Ringraziando
chi di voi ha commentato la prima parte, ecco qui il seguito^^
Originariamente dovevano essere solo due
parti ma siccome io non ho il dono della sintesi, saranno
almeno tre…
spero solo tre ma non ci giuro^^
Be’ intanto, se vi va, leggete e io mi
metto al lavoro per le altre mie fic^*^
PARTE 2
Col mio soffio
di vulcano cancellerò
il gelo di questa stanza
e col volo di una freccia trafiggerò
quella pallida luna a distanza;
ci sarò e non ci sarò,
continuerò
la mia invisibile danza,
senza tracce sulla neve lieve sarò,
mi dirai di sì o mi dirai di no.
Avrà il silenzio la voce che ho,
e mani lunghe abbastanza,
sarà d'attesa e d'intesa, però
saprò quello che ancora non so,
quello che ancora non so.
Mi dirai di sì o mi dirai di no.
Col mio cuore di matita correggerò
gli errori fatti dal tempo
e con passo di guardiano controllerò
che si fermi o che avanzi più lento;
ci sarò e non ci sarò, ti parlerò
con ogni fragile accento
sarò traccia sulla neve, neve sarò,
mi dirai di sì o mi dirai di no.
Sul manoscritto l'inchiostro sarò
e mi avrai nero su bianco,
saranno gli occhi o i tarocchi, però
saprò quello che ancora non so,
quello che ancora non so.
Mi dirai di sì o mi dirai di no…
(Branduardi,
L’apprendista stregone)
SHUN
Sono qui, su quest’aereo con lui.
Fino a ieri mattina una cosa del genere mi sarebbe
sembrata un sogno ad occhi aperti, ma ora… che dire? A meno
che non sopraggiunga qualcosa di orribile a svegliarmi… no, forse non è
un sogno.
Il dondolio leggero dell’aereo è
così dolce, rilassante tanto da provocarmi il desiderio di chiudere gli occhi e
lasciarmi scivolare nel limbo del sonno, ma non voglio farlo. Ho paura,
nonostante tutto; ho ancora il terrore che non sia vero e che addormentarmi
significherebbe, in realtà… risvegliarmi dal sogno?
Mi sento terribilmente idiota, mi
sto costruendo castelli in aria assolutamente senza senso; cosa starà mai
succedendo di così straordinario poi? Neanche fosse la
prima volta che viaggiamo insieme.
Eppure c’è qualcosa di diverso… non stiamo
viaggiando per raggiungere un campo di battaglia e siamo soli… e lui mi ha
permesso di violare prepotentemente la sua intimità; sì, perché è questo che
sto facendo, non lo posso negare: ho preteso di inserirmi prepotentemente nel
suo mondo così sacro… perché me lo ha concesso?
Non mi faccio illusioni, non mi stupirebbe lo scoprire che, in realtà, mi sta odiando a
morte per essermi spinto tanto oltre. In effetti, il suo atteggiamento
lascerebbe intendere proprio questo: da quando siamo partiti non mi ha rivolto
neanche una parola, se non quelle poche inerenti alle necessità pratiche del
viaggio eppure, nonostante la sua palese freddezza, nonostante una parte di me
continui a dirmi che ho sbagliato e che dovrei
sentirmi terribilmente in colpa, io non riesco a sentirmi triste… tutt’altro…
perché al di là di tutto non ha rifiutato la mia decisione, non si è opposto e
sono consapevole che a nessun altro avrebbe accordato un tale privilegio.
Sta guardando fuori
dal finestrino, adesso, ed il suo volto è un’imperscrutabile maschera di
sostenuta indifferenza, non si accorge delle occhiate che gli rivolgo
furtivamente... o finge di non accorgersene; spero nella prima ipotesi
tuttavia… gli ho promesso che non mi sarei rivelato invadente e non vorrei
infrangere la promessa così presto, ma cosa posso farci se non posso fare a
meno di sentirmi come un cagnolino adorante che non riesce a distogliere la
propria attenzione dal suo compagno umano? In fin dei conti, egli è padrone del
mio cuore e proprio come farebbe un cane per l’amico, anche io farei qualunque cosa per Hyoga.
