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Autore: Francine    31/03/2014    5 recensioni
Saori aspetta. Perché sa che oramai è questione di tempo. Oramai ci siamo. La Guerra Sacra di questo secolo è al culmine, e lei può solo attendere. Attendere che il suo fato si compia. Forse, una volta per tutte.
Genere: Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cancer DeathMask, Gemini Saga, Saori Kido, Sasha, Virgo Shaka
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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Orphée+Euridice


Santa musica leggera 
per chi è senza compagnia 
per un'esistenza intera 
per amore o per pazzia 

 
 


«Orphée, ricordi ancora il nostro primo incontro?»
Annuisce.
«Io stavo suonando, seduto su una roccia sotto al vecchio castagno di Kostas, mentre tu ritornavi al Santuario con una gerla piena di bucato.»
Euridice sorride e lui con lei. Quella piccola bugia non costa nulla. La verità è che in quell’occasione, un pigro pomeriggio agli inizi di Maggio che profumava di gigli e gelsomino, era stata lei ad accorgersi di lui. Perché Orphée, di Euridice, se ne era accorto un mese prima.
La Pasqua è un momento solenne e molto sentito in Grecia. Anche tra le mura del Santuario di Athena. Pasqua è passaggio, promessa e pace. Pasqua è la Primavera. Che entra, nei pertugi e per le porte. A passo sicuro ed armonioso. Senza chiedere permesso, come il fumo. Lei arriva, e ti prende per la mano. E anche se non te ne accorgi, lei aspetta, paziente, che tu levi lo sguardo sui suoi capelli. Di grano. Come quelli di Euridice. Che in quel mite pomeriggio di Aprile aveva visto danzare tra le lenzuola stese. I suoi piedi - piccoli, bianchi, agili - sfioravano appena l’erba verde mentre il vento gonfiava gentile il bucato come fossero le vele della nave di Teseo, ed i suoi capelli, una cascata di fili di seta dorata.
Orphée non l’aveva mai vista, anche se, ad onor del vero, va detto che prima di incontrarla Orphée non aveva mai prestato attenzione alle ragazze che lavoravano al Santuario. Erano presenze silenziose, che sfilavano in sottofondo, occupandosi di faccende quotidiane. Umane. Tutto sommato banali. Lui era impegnato dalla sua musica, dal rincorrere accordi e scale sulle corde ben tese della sua lira. Neppure si accorgeva dei conigli che si avvicinavano a lui, vincendo la loro naturale timidezza pur di ascoltare le sue melodie.
Orphée si era chiesto chi fosse quella ragazza. Quella fanciulla. Kore, l’aveva chiamata, dentro di sé, senza sapere che questo avrebbe causato la tragedia. Perché gli dei sanno essere molto invidiosi. E molto, molto vendicativi. E chi può essere tanto invidioso e tanto vendicativo quanto chi è costretto a vivere nelle tenebre per sei mesi all’anno?
Non ci aveva pensato, allora. Aveva solo sentito, prepotente, l’impulso di catturare quella fanciulla. Di stringerla tra le braccia. Di fermare, tra le dita, quelle gambe candide che saltavano, danzavano, sfioravano appena l’erba. Leggiadre. Come fosse un bambino che rincorre le ali coloratissime di una farfalla in volo su un campo pieno di papaveri. Senza sapere, poi, cosa farne.
Così erano iniziati gli appostamenti. Seduto, su quella roccia sotto le fronde rigogliose del castagno, Orphée aveva atteso che la fanciulla – che Kore – passasse di nuovo per quella strada che porta dal Lavatoio al Santuario. Aveva aspettato, paziente, come lo scorpione che attende la sua preda nascosto nell’ombra. Facendo ciò che più gli era congeniale. Suonando la sua lira. Mettendo tutto il suo struggimento in quelle note. E un mese dopo, la sua pazienza era stata ricompensata.
Euridice era risalita dal Lavatoio con una cesta di bucato appena raccolto tra le braccia, la gonna che le sfiorava i polpacci e l’erba che le solleticava le dita dei piedi nei suoi sandali rossi. E si era fermata, incantata, ad ascoltarlo, tra i conigli e le lepri, i cerbiatti, una coppia di fagiani e qualche sparuto passerotto. E il cuore di Orphée aveva ruggito dentro di sé, di gioia selvaggia, mentre le labbra tentavano di non curvarsi all’insù, soddisfatte. Le sue dita avevano carezzato la lira, con passione e delicatezza, e quando si erano fermate e lui aveva alzato il suo sguardo, Orphée aveva incontrato quello di lei. Ed entrambi avevano capito che non si sarebbero separati mai più. Fino alla fine del mondo.
 
