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Autore: Marge    29/03/2014    2 recensioni
Raccolta di racconti ambientati in Senegal, dal passato ai giorni nostri. Ho deciso di occuparmi di diversi temi importanti collegati a questo paese. Per me è una sorta di esperimento narrativo, perché è un ambiente che conosco ma comunque molto lontano dalla nostra società.
1. Giorno di caccia (tematica: schiavitù)
2. La seconda moglie (tematica: poligamia)
Genere: Angst, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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GIORNO DI CACCIA




Il giorno in cui mi prendono è un giorno come gli altri, al villaggio. Le mie sorelle maggiori sono andate a prendere l’acqua al pozzo, mia madre pesta il miglio con energia nel mortaio, io controllo Madjen. Lui piange e si dimena.
“È la pancia, gli fa male” mi spiega mia madre. “Succede a tutti i neonati.”
“Sono gli spiriti che visitano il suo corpo per controllare che sia tutto in ordine” dice mia zia, che dal suo posticino in ombra sotto il baobab non si perde una foglia di ciò che accade o viene detto nel nostro cortile. Intreccia della paglia: sua figlia maggiore, Ngoné, si sposerà la prossima settimana e lei vuole prepararle un paravento per la capanna dove andrà ad abitare. Quel matrimonio la rende felice e lavora velocemente: Ngoné sposerà un giovane del nostro stesso villaggio, un tipo affidabile, finirà ad abitare poche capanne più in là e potrà continuare la sua vita accanto a noi, anche se lascerà la nostra famiglia per quella di Mamadou.
In quel momento arriva proprio lei, Ngoné; è raggiante e ci mostra il gris-gris che le è stato donato dalla madre di sua madre: aiuterà a gonfiarle il ventre più e più volte, affinché possa partorire figli sani, belli e possibilmente maschi. Fa scorrere tra le dita il cordoncino di pelle di montone e perline come se stesse contando tra sé e sé i giorni che la separano dal matrimonio.
È in quel momento che udiamo le urla.
“Bianchi, bianchi!”
“Cacciatori!”
Quelle due terribili parole si rincorrono di capanna in capanna.
“Seny, prendi Madjen e scappate nella foresta, presto!” dice mia madre. Ngoné viene spinta dalla sua e ci ritroviamo a correre fianco a fianco, saltando rami e cespugli. Madjen mi pesa e strilla, sbuffo e quasi mi cade. Ngonè me lo toglie dalle braccia e mi incita: “Forza, Seny, corri!”
Corriamo. Ho il fiato così corto che quasi non riesco più a respirare e un dolore lancinante al fianco mi fa chiudere gli occhi. Cado in ginocchio, Ngoné mi viene vicino e si accoccola.
“Siamo abbastanza lontane” commenta. Ci guardiamo attorno: solo gli alberi attorno a noi. Tiriamo un sospiro di sollievo, e perfino Madjen sembra calmarsi. Lei lo culla, poi si slaccia il pagne e si lega il bambino sulla schiena. Lui adora quella posizione: si addormenta all’istante.
È proprio in quel momento, quando mi rilasso e mi sdraio in terra per riposare i muscoli doloranti, che il gruppo di cacciatori bianchi compare davanti a noi, a fucili spianati.