In parte vorrei sotterrarmi per
pensieri così sdolcinati, ma sono un sentimentale, non posso negarlo e
rinnegare la mia natura; sospiro e mi sforzo, per
l’ennesima volta, di distogliere gli occhi dal suo profilo così innegabilmente
perfetto… ma non mi importa di questo… lui è bello, sì, ma non per questo si è
impossessato a tal punto del mio animo. Gli voglio bene da sempre e,
semplicemente, questo affetto si è con naturalezza
evoluto in qualcos’altro, con una spontaneità che non ho saputo controllare…
come si possono controllare certe cose?
Cullato dal gentile rollio
dell’aereo, sento la testa sempre più pesante, le palpebre desiderose di
chiudersi; come sarebbe bello posare il capo sulla sua spalla e lasciarmi
andare al sogno di saperlo mio… ma non lo posso fare… un simile gesto lo
renderebbe furioso, temo, e… se dopo volesse cacciarmi?
Ho tanto sonno; il bisogno di
abbandonarmi al sonno sta annebbiando i miei sensi ed
incrinando la mia percezione della realtà…
Ti amo, Hyoga, e sono così felice
di quello che sta accadendo che non oso pretendere di più…
HYOGA
Ancora sono qui, confuso, a
domandarmelo: perché gli ho detto sì? No… non è esatto, non mi ha lasciato la
possibilità di dire sì o no. Farei meglio a chiedermi:
perché messo davanti al fatto compiuto non gli ho detto, molto semplicemente,
che non poteva venire?
E ancora non mi è chiaro quale sia il sentimento prevalente nell’averlo qui, accanto a me;
è un’astrusa commistione di rabbia, euforia, noia, interesse, seccatura, sollievo…
e una felicità che non mi sembra vero di poter provare.
Sento i suoi sguardi addosso e
vorrei rimproverarlo aspramente, urlandogli di farsi gli affari propri, di non
seccarmi e al contempo… vorrei coccolarlo, farmi vincere dalla tenerezza che
quegli occhi di bosco mi trasmettono, quelle espressioni da cucciolo adorante
che non riesco a comprendere, che mi fanno infuriare perché non so come ci
riesce… ad adorarmi così!
Credo che il vetro di questo
finestrino finirà per liquefarsi sotto il mio sguardo fisso; sto rifiutando
ogni comunicazione che travalichi la stretta necessità. Mi sto comportando
male, ne sono consapevole, ma in fondo non gli ho chiesto io di venire, ne avrei fatto volentieri a meno… almeno credo…
Un peso lieve sulla mia spalla mi
provoca un irrefrenabile sussulto e mi volto, di scatto, con un cipiglio che,
lo so, vuole palesare a chi mi sta vicino quanto io sia seccato, ma subito dopo
le mie membra si irrigidiscono e io mi blocco,
trattenendo quasi il respiro, come una creatura improvvisamente capitata sotto
gli infallibili occhi della gorgone.
É probabile che, senza rendersene
conto, si sia addormentato e inconsapevolmente abbia lasciato scivolare il capo
contro di me.
Perché adesso il mio cuore si è messo a battere
tanto forte?
Lui… è come un bambino, con quelle
ciglia tanto lunghe da sembrare femminee, le labbra appena schiuse e…
sorridenti…
Cosa starà sognando questa piccola peste
dolcemente adagiata sulla mia spalla? I suoi capelli morbidi come una nuvola mi
solleticano il viso.
Non ci troviamo su un jet privato della famiglia Kido, in quanto preferisco non
chiedere laddove non mi sia indispensabile ed arrangiarmi come una persona
normale, quindi ci sono altri passeggeri oltre a noi; cosa potrebbero pensare
osservando questo bizzarro contatto tra due giovani adolescenti?
Sono uno stupido; cosa dovrebbe
importarmene dopotutto? Proprio io, che mi vanto di non aver nulla da spartire
con il resto del mondo, perché dovrei tenere in qualche conto il giudizio
altrui?
Ciò non toglie che Shun non
dovrebbe dormire così sulla mia clavicola, non che ci sia qualcosa di male, di
forzatamente ambiguo o di sconveniente, ma non mi piace: in qualche modo mi
turba e mi spaventa, anche se ammettere e respingere queste mie sensazioni è un
tutt’uno, una continua lotta contro me stesso.