Euridice sorride, le lacrime che tentano di non ruscellare giù dalle ciglia. Piangerà, non appena lui sarà abbastanza lontano da non udirla e da girare i piedi, e correre da lei. Euridice si sforza di sorridergli. Perché vuole che lui si ricordi il suo bel viso sorridente, e gli occhi scintillanti di gioia. Come quando lei gli aveva mostrato il bozzetto per le corone nuziali. Rami di alloro ed edera e una cascata di fiori bianchissimi. Che nessuno ha passato sulle loro teste, dall’una all’altro e dall’altro all’una, né il Sommo Sion, né pope Ioannis. Che li aspettano ancora, su quello che sarebbe dovuto essere il loro talamo. Abbandonati. Sfioriti. Secchi. Ma sempre bianchissimi.
Orphée deve andare. Euridice lo sa. Lo ha inteso guardandolo negli occhi, ma quello che Orphée non sa è che Euridice l’ha capito molto prima. Quando ha visto Pegaso e Andromeda avventurarsi per il giardino della Seconda Prigione. E il cuore di Euridice, il nucleo della sua anima imprigionata in quella roccia maledetta, si è messo a cantare. Melodioso, come l’usignolo sul ramo del pesco. Perché in quell'istante Euridice ha capito che le sue preghiere erano state esaudite. E che Orphée, in un modo o nell’altro, sarebbe tornato a vivere, e non sarebbe più rimasto accanto a lei. Come una farfalla in una teca.
Ma fa male dirsi addio. Anche se non se lo dicono. Anche se è straziante. Anche se non sanno cosa ci sarà, dopo.
Potrà morire, la Morte? Potrà finire tutto, oppure ci sarà ancora speranza, per loro?
Gli occhi di stella di Euridice incontrano lo sguardo di cielo di Orphée. E lei sa. Sa che se anche non ci dovesse essere nulla, dopo, saranno insieme.
Sono sceso fino all’inferno per starti accanto. Sono rimasto qui con te. Vuoi che io non ti trovi, dopo? Ovunque tu sarai?
E lei annuisce.
Lui le sistema un fiore tra i capelli. Rosso scuro. Come il sangue di Pharao che sta scorrendo lento, in rivoli, tra i fiori del giardino. Orphée ha spostato il cadavere perché i suoi occhi non lo vedano, e Pegaso e Andormeda l’hanno aiutato. Ha sentito solo un tonfo. Poi più nulla. Del loro aguzzino non è rimasto che una pozza scura tra i fiori ed uno specchio rotto che rimanda in mille frammenti l’immagine del suo Orphée. Se solo si potesse fermare il tempo, pensa Euridice, ma sa già che si tratta di un pensiero umano. Mortale. Perché quando sei roccia per metà, nel regno dei morti, il tempo non ha più valore. Muore anche lui, congelato in un attimo di eterno presente. Grigio. Sempre uguale a se stesso.
«Devo andare, Euridice…», le sussurra. Sorridendo. Sfiorandole una ciocca dorata, come una carezza di commiato. Una speranza di rivedersi. Una promessa. E lui le mantiene, le promesse. Anche a costo di rivoltare l’eternità da sotto in su, lui tornerà da lei. Suonerà la sua lira, e lei danzerà. Ancora. Sotto i raggi d’argento della luna piena.
Devo solo avere un po’ di pazienza, si dice. Per darsi forza. Per farsi coraggio. Perché la presenza di Orphée è stata sollievo, in tutto questo tempo. Anche se lei avrebbe voluto saperlo felice a godere i raggi caldi del sole. Anche per lei.
Pazienza, si dice. Mentre la sua schiena scompare dietro il crinale fiorito. Pazienza. Ha sempre saputo che avrebbe dovuto usarla. Sua madre, che lavava il bucato al Fontanile, le aveva raccomandato di pensarci molto bene prima di accettare la mano di quel giovane tanto affascinante. Perché un guerriero non è mai tuo. Devi sempre dividerlo con qualcun altro. Con l’esercito. Coi suoi commilitoni. E con la più terribile delle rivali. Athena. Che può essere benigna quanto terribile quando strappa gli uomini – i suoi guerrieri – dai letti e dalle braccia delle loro spose e dei loro figli.
«Saprai accettarlo, figlia mia?», le aveva chiesto sua madre. E adesso lei capisce che quel «Sì», pronunciato con la testardaggine dei vent’anni, è duro da sopportare. Perché le donne dei guerrieri sanno che la più grande delle virtù non è rincorrere i propri mariti ed aggrapparsi alle loro forti spalle, piangendo e pregandoli di non andare. È attendere il ritorno del proprio uomo, sull’uscio di casa. Un sorriso solare dipinto sul viso. Un porto sicuro per la nave sconquassata dalla procella.
Orphée va alla guerra. E solo adesso lei ricorda quello che avrebbe dovuto dirgli, prima del distacco. «Conosci te stesso.» Lo mormora all’aria, sicura che il vento caldo porterà quelle parole al suo uomo. Ed un accordo, leggero e tintinnate, le torna indietro. Come risposta.
Euridice sorride. Chiude gli occhi e aspetta.
   
 
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