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Autore: vannagio    31/03/2014    5 recensioni
Quella era davvero una giornata del cazzo. E JD ne aveva le palle gonfie, di quella merda. Dieci farfalline in un giorno erano troppe per fino per il Santo Protettore Dei Tatuatori. Che forse non esisteva affatto, vista e considerata la ragazzina che era appena entrata nel suo negozio di tatuaggi. C’era solo un tipo di ragazza che JD detestava più della solita Barbie Voglio Una Farfalla Sull’Inguine, ovvero la classica Bellezza Dark.
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Una storia di metallo e inchiostro'
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Capitolo 9




I fottuti sbirri erano ovunque, spuntavano da dietro i pilastri come funghi, ma di JD nemmeno l’ombra. Dove cazzo si era cacciato? Lo aveva visto correre all’inseguimento di Stanlio, verso quel complesso di mura in cemento armato laggiù. Forse era ancora lì. Forse Stanlio lo aveva accoppato. Doveva andare a verificare, peccato che ci fossero due auto della polizia tra lui e il suo obbiettivo. Senza contare la Mercedes di Carlisle che doveva essere immediatamente portata via, prima che i poliziotti se ne impossessassero.
Okay, una cosa alla volta. Prima la Mercedes.
Si mosse rapido tra le macerie e i container, passando alle spalle di un gruppo di poliziotti che stavano ammanettando due Coyote e tre Polacchi. La Mercedes era stata parcheggiata proprio sotto la gru. Aveva ancora i fari accesi (quindi le chiavi sono ancora nel quadro, che culo), per fortuna gli sbirri erano troppo impegnati ad arrestare gente per occuparsene. Fa’ che nessun proiettile abbia forato le gomme. La fiancata sembrava un colabrodo, in compenso le ruote erano tutte e quattro integre. Zachariasz ringraziò Dio, la Madonna e tutti i santi del paradiso. Aprì la portiera e…
«Mani in alto, non muoverti o sparo!».
Porca puttana, lo dicevo io che era troppo facile!
«Appoggiati all’auto e non fare scherzi».
Se lo avessero arrestato, lo avrebbero rinchiuso in una gabbia e avrebbero buttato via le chiavi. Aveva una lista infinita di precedenti per reati minori, in più era stato sospettato di omicidio. Farsi beccare in un fottuto mattatoio tra cervelli spappolati e budella sparse sul terreno non avrebbe migliorato la sua posizione. Fece come gli era stato detto, solo per prendere tempo. Sentì le scarpe dello sbirro, che si avvicinava lentamente, scricchiolare sul pietrisco. Chiuse gli occhi e prese un respiro profondo, come ogni volta che si accingeva a fare qualcosa di cui non sarebbe andato fiero. Non poteva farsi ammanettare. Avrebbe aspettato che lo sbirro fosse abbastanza vicino, lo avrebbe disarmato e poi…
«Zachariasz, metti in moto!».
Si voltò, e sgranò gli occhi.
JD aveva atterrato il poliziotto, che si dimenava come una tartaruga ribaltata, e lo tallonava a terra. La pistola era finita a pochi passi da lui, insieme a una Gina che aveva visto giorni migliori.
«Metti in moto, forza!».
Zachariasz non se lo fece ripetere una terza volta. Raccolse al volo Gina e si tuffò sul sedile del guidatore della Mercedes. Girò le chiavi nel quadro, diede gas e il motore prese a rombare.
«JD, forza, andia…».
Le parole gli morirono in gola.
Il poliziotto era riuscito a ribaltare le posizioni. Teneva JD sdraiato prono e gli stava ammanettando le mani dietro la schiena. Non poteva lasciarlo lì, ma se non si fosse dato una mossa, il prossimo sarebbe stato lui. Per un attimo JD e Zachariasz si guardarono negli occhi. Occhi seri e risoluti. Occhi pungenti come un ago. JD mimò un “Vai!” con le labbra. Zachariasz annuì, piantò il piede sull’acceleratore e sgommò via. Attraverso lo specchietto retrovisore, vide lo sbirro che spingeva JD dentro a un’auto della polizia.
Questo sì che è un cazzo di problema.



Quando Benedetta e Thresh avevano riportato Honey sana e salva al Goldfinger, Marie Louise non aveva potuto fare a meno di commuoversi. Isa era saltata al collo di sua figlia e non l’aveva più mollata, quasi temesse che l’avrebbero rapita un’altra volta, se le avesse permesso di riprendere fiato. Nel vederle abbracciate, Marie Louise aveva provato il desiderio impellente di correre a casa e stringere forte Alex contro il suo seno.