Allungo una mano, per allontanarlo
da me, anche se vorrei riuscire a farlo senza che si svegli ma, non appena gli
do una piccola spinta, il sorriso sulle sue labbra si
spegne ed egli brontola qualcosa nel sonno, opponendo resistenza al mio gesto.
Stringo i denti, mi arrabbio, ma qualcosa mi impedisce
di insistere, la sola idea di mostrarmi più brusco con lui, in questo momento
mi trasmette la voglia di piangere. Già il fatto di avere spezzato, così
crudelmente, il suo sorriso, il suo sonno incantevole,
mi dipinge ai miei stessi occhi come un cinico senza cuore, come un ragazzo
malvagio che ha calpestato, senza riguardo e per il solo gusto di farlo, la più
graziosa margherita di un prato; io ho calpestato il suo bel sogno, qualunque
esso fosse.
E il mio maledetto cuore continua a battere come se volesse scoppiare, non riesco a riacquistare un minimo di controllo sul mio organismo in subbuglio… tutto il mio organismo… passi il cuore, ma quell’altra cosa, quella tensione che sento nel basso ventre…
Sbuffo tra me… tanti rigiri di parole per non confessare a me stesso che mi sono eccitato e che sono nel totale imbarazzo dovuto al
timore che qualcuno se ne accorga!
É tutto sbagliato, non dovevo permettergli di venire e non devo permettergli di
intromettersi a tal punto nella mia vita!
Sono un debole… perché non riesco a proteggerlo da me stesso?
SHUN
É
uno scossone poco gentile a svegliarmi e per un istante fatico a ricordare dove
mi trovo e cosa ci faccio lì.
“Muoviti.
Siamo arrivati!”
La
secca imposizione, pronunciata con una durezza che quasi mi umilia, mi scuote
del tutto dal torpore e mi rendo finalmente conto della realtà delle cose… mi
rendo conto di cosa è accaduto e vorrei scomparire… non posso averlo fatto
davvero!
La
mia testa è ancora appoggiata sulla spalla di Hyoga nel momento in cui la mia
mente si illumina e, non appena me ne accorgo, scatto
come una molla per staccarmi da lui.
Mi
sento avvampare e la mia goffaggine mi impedisce di
trovare qualunque parola, fosse anche solo per scusarmi o giustificarmi. Il
viso di Hyoga non lascia trasparire assolutamente nulla, ma sembra teso,
arrabbiato; ho cominciato sinceramente male, infrangendo fin da subito i limiti
che mi ero imposto e che avevo giurato a me stesso ed a lui di non oltrepassare.
“Muoviti, qui non aspettano i tuoi comodi!”
Si
è già alzato in piedi quando mi aggredisce con questo
nuovo ordine, ma non può lasciare il proprio posto se prima non mi alzo anche
io e la sua impazienza è palese; allora, ancora in preda ad un turbine di
confusione, mi metto in piedi, maldestramente, mantenendo a stento
l’equilibrio. L’occhiata con cui mi trafigge è quanto di più eloquente si possa pensare, almeno per come la recepisco io; se con essa
decidesse di congelarmi, diventerei un blocco di ghiaccio, qui e ora,
istantaneamente.
Mi
affretto ad uscire dalla mia poltroncina e per la foga scontro un passeggero
che transita in quel momento; probabilmente arrossisco in maniera vistosa e mi scuso con un inchino, lui risponde qualcosa che
non capisco, probabilmente in russo, ma dal tono sono portato a pensare che si
tratti di un insulto o comunque di qualcosa di non troppo carino.
“Maledizione,
Shun, ti vuoi muovere?”
Hyoga
è sicuramente seccato e, probabilmente, si sta anche vergognando di viaggiare
in compagnia di un ragazzino imbranato che lo sta
mettendo in cattiva luce agli occhi del mondo; mi sento come un goffo bambino
rimproverato dal padre.
Mi
affretto ad unirmi alla scia di persone finché, a testa bassa, scendo
dall’aereo: non oso guardare in faccia nessuno e non vedo l’ora di allontanarmi
da questa folla dalla quale mi sento scrutato e giudicato.
