.

Ma forse è solo il misero stato in cui mi trovo a generare percezioni talmente negative; ho la sensazione di regredire inesorabilmente ad uno stadio di neonato incapace e bisognoso di essere tenuto per mano anche solo al fine di compiere un singolo passo.

Una parte di me, credo, si sta pentendo di avere lottato per venire qui, di aver seguito questo ragazzo che adoro fino in capo al mondo; un’altra parte è invece più convinta che mai e tenta di spingermi a comprendere che non potevo assolutamente fare altrimenti. E nonostante tutto… sto sbagliando qualunque cosa, non riesco ad agire nel modo giusto, ad assumere i comportamenti che dovrei o che Hyoga vorrebbe che io assumessi. Noto chiaramente che non è felice ed è questo ciò che mi deprime sopra ogni altra cosa; sogno di fare di tutto per donargli un po’ di felicità e, al tempo stesso, non risolvo altro che contribuire al suo malumore; sto fallendo da ogni punto di vista, ottenendo il contrario di ciò che mi prefiggo di ottenere.

Le lamentele cui mi sono lasciato andare, alla stregua di un bambino piagnucoloso, hanno solo aggiunto fango alla mia già triste condizione e il passo da qui al sentirmi una palla al piede è fin troppo breve… forse già superato da un pezzo.

“Shun…”

Sto impazzendo, la disperazione mi gioca strani scherzi; non può avermi chiamato, lui sta continuando a camminare davanti a me, lo vedo a malapena, perché gli sbuffi di neve che il vento solleva vorticosamente danno vita ad una nebbia che si infittisce istante dopo istante, eppure lo intravedo mentre continua a camminare, come se nulla fosse e a darmi la schiena. Il fischio della bufera in arrivo può aver creato nella mia mente suggestionabile una bizzarra illusione sonora… sicuramente è così.

“Stavo scherzando…”

Ancora… scuoto il capo, confuso. Sto cadendo davvero così in basso? Soffro di allucinazioni?

“Shun, mi senti?”

L’attimo dopo il mio naso si scontra violentemente con la sua schiena e ancora vorrei sprofondare, non è la prima volta che succede nel giro di poco tempo; si è di nuovo fermato senza che io me ne rendessi conto e mi sta guardando. In qualche modo sembra sorridere ma è difficile capirlo realmente, è tutto soffuso ed ovattato, il vento si fa sempre più forte, cristalli di ghiaccio mi pungono il volto, mi entrano negli occhi che fatico a tenere aperti, il fischio della tormenta sembra una risata di scherno prodotta dall’universo stesso per canzonarmi. Sono come un ubriaco in balia della più completa confusione sensoriale.

“Ti stavo prendendo in giro, prima…”

Di cosa sta parlando Hyoga? Ho la memoria ottenebrata dall’imbarazzo che provo; quando mi stava prendendo in giro?

Mi sento completamente stupido mentre lo guardo a bocca aperta, senza capire, probabilmente con l’espressione di un ebete totalmente fuori del mondo.

“Non dobbiamo arrivare a piedi fino a Kohotek. Disseminati per queste lande selvagge vi sono alcuni villaggi che servono da tramite per gli emissari del Santuario. Sono stazioni di posta in pratica, dove troveremo slitte trainate da cani che ci porteranno a destinazione.

La mia bocca continua a restare aperta; forse dovrei ridere… ma sono ben lungi dal comprendere a fondo cosa accade. Mi limito ad annuire, senza cambiare espressione.

E chiudi quella bocca” prosegue lui voltandosi e riprendendo il proprio cammino “o finiranno per congelartisi le corde vocali!”

 

 

HYOGA

 

Sfidando la tempesta, i cani corrono come se non dovessero sobbarcarsi nessun peso, leggeri e lievi sulla neve, felici di rendersi utili e di compiere ciò per cui sono nati, ciò per cui sono felici di essere nati. Io sono al posto di guida, in anni di esperienza ho imparato a condurli. Shun è accanto a me, anche se per una scansione di tempo che non so quantificare mi illudo di essere solo con i cani, nel mio mondo e la mia mente vaga, indietro nella memoria: le corse sulla slitta con Isaac, i nostri giochi con i meravigliosi husky che obbedivano solo a lui, le mie goffe figuracce, la sua complicità quando mi prendeva teneramente in giro… non voglio piangere ma quando queste fragili corde dell’anima vengono anche solo sfiorate, è difficile, troppo difficile mantenermi saldo. Per questo voglio essere solo, perché nessuno deve vedere il mio privato dolore, nessuno deve capire quanto, in realtà, io sappia piangere. Vorrei nasconderlo persino alla natura e ai cani, a me stesso… e la tempesta in questo caso mi viene in aiuto… perché quelle che mi scorrono sul viso potrebbero non essere lacrime ma la neve che si scioglie e cola sulla pelle… però le sento calde… e la neve è fredda… tento di ingannare me stesso e ciò che ottengo è un fallimento.