Isa aveva pianto di gioia, Honey aveva pianto e basta. La ragazza tatuata di nome Darla era uscita dicendo di voler fumare una sigaretta, ma si vedeva che era una scusa perché si sentiva di troppo. Liam, che era non solo un tipo taciturno e un ottimo cuoco ma anche molto sensibile alla vista delle lacrime delle donne, si era rifugiato in cucina. Dall’odorino invitante che si era diffuso nell’aria, avevano dedotto che si era messo ai fornelli. Infatti era emerso dalla cucina mezz'oretta dopo, con una pirofila di quelli che lui aveva chiamato gnocchetti sardi in sugo di pomodoro, salsiccia e zafferano, e una bottiglia di vino rosso appena stappata. Mangiare e bere sono il modo migliore per farsi tornare il buon umore e scacciare i brutti pensieri, aveva detto. E in effetti, il metodo miracoloso di Liam aveva funzionato.
Fin quando Benedetta e Thresh non erano tornati dal cantiere.
«Cristo Santo!».
«Carlisle!».
Isa e Marie Louise erano corse ad aiutare Benedetta e Thresh, che sostenevano un Cardinale ferito. Honey invece era rimasta in disparte, con gli occhi sgranati e le guance rigate dalle lacrime.
«Dobbiamo portarlo in ospedale!», aveva detto Isa.
Il capobanda dei Coyote, Halona, aveva scosso la testa, con sguardo severo.
«No, farebbero troppe domande».
Benedetta aveva annuito.
«Fortunatamente la ferita non ha intaccato organi vitali. Possiamo occuparcene noi».
Così avevano unito tre tavolini del Goldfinger e ci avevano sistemato sopra il Cardinale. Isa, che faceva volontariato al pronto soccorso e quindi era la più ferrata sull’argomento, aveva cercato di medicare il fratello nel miglior modo possibile.
«Dove sono gli altri? Dov’è Zachariasz?», chiese poco dopo Isa.
Stava applicando meticolosamente il disinfettante alla ferita. Era concentratissima, ogni traccia di sofferenza e debolezza era scomparsa dal suo volto, non sembrava nemmeno la stessa donna di prima. Aveva preso in mano la situazione con risolutezza e piglio pratico.
«Sono rimasti un po’ indietro, ma saranno qui a momenti, non temere», rispose il Cardinale, con la faccia contratta dal dolore. «Honey? Sta bene? Le hanno fatto del male?».
«Sto bene, zio». Honey era apparsa al fianco del Cardinale, rigida come un pezzo di legno, le braccia abbandonate lungo i fianchi ed entrambi i pugni serrati. «Sicuramente meglio di te e di tutti gli altri».
«Ah, non preoccuparti, bambina. Questa è solo una ferita superficiale, ci vuole ben altro per ammazzarmi».
«Ma papà e JD non sono ancora…».
«Come ho detto già a tua madre, saranno qui a momenti».
«Ci vorrebbero dei punti», disse Isa, con una ruga di preoccupazione che le increspava la fronte. «Ma non abbiamo anestetici da somministrarti».
Il Cardinale annuì.
«Fai quello che devi. Honey, per favore, di' a Thresh di portarmi una bottiglia di whisky».
Honey non si concesse nemmeno il tempo di dire “Certo”, volò immediatamente verso il bancone. Nel frattempo Marie Louise si era seduta in un angolino per non essere d’intralcio, ma pronta a scattare se si fosse reso necessario il suo aiuto. Vedere Isa che preparava ago e filo, però, la fece agire d’impulso: si ritrovò accanto al Cardinale quasi senza esserne cosciente. Allungò la mano, ma a pochi centimetri dalla meta, indugiò un attimo, con l’impressione di star facendo qualcosa di proibito o di stare prendendo qualcosa che non le apparteneva. Alla fine, sempre titubante, strinse la mano del Cardinale con la sua. Lui si voltò e quando la vide, fece una faccia genuinamente sorpresa, ma sorridente.
Proprio in quel momento arrivò Thresh.
«Avevi chiesto del whisky?».
«Sì, ma adesso non mi serve più».
Marie Louise arrossì e per non darlo a vedere, distolse lo sguardo. Intanto Isa aveva cominciato il suo lavoro di punto croce sulla carne viva del Cardinale. Lui si lasciò sfuggire un gemito e per punizione si morse a sangue la lingua. Marie Louise aumentò la stretta sulla sua mano.
«Mi dispiace, Marie Louise».
«Per cosa?».
L'ago penetrò di nuovo la carne. Lui chiuse gli occhi e digrignò i denti.