HYOGA
L’aeroporto
di Yakutsk è affollato oggi, ma la strada che prenderemo noi sarà assolutamente
deserta e probabilmente sconosciuta a tutte queste persone.
Com’è
strano.
Shun
sembra un cucciolo spaventato e io sto odiando me stesso per la durezza con cui
l’ho trattato fino ad ora; il fatto è che mi sento stressato e ho i nervi a
fior di pelle, non riesco a controllare l’elettricità che attraversa il mio
organismo. Sembra quasi che il prolungato contatto della testolina di Shun con
la mia spalla mi abbia psichicamente distrutto e tale consapevolezza mi rende
furioso verso me stesso.
Il
mio compagno è stranito e, quando quell’uomo odioso gli rivolge quell’insulto
in russo, sono tentato di espandere il mio cosmo per congelarlo e ridurre poi
la statua di ghiaccio che ne sarebbe derivata in tanti
pezzettini minuscoli… perché nessuno deve trattare così Shun in mia presenza!
Quel tizio non sa quanto sia infima la sua persona al
nostro cospetto, ci deve la vita, come ce la deve il mondo intero! Non mi piace
farmene un vanto, non pretendo nulla in cambio, ma il rispetto sì… e rispondo
alla superbia di simili esseri strafottenti con una pari superbia…
anzi, una superbia che forse ha qualche ragion d’essere in più.
Shun
sembra così triste, adesso, dopo avere accumulato una sbadataggine sull’altra;
probabilmente si vergogna anche nei miei confronti e non può immaginare,
invece, quanta tenerezza mi faccia e quanto io tenda ad essere, di solito,
molto più goffo ed intimidito di lui se mi immergo
nella quotidianità… semplicemente lo maschero meglio sotto il mio strato di
ghiaccio infrangibile… non sono candido come lui, non sono così limpido e vero.
Ritiriamo
in fretta i bagagli e ci avviamo nella neve; l’atmosfera è cupa, un inizio di
tempesta imperversa, ma non sarà un problema, neanche per Shun che ha
affrontato senza crollare le bufere di Asgard. Ciò
nonostante provo una fitta al cuore al pensiero della camminata che lo attende
in mezzo a quello che assumerà l’aspetto di un inferno ghiacciato.
Mi
segue a pochi passi di distanza e non ha ancora sollevato il capo… mi dispiace,
ma non so che fare… non sono in grado di risollevargli il morale.
Sta
rimuginando tra sé, probabilmente sta cercando le
parole giuste per dirmi una cosa, sta combattendo contro se stesso per trovare
il coraggio e, se lo conosco bene, tra poco partirà all’attacco.
Mi
viene quasi da ridacchiare quando sento i suoi
passetti farsi più veloci, con il chiaro intento di giungere al mio fianco e,
al tempo stesso, la sua vocetta concitata mi aggredisce l’orecchio:
“Hyoga,
senti! Io… devo chiederti scusa!”
“Per
che cosa?” chiedo, senza mascherare la sorpresa; nel frattempo mi fermo e lo
scruto, cosa che sembra fiaccare ogni sua risoluzione; mi scopro
improvvisamente addolorato rendendomi conto di quanta paura lui abbia di me.
Una volta non lo intimidivo a tal punto, ma non posso pretendere altro; in fin
dei conti, io stesso sto lottando perché non mi si appiccichi addosso come una
colla… lo sta già facendo fin troppo.
China
nuovamente il capo, gli occhi tremano sotto le palpebre un po’ abbassate e le
sue guance si fanno di porpora.
“Per…
per prima” balbetta con la voce ridotta ad un lieve sospiro “Io… mi sono
addormentato… non mi ero accorto di…” deglutisce, si passa lievemente la lingua
sulle labbra e si blocca. É palesemente in crisi; le mie braccia bramano di
allargarsi per stringerlo forte, ma la razionalità prende ancora il sopravvento
e il controllo delle mie azioni, così mi limito a
dargli le spalle e a rivolgergli una risposta lapidaria:
“Non
importa, ma la prossima volta fa più attenzione!”
Il
mio atteggiamento sconsiglierebbe ogni tentativo di proseguire il discorso… ed
effettivamente Shun non riprova, ma percepisco il suo sospiro
mentre riprende il cammino alle mie spalle.