Finalmente ci tirano fuori dalla cella buia. Il sole mi ferisce gli occhi, devo sbatterli tra loro più volte.
“Ngoné, Ngoné!” piagnucolo; riesco a trovare la sua mano e mi appendo al suo braccio.
Dopo un po’ provo a mettere a fuoco: un cortile, tante donne. Tutte quelle che erano nella cella, ma lì non potevo vederle, e ora mi sembrano tantissime.
Un uomo bianco urla qualcosa in francese.
“Dice di far silenzio” ci traduce una ragazza. È con noi nella cella da sempre, ha avuto modo di raccontarci la sua vita: viene da un villaggio molto lontano, ha attraversato così tante terre che alla fine è riuscita a capire qualcosa di quella lingua delicata. Parlare con lei è stata una delle poche consolazioni di questi giorni infiniti, il cui conto mi è sfuggito dalle mani. Non tutte le donne della cella parlano wolof, alcune vengono da paesi così lontani che non ho mai sentito neanche nominare; e ora che posso guardarle alla luce del sole mi rendo conto di quanto siano diverse, la loro pelle sia di un marrone più chiaro, gli zigomi più alti, il corpo più longilineo; e ve ne sono altre invece basse e larghe, scure come noi ma dal volto differente. Non avevo mai visto tanta diversità in vita mia.
Poi mi guardo attorno, fino a che, in fondo, scorgo un’altra cancellata come la nostra, sbarrata, al di là della quale un mucchio di bambini ci guarda in silenzio, appeso alle sbarre.
“Ngoné, guarda, i bambini!” esclamo puntando il dito. “Madjen potrebbe essere lì con loro!”
Lei scuote la testa e gli occhi le si bagnano. Non vediamo Madjen da quando siamo state catturate. Mi viene in mente mio padre, così felice quando finalmente era nato un bambino maschio. Lo rivedrò mai? Cosa è accaduto a mia madre? E le mie sorelle? Perché non ci siamo ritrovate tutte nella stessa cella? Quanti cacciatori bianchi esistono?
Sono piena di domande e avrei voglia di urlare e allo stesso tempo non ne posso più, vorrei le risposte, qualsiasi esse siano. In tutto quel tempo , nella cella, non abbiamo fatto altro che sognare, ma ciò che veramente accade non è mai ciò che abbiamo pensato.
Il più diverso di tutti è sicuramente l’uomo bianco. Urla, punta il fucile, ci colpisce finché non capiamo che dobbiamo formare una fila di fronte a lui; cammina avanti e indietro, ogni tanto strappa via il pagne a qualcuna, la valuta per bene a corpo nudo. Nessuna di noi osa fiatare, nonostante la vergogna.
Non è per il corpo nudo, non è per la sporcizia, non è per la paura che proviamo: la vergogna è per la rabbia che abbiamo ma che non riusciamo a esprimere, verso quest’uomo pallido che ci sceglie, una a una. Vorrei alzare gli occhi e gridargli contro, quando si ferma di fronte a me, ma il terrore mi incatena a terra.
Forma il suo gruppo, io sono tra queste.
Ngoné scoppia in lacrime, io urlo, cerco di divincolarmi e raggiungerla, dimentico la paura perché Ngoné è quanto mi resta di tutta la mia vita, ma un colpo alla schiena mi fa cadere. L’uomo è su di me e mi parla con le sopracciglia aggrottate, i denti scoperti. Mi sputa addosso e mi spinge indietro con la canna.
“Stai buona, Seny!” mi dice la ragazza che capisce il francese, mentre si china per aiutarmi. “O qui finisce male!”
“ Non voglio andar via!” piagnucolo. Delle donne scelte ogni volta, nessuna ritorna: si dice che una nave venga a prenderle per portarle dall’altra parte del mondo. La paura mi fa ritrarre contro il suo corpo, mentre uomini bianchi radunano le altre e le spingono nuovamente verso la cella. Riesco a guardare Ngoné per un’ultima volta, poi scompare nel buio.
“Non è giusto!” singhiozzo ancora.
“Smettila di piangere o ti massacreranno di botte” ripete lei, e ha una voce più dura, adesso. Mi stringe un braccio.
“Voglio solo tornare al mio villaggio! Perché ci è accaduto tutto questo? È perché sono una…” comincio a dire, ma lei mi mette una mano sulla bocca.
“Non pronunciare quella parola,” sussurra. “Mai.”
Mi fermo a pensare, la guardo dritto negli occhi. Cos’è che sono? Perché Allah, che è grande e ha creato il mondo, e gli spiriti che lo governano, hanno lasciato che mi portassero via dal mio villaggio?
Mentre mi asciugo occhi e naso ci convogliano in un corridoio stretto e buio. L’uomo bianco urla e la ragazza che conosce il francese traduce, a bassa voce, per le altre che sono in fila con noi. Camminare, fare silenzio, non fare cose stupide: sempre le stesse parole.
In fondo compare un rettangolo azzurro vivo.
“Quella è la porta del viaggio senza ritorno” dice. La voce le trema, mi stringe una mano.
Udiamo il rumore del mare che sbatte insistente contro gli scogli.
Varco la porta.



***

NOTE

Non ne metto mai, ma questa volta credo siano d’obbligo.
La storia è ambientata in Senegal e in particolare è ispirata dalla Maison des Esclaves (Casa degli Schiavi) che si trova sull’isola di Gorée, oggi museo e patrimonio dell’UNESCO. La schiavitù nelle colonie francesi in Africa continuò fino al periodo della Rivoluzione Francese e l’isola di Gorée è famosa per essere stata punto di raccolta e smistamento degli schiavi provenienti da tutta l’Africa.
Il wolof è la lingua dell’etnia principalmente rappresentata in Senegal.
Il gris-gris è un talismano, una specie di collana di diversi materiali, che si indossa sui fianchi sotto i vestiti e può avere diversi significati a seconda dei materiali(salute, fecondità, etc).
Il pagne è un tessuto di forma rettangolare che si avvolge attorno al corpo a formare una veste che copre da sotto il seno fino alle caviglie; sopra si indossa un boubou (una specie di larga maglietta) o un altro pagne; questo accade soprattutto oggi, ma sono portata a credere che anche secoli fa gli abiti tradizionali fossero questi.
La religione maggiormente diffusa in Senegal è l’Islam, ma sovente si mescola alle religioni tradizionali animiste dalle cui risulta essere molto contaminata.

Questa storia, sebbene fosse nella mia testa da parecchio è stata scritta per il Contest dei libri non letti di M4RT1 con il pacchetto Divergent e per il LimitaPrompt della piscinadiprompt con:
- Prompt: Originale, Storica, schiavitù
- Limitazione: Una storia composta da un numero di parole con cifre in crescita o decrescita (Es: 345 parole, 6543 parole e via dicendo)
Wordcount: 1235.
  
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