«Ti avevo fatto una promessa, che l’avrebbero pagata cara per quello che ti avevano fatto, ma non sono riuscito a mantenerla. Non sono stato io, a dargliene di santa ragione. Sono stato capace solo di farmi accoltellare».
Marie Louise scosse la testa e gli diede un buffetto leggero sulla spalla.
«Sei proprio un idiota, Cardinale».
Isa tirò il filo.
«Concordo con lei».



Gli sguardi che Marie Louise e il Cardinale si stavano scambiando erano molto eloquenti, tanto che per un breve istante Honey riuscì a dimenticare le preoccupazioni e i sensi di colpa. Forse non tutti i mali venivano per nuocere, in fondo.
Se ne stava seduta su un tavolino, con le gambe a ciondoloni. Darla la fissava da lontano, appoggiata di schiena alla parete. Era andata a fumare chissà quante volte e Honey aveva il sospetto (anzi, ne era sicurissima) che fosse solo una scusa per uscire e aspettare fuori il ritorno di JD.
«Zachariasz!».
Honey sollevò lo sguardo e il sollievo che provò fu come un lungo sorso di vino. Le scese in gola lentamente e una volta arrivato allo stomaco, sprigionò un dolcissimo calore, che si propagò in tutto il corpo e le fece girare la testa.
Suo padre era lì, stanco, provato, ma sano e salvo. Teneva stretta sua madre, accarezzandole i capelli e sussurrandole parole rassicuranti all’orecchio, mentre lei singhiozzava contro la sua spalla. Honey gli corse incontro e gli gettò le braccia al collo. Non doveva piangere, doveva essere forte, doveva dimostrare a suo padre di non essere più una bambina piagnucolosa. Sentì il braccio di suo padre circondarle la vita, la sua bocca che la baciava tra i capelli, la sua voce che le chiedeva se stava bene, e i buoni propositi andarono a puttane. Scoppiò a piangere come una pivella.
Dietro suo padre comparve anche Shiriki.
«Ah, allora è vero che l’erba cattiva non muore mai!», disse Halona.
«Anch’io sono contento che tu stia bene, amore mio».
Halona roteò gli occhi, mentre Shiriki sfoderava un sorriso carico di sottintesi.
«Avanti, fatti abbracciare e palpare il culo, lo so che non aspetti altro!».
«Il mio culo è troppo ossuto per certe cose».
Shiriki glielo palpò lo stesso e poi l’abbracciò anche. Lei rimase rigida tra le sue braccia e sbuffò, ma alla fine si lasciò sfuggire un mezzo sorriso.
«Dov’è JD?».
La voce di Darla fece piombare il locale in un gelido silenzio. Honey si staccò dall’abbraccio di suo padre e solo allora si accorse che in una mano stava reggendo Gina. Perché ce l’aveva lui? E perché le mancava quasi tutta la punta? Chi l’aveva ridotta così? Cosa era successo? Dov’era JD, perché non era ancora tornato? Il panico minacciò di spegnere l’ebrezza del sollievo, come una doccia gelata che cancella l’ubriacatura.
«La polizia mi aveva beccato. JD ha steso lo sbirro per permettermi di scappare, ma così facendo si è fatto prendere».
Honey fissava suo padre scuotendo la testa, perché no, non poteva essere vero, ma lui evitava il suo sguardo come la peste.
«E tu sei andato via senza aiutarlo», concluse Darla, con una semplice e gelida constatazione.
«Se lo avessi aiutato, avrebbero arrestato anche me, e allora a che cazzo sarebbe servito?».
Halona sputò a terra.
«È solo una fottutissima scusa! Lo hai abbandonato, lui ti ha salvato il culo e tu lo hai abbandonato!».
Sua madre provò a trattenerla, ma Honey riuscì a correre via. Non poteva rimanere lì, non poteva stare a sentire quelle assurdità. Si rifugiò nel vicolo sul retro. Si lasciò cadere sul gradino ghiacciato e si tirò i capelli con rabbia e frustrazione.
Non piangere, stronza. Che cazzo ti piangi? È tutta colpa tua, non hai diritto di piangere. Idiota, dovevi proprio giocare all’eroina, eh? Oh, sono forte e coraggiosa, torniamo indietro a stendere dei tizi che ammazzano gente per mestiere, e sicuramente un’ottima idea. Sei solo una bambina viziata, dovresti esserci tu al posto di JD.
Una carezza leggera sui capelli la fece sussultare. Marie Louise prese posto accanto a lei e le passò un braccio intorno alle spalle.
«Andrà tutto bene».