“Hyoga-kun, stai bene?”

Sono vicino ad odiarlo, ad odiare me stesso, perché è colpa mia se lui è qui… e odio quel suo modo di comprendere sempre tutto. Egli percepirebbe i sentimenti intorno a sé anche nella totale privazione sensoriale del mondo che lo circonda e come sia possibile non lo so, questa sua empatia non riesco assolutamente a comprenderla.

Il fatto che mi abbia appena riportato alla mente la sua presenza, inoltre, in un momento scelto decisamente male, non migliora il mio stato d’animo e nemmeno la sua posizione. Come potrebbe pretendere che, a questo punto, io non lo tratti male? Mi aveva promesso di non scocciarmi e sta disattendendo ad ogni parola data, non ho forse il diritto di mostrarmi quantomeno seccato?

Che razza di idiota integrale sono! A chi voglio darla a bere? Chi sto cercando di ingannare? Se io sono uno stronzo, perché dovrei far finta di non esserlo? Tanto vale mostrarmi tale fino in fondo, così mi volto verso di lui e affondo il mio sguardo, con la consapevole intenzione di colpirlo al cuore. Non si vede quasi nulla tuttavia, forse la tempesta mitiga ai suoi occhi la ferocia con la quale lo fisso… o, cosa più probabile, la accentua, perché i miei occhi, avvezzi alla bufera, percepiscono chiaramente il suo profondo disagio, il suo atteggiamento dimesso, mentre abbassa lo sguardo mormorando qualcosa che l’urlo degli elementi sconvolti non permette di udire ma che è, ne sono certo, una balbettata parolina di scuse.

Mi illudo di potermi rintanare, ancora, nel mio limbo di isolamento arricchito da un senso di colpa fresco fresco con cui fare i conti quando lui, coriaceo in un modo che non finirà mai di stupirmi, torna all’attacco per palesare una nuova ansia che lo assilla e non può fare a meno di esprimere, anche se la sua voce è titubante e mi serve un po’ di concentrazione per distinguere le parole che il caos elementale tenta di coprire:

“I cani non si stancheranno a trainare la slitta da qui fino a Kohotek?”

Non rispondo subito, voglio fargli credere che io sia irreparabilmente, terribilmente arrabbiato, almeno per qualche secondo e lui probabilmente si aspetta la sfuriata con la quale io, effettivamente, vorrei aggredirlo. Invece mi limito a replicare, con tono che cerco di mantenere neutro:

“Sono abituati ed amano il loro lavoro; inoltre io anni fa ho imparato a conoscerli e so stabilire quando hanno bisogno di riposo…”

Mi fermo prima di concludere, perché sto ponderando; la parte più compassionevole di me, della cui esistenza a volte sono portato a dubitare, mi suggerisce di non aggiungere la postilla che ho sulla punta della lingua ma risulta vittoriosa, come al solito, la parte più cinica e allora proseguo, senza che la mia voce assuma alcuna differente sfumatura:

“Credimi, sono più stanco io… per svariati motivi.

E’ abbastanza intelligente da comprendere l’allusione; sento la mia bocca contrarsi in un ghigno di soddisfatta ironia, ma la mia ormai proverbiale incoerenza di sentimenti ed emozioni si fa strada quasi subito e al compiacimento che ho bastardamente provato per un istante, si sostituisce un malessere decisamente più radicato e profondo che mi fa desiderare, una volta di più, di tornare indietro nel tempo per costringere Shun a rimanere a Tokyo. Una volta tanto, però, lo desidero più per lui che per me.

Sono stanco di fargli del male.

Ma che dico? Non ho sempre desiderato proteggerlo da me? Permettergli di rimanere troppo coinvolto dalle mie più intime sfere significherebbe, temo, condannarlo, se non a morte, all’infelicità eterna.

   
 
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