Dopo
qualche minuto, la sua vocina si fa risentire, timida e sommessa, a stento
udibile perché coperta dal fischio del vento:
“Hyoga…”
“Dimmi”
rispondo laconicamente, siccome lui sembra non voler continuare senza attendere
il mio permesso.
“Come
arriveremo al tuo villaggio?”
Mi
fermo, perplesso:
“A
piedi, naturalmente! Come si potrebbe raggiungere altrimenti un villaggio
collegato ad una scuola segreta di Atene?”
Schiude
un po’ le labbra, poi annuisce; ha di nuovo quell’espressione
mortificata sul viso.
Per
più di un’ora non diciamo nulla e l’aria gelata impregnata di ghiaccio sferza i
nostri volti, unico frammento di corpo non riparato dall’imbottitura pesante
che ci avvolge. Io potrei anche fare a meno di tale protezione, ma finché eravamo in mezzo alla gente non volevo certo dare
nell’occhio e ora, per comodità, mi lascio tutta questa massa di abiti addosso
per non aprire la valigia e infilarli dentro.
Un
sussurro da pulcino implume mi raggiunge dopo un interminabile silenzio durante
il quale mi ero illuso di essere completamente solo:
“Hyoga…”
“Che
cosa c’è?” brontolo, trattenendo a stento uno sbuffo di impazienza.
“Quanto
manca ancora?”
Cerca
di nascondere la stanchezza sotto un tono di semplice curiosità
ma non mi inganna.
“Praticamente siamo appena partiti” è la mia cinica risposta
e per poco non scoppio a ridere alla sua esclamazione di assenso con la quale
cerca di nascondere il disappunto.
“Rassegnati
a camminare per… parecchio tempo.”
“Non
c’è alcun problema… era solo per sapere…”
Mi
sono già voltato per riprendere il cammino quando
pronuncia tali parole, quindi non posso guardare l’espressione che ha sul viso,
ma l’inflessione della sua voce, benché faccia di tutto per fingere, cosa di
cui non è assolutamente in grado, tradisce una sorta di disperazione. Mio
malgrado provo una gran pena, così mi fermo ancora, per osservarlo.
É
a capo chino, immerso in un suo mondo personale, così non si accorge che mi
sono fermato se non quando mi è quasi addosso; fa un balzo indietro, confuso e
ricomincia con il suo sommesso e timido balbettio:
“Sc…
scusa…”
Si
sente in dovere di scusarsi per ogni minima cosa, è evidente che si sente un
peso ed un intralcio. Il problema è che io stesso non ho ancora compreso come
sto vivendo questa situazione… lo considero davvero un peso?
Si
ferma e deglutisce, i suoi occhi mi sfuggono e basta guardarlo per comprendere
che, probabilmente, vorrebbe fuggire anche lui, il più lontano possibile da me.
“Hai freddo?”
La
domanda mi è uscita prima che potessi fermarla, o che semplicemente mi accorgessi di essere in procinto di formularla; sobbalza,
come morso da un serpente e la sua risposta è una specie di squittio poco
udibile nel turbinio di elementi scatenatosi intorno a noi:
“N…
no… no…”
Non
gli credo ovviamente; l’intirizzimento delle sue membra è palese.
Evidentemente
consapevole di essere poco credibile, Shun rintana
ancora di più la testa tra le spalle e replica, con voce ancora più bassa, tanto
che non potrei udirlo se non l’avessi attesa da prima e non avessi immaginato
le successive parole:
“Forse…
un pochino…”
Un
pochino… probabilmente significa che sta morendo congelato.
E
probabilmente si sarebbe morso la lingua piuttosto che ammettere un proprio
disagio ma non riesce a fingere, neanche con tutto
l’impegno che ci mette.
Come
io non riesco a nascondere la rabbia che mi provocano
gli impulsi istintivi del mio organismo e la valvola di sfogo non può che
essere lui. Mi impongo di reprimere ogni gentilezza
celandola sotto tale rabbia, che si tramuta in indisponente sarcasmo nei suoi
confronti:
“Nessuno
ti ha obbligato a venirmi dietro, ora subisci le conseguenze delle tue
decisioni.”