«Non fate che ripetermelo tutti. Che andrà tutto bene. Che non devo preoccuparmi. Che ci penseranno loro, i grandi, a risolvere tutto. Perché in fondo hanno ragione, no? Sono solo una mocciosa e devo lasciare che siano gli adulti a occuparsi di tutto. JD è l’unico che non mi tratta da mocciosa e guarda dove è finito. Gli ho rovinato la vita».
Marie Louise le asciugò le lacrime con un fazzoletto.
«Piangere sul latte versato non migliorerà la situazione, tesoro. Sai cosa trasforma un bambino in un adulto?».
«Cosa?».
«Trarre insegnamento dai propri errori».
«Allora sono condannata a rimanere bambina per sempre».
Marie Louise rise.
«Non ne sarei così sicura se fossi in te. A volte gli eventi ci portano a crescere senza nemmeno rendercene conto».
«Parli per esperienza?».
«Tesoro, faccio la prostituta, certo che parlo per esperienza!».
Le sfuggì un sorriso che la fece sentire subito in colpa, così lo nascose dietro alle ginocchia, che aveva portato al petto. Marie Louise non aggiunse altro, le fece compagnia ancora per un po’, poi rientrò, lasciandola da sola a riflettere.



«Ha detto qualcosa?».
«A parte chiedere una sigaretta? No, muto come una tomba».
Il Capitano Gregson sospirò pesantemente. Il Detective Bell gli offrì una ciambella, ma lui fece di no con la testa. Ci mancava solo un picco di glicemia. Era stato buttato giù dal letto nel cuore della notte dalla chiamata della centrale, si era alzato borbottando e imprecando. Aveva perso il conto di quante persone erano state arrestate, nella retata. Tutte coinvolte in una carneficina da film splatter. Fin ora solo uno aveva parlato.
Lanciò un’occhiata al tizio che si trovava al di là del vetro unidirezionale, nella stanza degli interrogatori. Capelli lunghi, tatuato dalla testa ai piedi e una faccia che sembrava essere stata usata come punch ball, tanto era gonfia e livida. Fumava la sigaretta con noncuranza e sguardo perso nel vuoto. Un delinquente in piena regola, insomma.
«Per essere uno che rischia una condanna per omicidio, è assurdamente calmo. Si è presentato un avvocato?», chiese.
«Non ancora».
«Precedenti?».
Il Detective Bell si mise la ciambella in bocca e scartabellò velocemente dei fogli.
«È fulifo, nemmeno una mulfa».
«Fammi vedere».
Il Capitano Gregson gli strappò i fogli di mano per accertarsene con i suoi occhi.
«Trentun anni, incensurato, negozio di tatuaggi… questo spiega perché sembra un quadro di Picasso vivente. Che razza di nome, però!».
«Infatti l’unica cosa che ha chiesto, oltre alla sigaretta, è stato essere chiamato JD. Dice che il suo nome di battesimo, e cito testualmente, gli sta sul cazzo».
Il Capitano Gregson sbuffò.
«Sinceramente? Per me può anche farsi chiamare Mary Poppins. Quello che mi interessa sapere è perché diavolo ha sentito il bisogno di partecipare a una guerra tra bande e ammazzare Trucizna. L’arma del delitto l’avete trovata?».
«Di armi del delitto ce ne sono anche troppe e…». Il Detective Bell indicò l’indirizzo del negozio di tatuaggi sui fogli che il Capitano Gregson stava ancora consultando. «Il suo negozio si trova tra Greenpoint e Williamsburg Nord. Praticamente quasi a confine tra il territorio dei Coyote e quello dei Polacchi. Forse subiva delle estorsioni».
«Ah, ecco. Domani mattina la prima cosa che faremo sarà mandare qualcuno al negozio di tatuaggi e a chiedere in giro. Se estorcevano denaro a JD, forse lo estorcevano anche agli altri esercizi commerciali della zona. Invece… quel delinquente che lo accusa… com’è che si fa chiamare?».
«Stanlio».
«Qualcuno un giorno mi spiegherà perché in questo ambiente hanno tutti dei soprannomi ridicoli. Va be’, tu che ne pensi? Possiamo fidarci di quello che dice?».
Il Detective Bell annuì.
«A differenza di JD, ha una fedina penale lunga un chilometro, ma ci tiene a salvarsi le chiappe e sa che parlando avrà più possibilità di ottenere delle attenuanti».
«E il procuratore distrettuale non starà a cavillare, darà per buona la versione di Stanlio pur di trovare un capro espiatorio». Il Capitano Gregson si massaggiò il mento, con aria pensierosa. «Ci sono notizie invece di tale Halona Birmingham? L’avete rintracciata?».
«No, al suo club non c’è nessuno, se ne sta occupando il Detective Martìnez. È tornato al cantiere per un sopraluogo».
Il Capitano Gregson annuì.
«È stato lui a dare l’allarme, vero? Da quando sua moglie è morta, quell’uomo è diventato uno stacanovista».



«Tua sorella ha fatto un ottimo lavoro, Cardinale. Tanti complimenti, Bella Signora», disse Shiriki rivolgendosi a Isa, che gongolava di soddisfazione. «Non c’è molto che possa fare, a parte preparare un impacco da applicare sui punti per prevenire infezioni e lenire il gonfiore». Shiriki coprì la ferita con la garza. «Dove posso trovare la cucina?».
«Liam, accompagnalo», disse Carlisle.
Liam inarcò un sopracciglio, perplesso. La cucina era il suo regno, e ne era molto geloso.
Carlisle roteò gli occhi.
«Per favore, accompagnalo, ti assicuro che nessuno vuole rubarti il mestiere».
Liam borbottò un ‘vaffanculo smangiucchiato tra i denti. Alla fine, però, obbedì e fece strada a Shiriki, che prima di seguirlo si voltò verso Isa.
«Bella Signora, sarebbe così gentile da assistermi nella preparazione dell’impacco? Ha delle mani fatte a posta per questo genere di lavoro. E poi la compagnia di una Bella Signora è sempre un vantaggio in più».
Lei annuì, arrossendo.
«Certo, con molto piacere».
Quando i tre furono spariti dietro la porta della cucina, Carlisle si alzò a sedere, gemendo e imprecando. Aveva bisogno di una camicia pulita, ma la camicia pulita più vicina era nel suo ufficio. Troppo lontano. Halona intanto lo fissava a braccia conserte, come se si aspettasse qualcosa da lui.
«Cosa c’è?».
«C’è che sei in debito con me, Cardinale. Ed è ora di riscuotere. Il nonno di JD mi ha chiesto solo due cose, prima di morire. La prima, prendermi cura della banda. La seconda, assicurarmi che JD non finisse nei guai».
Carlisle ghignò.
«Pare che tu abbia fallito in entrambe le cose».
Gli occhi di Halona lampeggiarono di rabbia.
«Infatti è qui che entri in gioco tu. Devi far in modo che JD e tutti gli altri ragazzi escano di prigione nel più breve tempo possibile».
«Ho già contattato i migliori avvocati sulla piazza per JD. Ma…».
Halona gli andò sotto a muso duro. Anche da seduto Carlisle la superava in altezza di diverse spanne, gli arrivava appena sotto il mento. Eppure, chissà perché, fu lui a scostarsi da lei e non il contrario. Benedetta e Thresh seduti a un tavolo poco distante fecero per alzarsi in piedi, ma lui scosse la testa.
«Stammi a sentire, fichetto con la cresta. Ti ho salvato il culo ben due volte da quel cazzo di nano malefico, vedi di ricambiare!».
«Non rompermi il cazzo, va bene? Farò quello che posso, ma cerca di darti una calmata. Ti ricordo che l’idea di affrontare i Polacchi è stata tua, non mia. Quindi se hai voglia di prendertela con qualcuno, prenditela con te stessa!».
Halona aprì la bocca, pronta ad abbaiare, ma poi ci ripensò. Gli tirò un gancio destro sul naso. Poi girò sui tacchi e uscì dal locale, passando davanti a Zachariasz, che la seguì con lo sguardo senza fiatare. Cazzo, quella non era una donna, quella era un bulldozer. Gli aveva sfondato il setto nasale! Si tastò il naso, con la testa che gli girava per il dolore, e si ritrovò la mano sporca di sangue. Meno male che non aveva ancora indossato la camicia pulita, o si sarebbe ritrovato di nuovo punto e a capo.
«Ti piace proprio tanto farti picchiare, eh?».
Marie Louise era appena ritornata dal vicolo sul retro senza Honey e aveva assistito all’ultimo atto della scena. Prese una garza e gliela applicò sul naso per tamponargli l’emorragia.
«Continuo a collezionare figure di merda, stasera. E la notte non è ancora finita!».
«Non farne un dramma, Halona è una donna durissima, al tuo posto sarei morta di paura. Per certi versi mi ricorda mia madre. Be’, anche se mia madre non era un capobanda e non partecipava a scontri armati per la conquista del territorio».
Carlisle la fissò in silenzio, mentre Marie Louise gli puliva il mento dal sangue, chiedendosi se poteva permettersi di fare domande indiscrete. Del resto, non fare domande alle sue ragazze sui loro trascorsi non era un caposaldo della sua politica?