Non
osa ribattere, si è fatto piccolo come un cagnolino bastonato, anche se prova a
mostrarsi forte ed in grado di incassare qualunque cosa; davvero, è poco
credibile.
Sto
per incamminarmi ancora, ma qualcosa mi blocca sul posto e mi
impedisce di muovermi. Solo le mie mani si sollevano, per sfilare via
dal mio corpo il giaccone che per me è decisamente di
troppo, non ho un reale motivo per non concedermi uno spontaneo gesto di
gentilezza.
Accostandomi
a lui gli poso la giacca sulle spalle e lui sussulta,
specchiando nei miei i suoi immensi occhi interrogativi; per lo meno,
finalmente riesce a guardarmi, anche se la sua voce non vuole uscire per pormi
quella domanda che resta silenziosa, impressa in quel volto tanto singolare con
le sue sfumature perfette, dolcemente mascoline ed effeminate al contempo.
Altre
volte mi sono scoperto a chiedermi se ci fosse un modo, una parola adatta a
definire quei lineamenti unici e, come ora, risposte non ne ho
trovate mai. Le mie elucubrazioni non possono che terminare in un rimprovero
verso me stesso: per quale motivo dovrei attardarmi a decantare le lodi del
viso di Shun, il mio fratellino, alcune volte persino troppo
invadente nei miei confronti?
“Indossala”
ordino senza cerimonie, con un tono che non ammette repliche “Io non ne ho
bisogno.”
Non
riesce a fare altro che obbedire, con movimenti impacciati e goffi,
segno inequivocabile che è ancora in preda all’agitazione. Quando giunge
il momento di abbottonare la mia giacca sopra la propria, sembra più in
difficoltà che se dovesse scalare una montagna, anche
perché quella massa di tessuto pesante è decisamente ingombrante ed arduo da
tenersi addosso. Ancora il mio istinto mi tradisce: prendo tra le dita il
colletto dell’indumento e faccio aderire i due lembi, perché riparino
perfettamente la gola del mio piccolo scocciatore e chiudo l’ultimo bottone
proprio sotto al mento. Lo sento rigido come una
statua e percepisco i suoi occhi ancora sbarrati su di me, benché io non lo
stia guardando in volto.
Le
mie mani, ancora strette sul tessuto, hanno un tremito involontario e io le sto
fissando per non essere costretto a fissare quei suoi
occhi. Le stacco quasi a forza e mi volto, vinto dall’assoluto bisogno di
dargli le spalle:
“Diamoci
una mossa!”
Mi incammino
senza curarmi di controllare che mi segua. Per quel che mi riguarda ora sta a
lui liberarsi di quell’ondata di stupore che lo ha assalito… io ho fatto anche
troppo e ho ancora il mio bel daffare per dissipare il mio di stupore.
SHUN
Il
momento di grazia finisce ben troppo presto e, dopo un istante di avvicinamento nel quale non avrei mai osato sperare,
l’impenetrabile muro di ghiaccio si riforma; quando Hyoga mi dà le spalle mi
sento nuovamente, spaventosamente solo in mezzo ad un deserto di gelo.
I
due giacconi sovrapposti pesano sul mio corpo quasi impedendomi di muovermi ma ammetto che il mio organismo accoglie con
sollievo il tepore che mi donano; ho combattuto ad Asgard in condizioni
proibitive, eppure non sono mai andato eccessivamente d’accordo con il freddo,
non solo per il disagio fisico, ma anche perché mi fa sentire tanto più triste.
Il gelo del corpo si riflette sul gelo dell’anima e la mia condizione insieme a quella dell’universo intero mi appare quasi insopportabile
in un ambiente di questo genere.
Ma
forse è solo il misero stato in cui mi trovo a
generare percezioni talmente negative; ho la sensazione di regredire
inesorabilmente ad uno stadio di neonato incapace e bisognoso di essere tenuto
per mano anche solo al fine di compiere un singolo passo.