«Parli di lei al passato».
Be', tecnicamente non è una domanda.
Marie Louise abbozzò un sorriso triste. Buttò la garza sporca di sangue in un sacchetto e si alzò sulle punte dei piedi per esaminargli il naso da vicino. Glielo tastò delicatamente. Le sue dita erano sottili e leggere come piume, sembravano essere state create a posta per toccare con gentilezza. Tanto che Carlisle non provò dolore. Anche se forse era merito del profumo di Marie Louise, che agiva su di lui come una dose massiccia di morfina: lo anestetizzava, gli sembra di galleggiare a pancia in su sull’acqua con un sorriso ebete sulla faccia.
«Non sembra grave, ma non sono un’esperta, dovresti chiedere a tua sorella o a quel signore… Shiriki, si chiama così, vero?». Si allontanò da lui di un passo. Carlisle dovette serrare i pugni per vincere l’impulso di trattenerla. «E no, non è come pensi. Mia madre è ancora viva, solo che… una volta mi ha detto che ero come morta per lei, perciò ho deciso che per me sarebbe stata la stessa cosa».
«Mi dispiace».
Lei fece spallucce.
«È successo tanti anni fa, avevo appena scoperto di essere rimasta incinta di Alex… cioè, di mio figlio. Si chiama Alex, mio figlio».
Carlisle annuì, soprappensiero. Sapeva di dover dire qualcosa di intelligente, ma gli venivano in mente solo frasi fatte, scontate e banali.
«È un bel nome».
Sei un coglione, si disse.
«Grazie».
«Il padre dov’è?». Si accorse troppo tardi di aver fatto una domanda che oltrepassava di parecchio il confine tra cosa è lecito chiedere e cosa no. «Scusa, non avrei dovuto chiedertelo, non sono affari miei. Ma ho pensato… dato che tua madre… mi sono domandato come mai non avessi chiesto aiuto al padre di Alex».
Il sorriso di Marie Louise era il tipico sorriso accondiscendete che si rivolge agli ingenui.
«É stata la prima cosa che ho fatto dopo essere stata cacciata di casa, ma i suoi genitori hanno reagito esattamente come mia madre».
«Bastardi, lui e i suoi genitori!».
«Non posso fargliene una colpa. Joshua era un ragazzino tanto quanto me, Cardinale».
«Appunto! Nonostante la tua giovane età, ti sei presa le tue responsabilità. Lui invece no».
Forse l’aveva messa a disagio, perché lei distolse lo sguardo. Durò poco, in ogni caso.
«Be’, Cardinale», disse ammiccando. «Adesso sai una cosa di me che nessun altro sa. Pensa, potresti sfruttare l’informazione per ricattarmi!».
Non si sarebbe mai stancato di ripetersi quanto adorava la capacità di Marie Louise di sdrammatizzare, riuscendo a scherzare perfino su argomenti poco felici come quello.
«Sono rimasto zoppo all’età di dodici anni. Stavo cercando di difendere mia madre dal suo pappone, che la stava picchiando a morte, e lui mi ha sparato al ginocchio. Sono stato fortunato perché aveva una mira di merda, in realtà puntava alla testa. Isa era a scuola quel pomeriggio, non ha mai saputo la verità, crede sia caduto dalla bicicletta».
Marie Louise aveva sgranato gli occhi.
«Cardinale, io…».
Lui la interruppe con un sorriso.
«Adesso anche tu sai una cosa di me che nessun altro sa».



«Cazzo, adesso nemmeno fumare in pace, si può?».
Halona si era appena fiondata fuori dal locale come un toro imbufalito. Quando mise a fuoco Darla, seduca sul marciapiede che, per l’appunto, stava fumando, bestemmiò tirando giù tutti i santi del paradiso.
«Mi cerco un altro posto».
Fece per rientrare ma Darla la fermò.
«Non è necessario. C’è abbastanza spazio per tutte e due, qui fuori. Non siamo costrette a rivolgerci la parola».
Per parecchi istanti, Halona parve indecisa sul da farsi, come se stesse valutando i pro e i contro o temesse che Darla avesse in mente qualche brutto scherzo da giocarle. Alla fine si sedette sul marciapiede, sbuffando. A parecchi metri di distanza da Darla.