Una
parte di me, credo, si sta pentendo di avere lottato per venire qui, di aver seguito questo ragazzo che adoro fino in capo
al mondo; un’altra parte è invece più convinta che mai e tenta di spingermi a
comprendere che non potevo assolutamente fare altrimenti. E nonostante tutto…
sto sbagliando qualunque cosa, non riesco ad agire nel modo giusto, ad assumere
i comportamenti che dovrei o che Hyoga vorrebbe che io
assumessi. Noto chiaramente che non è felice ed è questo ciò
che mi deprime sopra ogni altra cosa; sogno di fare di tutto per donargli un
po’ di felicità e, al tempo stesso, non risolvo altro che contribuire al suo
malumore; sto fallendo da ogni punto di vista, ottenendo il contrario di ciò
che mi prefiggo di ottenere.
Le
lamentele cui mi sono lasciato andare, alla stregua di
un bambino piagnucoloso, hanno solo aggiunto fango alla mia già triste
condizione e il passo da qui al sentirmi una palla al piede è fin troppo breve…
forse già superato da un pezzo.
“Shun…”
Sto
impazzendo, la disperazione mi gioca strani scherzi; non può avermi chiamato,
lui sta continuando a camminare davanti a me, lo vedo a malapena, perché gli
sbuffi di neve che il vento solleva vorticosamente danno vita ad una nebbia che
si infittisce istante dopo istante, eppure lo
intravedo mentre continua a camminare, come se nulla fosse e a darmi la
schiena. Il fischio della bufera in arrivo può aver creato
nella mia mente suggestionabile una bizzarra illusione sonora… sicuramente è
così.
“Stavo
scherzando…”
Ancora…
scuoto il capo, confuso. Sto cadendo davvero così in basso? Soffro di allucinazioni?
“Shun,
mi senti?”
L’attimo
dopo il mio naso si scontra violentemente con la sua schiena e ancora vorrei sprofondare, non è la prima volta che succede nel
giro di poco tempo; si è di nuovo fermato senza che io me ne rendessi conto e
mi sta guardando. In qualche modo sembra sorridere ma
è difficile capirlo realmente, è tutto soffuso ed ovattato, il vento si fa
sempre più forte, cristalli di ghiaccio mi pungono il volto, mi entrano negli
occhi che fatico a tenere aperti, il fischio della tormenta sembra una risata
di scherno prodotta dall’universo stesso per canzonarmi. Sono come un ubriaco
in balia della più completa confusione sensoriale.
“Ti
stavo prendendo in giro, prima…”
Di
cosa sta parlando Hyoga? Ho la memoria ottenebrata dall’imbarazzo che provo;
quando mi stava prendendo in giro?
Mi
sento completamente stupido mentre lo guardo a bocca
aperta, senza capire, probabilmente con l’espressione di un ebete totalmente
fuori del mondo.
“Non
dobbiamo arrivare a piedi fino a Kohotek. Disseminati per queste lande selvagge
vi sono alcuni villaggi che servono da tramite per gli emissari del Santuario.
Sono stazioni di posta in pratica, dove troveremo slitte trainate da cani che
ci porteranno a destinazione.”
La
mia bocca continua a restare aperta; forse dovrei ridere… ma
sono ben lungi dal comprendere a fondo cosa accade. Mi limito ad annuire, senza
cambiare espressione.
“E chiudi quella bocca” prosegue lui voltandosi e riprendendo
il proprio cammino “o finiranno per congelartisi le corde vocali!”
HYOGA
Sfidando
la tempesta, i cani corrono come se non dovessero sobbarcarsi nessun peso,
leggeri e lievi sulla neve, felici di rendersi utili e di compiere ciò per cui sono nati, ciò per cui sono felici di essere nati.
Io sono al posto di guida, in anni di esperienza ho
imparato a condurli. Shun è accanto a me, anche se per una scansione di tempo
che non so quantificare mi illudo di essere solo con i
cani, nel mio mondo e la mia mente vaga, indietro nella memoria: le corse sulla
slitta con Isaac, i nostri giochi con i meravigliosi husky che obbedivano solo
a lui, le mie goffe figuracce, la sua complicità quando mi prendeva teneramente
in giro… non voglio piangere ma quando queste fragili corde dell’anima vengono
anche solo sfiorate, è difficile, troppo difficile mantenermi saldo. Per questo
voglio essere solo, perché nessuno deve vedere il mio privato dolore, nessuno
deve capire quanto, in realtà, io sappia piangere.