Per i primi cinque minuti nessuna delle due proferì parola. Darla si limitò a fissare il cielo. Era una notte serena, dall’aria frizzante, una di quelle notti che lei e JD trascorrevano a bere fino a tardi in un pub. E poi finiva che doveva accompagnarlo a casa, perché lei reggeva l’alcol molto meglio di JD. E ovviamente si fermava tutto lì, perché lui riusciva a comportarsi da bravo ragazzo anche da ubriaco. Chissà come se la passava, adesso! Fosse stato per lei, sarebbe già andata alla centrale, ma le avevano fatto notare che era meglio di no, per non complicare la situazione. Che sarebbe potuta andare l’indomani. Halona si scroccava le dita in continuazione, tanto nervosa da sembrare un serpente a sonagli pronto a scattare.
«Vuoi una sigaretta?».
«Ho smesso».
«Da quando?».
«Cinque anni fa».
«Ah».
Darla diede un tiro al suo mozzicone. Espirare il fumo era la parte che preferiva del fumare. Sentire il fumo caldo che le lambiva le labbra, come una lingua rovente. E poi c’erano uomini che erano disposti a fare carte false per una bocca rosso fuoco che soffiava fumo di sigaretta sulle loro facce. Halona continuava a scroccarsi le dita. Cric, crac, croc.
«Eccheccazzo, dacci un taglio. Non è colpa tua, okay?».
Lei irrigidì le spalle.
«Non so di che cazzo parli».
«Non ci provare, si vede lontano un miglio che ti senti in colpa. Ma non dovresti. Mi sei simpatica come la merda, e non capirò mai come faccia tuo marito a sopportarti, perciò non lo dico tanto per dire o per farti piacere. Hai fatto quello che ritenevi giusto per la tua gente, conta solo questo».
«JD non era d’accordo. E alla fine ci è andato di mezzo lui. L’ho sempre tenuto a distanza dalla banda per mantenere la promessa fatta a suo nonno. E adesso, ironia della sorte, è finito in carcere. Proprio lui, l’unico qui che è sempre stato più pulito di un lenzuolo lavato con la candeggina».
Darla inarcò un sopracciglio. Halona, come al solito, sbuffò.
«Eri la mia barista. Pensi che assumerei una ragazza senza sapere vita morte e miracoli di lei? So di quel furtarello al supermercato».
«Avrò avuto dodici anni!».
«Vita, morte e miracoli».
«Be’, ma allora perché mi hai assunta?».
«Capirai, sai quanti furtarelli ho fatto io a dodici anni? Piuttosto, se avessi saputo che eri una troia… ecco, quello sì che era un ottimo motivo per non assumerti».
Darla si imbronciò.
«E pensare che quando ti ho conosciuta ti stimavo. O meglio, mi sei sempre stata sul cazzo, ma ti stimavo… in un certo senso».
«Be’, se mi stimavi, potevi anche farmi la cortesia di non scoparti mio marito, no?».
Darla roteò gli occhi.
«Ma che c’entra l’aver scopato con tuo marito con te, scusa? A parte il fatto che è tuo marito, ovvio. Mica ci ho scopato per farti un torto, ci ho scopato perché tuo marito è un figo e non ho saputo resistere. Ho fatto bene? No. Lo rifarei? Be’, sì. Mi sto giustificando? No. Tu hai tutto il diritto di avercela a morte con me, ma non mi interessa ottenere il tuo perdono. Non vado a letto con gli uomini delle altre per ripicca. Cioè, non sempre. Solo qualche volta, quando una ragazza mi sta particolarmente sul cazzo. Ma non è il tuo caso. O meglio, non lo era. Ecco, vedi? Se andassi con gli uomini delle altre solo per ripicca, adesso sì che andrei con Shiriki! Ehi, ehi, stavo parlando solo per assurdo!».
Halona si era alzata e le si era avvicinata con aria minacciosa.
«Assurdo un paio di palle, pensi non abbia visto le occhiate che vi siete scambiati poco fa?».
«Solo perché abbiamo passato dei bei momenti insieme! E poi non rompermi le palle, okay? Shiriki non è un santo e penso che tu te ne sia fatta una ragione, ormai. Altrimenti lo avresti lasciato, o ammazzato, da un pezzo».
Halona tornò a sedersi.
«Non l’ho ammazzato solo perché poi avrei dovuto ammazzare anche tutte le troie con cui è stato, per correttezza».
La schiena di Darla fu attraversata da un brivido.
«Temevi di essere arrestata per strage?».
«No, in realtà, semplice culo pesante. Sai che sbattimento rintracciarle tutte? Troppa fatica».
Inaspettatamente, risero insieme.
«Scusate l’interruzione, signore».
Halona e Darla sollevarono il viso nello stesso momento. Un uomo con i baffi dall'aspetto trasandato si era fermato proprio davanti a loro. «Lei è Halona Birmingham?», chiese.
«Chi la cerca?».
Quando il tizio esibì il distintivo, a Darla si gelò il sangue.