Vorrei nasconderlo persino alla natura e ai cani, a me stesso… e la tempesta in
questo caso mi viene in aiuto… perché quelle che mi scorrono sul viso
potrebbero non essere lacrime ma la neve che si
scioglie e cola sulla pelle… però le sento calde… e la neve è fredda… tento di
ingannare me stesso e ciò che ottengo è un fallimento.
“Hyoga-kun,
stai bene?”
Sono
vicino ad odiarlo, ad odiare me stesso, perché è colpa
mia se lui è qui… e odio quel suo modo di comprendere sempre tutto. Egli
percepirebbe i sentimenti intorno a sé anche nella totale privazione sensoriale
del mondo che lo circonda e come sia possibile non lo so, questa sua empatia
non riesco assolutamente a comprenderla.
Il
fatto che mi abbia appena riportato alla mente la sua presenza, inoltre, in un
momento scelto decisamente male, non migliora il mio
stato d’animo e nemmeno la sua posizione. Come potrebbe pretendere che, a
questo punto, io non lo tratti male? Mi aveva promesso
di non scocciarmi e sta disattendendo ad ogni parola
data, non ho forse il diritto di mostrarmi quantomeno seccato?
Che
razza di idiota integrale sono! A chi voglio darla a
bere? Chi sto cercando di ingannare? Se io sono uno stronzo, perché dovrei far finta di non
esserlo? Tanto vale mostrarmi tale fino in fondo, così mi volto verso di lui e
affondo il mio sguardo, con la consapevole intenzione di colpirlo al cuore. Non
si vede quasi nulla tuttavia, forse la tempesta mitiga ai suoi occhi la ferocia
con la quale lo fisso… o, cosa più probabile, la accentua, perché i miei occhi,
avvezzi alla bufera, percepiscono chiaramente il suo profondo disagio, il suo
atteggiamento dimesso, mentre abbassa lo sguardo mormorando qualcosa che l’urlo
degli elementi sconvolti non permette di udire ma che è, ne sono
certo, una balbettata parolina di scuse.
Mi illudo
di potermi rintanare, ancora, nel mio limbo di isolamento arricchito da un
senso di colpa fresco fresco con cui fare i conti quando lui, coriaceo in un
modo che non finirà mai di stupirmi, torna all’attacco per palesare una nuova
ansia che lo assilla e non può fare a meno di esprimere, anche se la sua voce è
titubante e mi serve un po’ di concentrazione per distinguere le parole che il
caos elementale tenta di coprire:
“I
cani non si stancheranno a trainare la slitta da qui fino a Kohotek?”
Non
rispondo subito, voglio fargli credere che io sia irreparabilmente,
terribilmente arrabbiato, almeno per qualche secondo e lui probabilmente si
aspetta la sfuriata con la quale io, effettivamente, vorrei aggredirlo. Invece
mi limito a replicare, con tono che cerco di mantenere neutro:
“Sono
abituati ed amano il loro lavoro; inoltre io anni fa ho imparato a conoscerli e
so stabilire quando hanno bisogno di riposo…”
Mi
fermo prima di concludere, perché sto ponderando; la
parte più compassionevole di me, della cui esistenza a volte sono portato a
dubitare, mi suggerisce di non aggiungere la postilla che ho sulla punta della
lingua ma risulta vittoriosa, come al solito, la parte più cinica e allora
proseguo, senza che la mia voce assuma alcuna differente sfumatura:
“Credimi,
sono più stanco io… per svariati motivi.”
E’
abbastanza intelligente da comprendere l’allusione; sento la mia bocca
contrarsi in un ghigno di soddisfatta ironia, ma la mia ormai proverbiale
incoerenza di sentimenti ed emozioni si fa strada
quasi subito e al compiacimento che ho bastardamente provato per un istante, si
sostituisce un malessere decisamente più radicato e profondo che mi fa
desiderare, una volta di più, di tornare indietro nel tempo per costringere
Shun a rimanere a Tokyo. Una volta tanto, però, lo desidero più per lui che per
me.
Sono
stanco di fargli del male.
Ma che
dico? Non ho sempre desiderato proteggerlo da me? Permettergli di rimanere
troppo coinvolto dalle mie più intime sfere significherebbe,
temo, condannarlo, se non a morte, all’infelicità eterna.