«Detective Martìnez, della Omicidi. Devo portarla in centrale per interrogarla».



«Allora sai cosa ti dico, vai a farti fottere!».
Carlisle staccò la chiamata e scaraventò il cellulare contro la parete, che si sparpagliò in mille pezzi sul pavimento. Al suo fianco, Marie Louise sussultò.
«Suppongo che la sua risposta non sia stata quella che ti aspettavi», disse Benedetta.
Carlisle picchiò il pugno sul tavolino, confermando la sua ipotesi.
«Maledetto porco, quando si tratta di intascare bustarelle nessun problema, ma se c’è da farmi un favore… Lui sta alla Buoncostume, mentre il caso di stasera è della Omicidi, ma non avrebbe potuto fare nulla in ogni caso. Ha controllato, ci sono già chilometri di scartoffie ad attestare l’arresto di JD. L’accusa non è stata ancora formalizzata, ma pare che i capi di imputazione a suo carico saranno resistenza a pubblico ufficiale, disordine pubblico e l’omicidio di Trucizna».
Zachariasz si voltò di scatto.
«Come sarebbe a dire?».
Carlisle scosse la testa.
«Hanno preso anche Stanlio. Per salvarsi il culo, il figlio di puttana ha accusato JD dell’omicidio di Trucizna».
Thresh imprecò a mezza bocca. Lo sguardo di carbone di Zachariasz venne attraversato da un lampo di rabbia. Benedetta tornò a pulire la lama del suo coltello, sospirando pesantemente. Per fortuna Honey era ancora nel vicolo sul retro. Più tardi fosse venuta a conoscenza di quella complicazione, meglio sarebbe stato per tutti.
Proprio in quel momento, la porta della cucina si aprì contemporaneamente a quella dell’ingresso. Dalla prima uscirono Shiriki, Isa e Liam, con la brodaglia per la ferita di Carlisle. Dalla seconda entrarono Halona, la ragazza tatuata e… Benedetta sgranò gli occhi e nascose subito il coltello nella tasca dei pantaloni cargo.
«Che succede, amore mio?», chiese Shiriki, porgendo la ciotola della brodaglia a Isa.
La vecchia Coyote si strinse nelle spalle.
«Il Detective Martìnez dice che devo andare in centrale, per rispondere alle sue domande, anche se non capisco proprio perché».
«Te l’ho sempre detto che un giorno il tuo brutto carattere ti avrebbe messo nei guai, amore mio».
«Questo è suo marito? Quello che poco fa ipotizzava di fare fuori?», chiese Martìnez.
Shiriki sfoderò un sorriso strano, quasi… lusingato, ma non commentò.
«In ogni caso non faccia la finta tonta con me», proseguì Martìnez. «L’ho vista con i miei occhi al cantiere».
Accanto all’ingresso, Zachariasz irrigidì la schiena. Benedetta si trattenne a stento dall’imprecare. Ci mancava solo questa! Che cazzo ne sapeva Martìnez di cosa era successo al cantiere? E se aveva visto Halona, allora aveva visto anche… Si voltò a guardare Carlisle, che non batteva ciglio, e poi Thresh, che si stava aggiustando il giubbotto. Per nascondere meglio la pistola, probabilmente.
Halona intanto aveva incrociato le braccia al petto.
«Be’, sì, ero al cantiere. E allora?».
«Quindi non lo nega?».
«È sordo, per caso, Detective? Ho detto quello che ho detto, ma da adesso in poi risponderò solo alle domande che mi verranno poste in centrale. Piuttosto, come sapeva che mi trovavo qui? Mi ha fatta seguire?».
«In realtà passavo da queste parti per un controllo, è stato un colpo di fortuna. Lei, invece? Cosa ci fa qui?».
La vecchia scosse la testa.
«Risponderò in centrale».
Un controllo, certo. Benedetta digrignò i denti. Gli aveva chiesto di non impicciarsi, ma lui ovviamente non l’aveva ascoltata. Del resto, avrebbe dovuto aspettarselo, si trattava pur sempre di uno sbirro. Quanto avrebbe voluto prenderlo a sberle! Ma se lo avesse fatto, sarebbe stato come firmare una confessione.
«Un controllo per cosa?», si intromise Carlisle, guardando il Detective con un’espressione da vergine innocente.
«Si risparmi la commedia, Cardinale. Ho visto anche lei, al cantiere. Insieme a suo cognato».
Zachariasz spostò il peso del corpo da una gamba all’altra. La ciotola nelle mani di Isa traballò. Carlisle sfoderò il suo tipico ghigno da squalo.
«Non so di cosa sta parlando, Detective. Mio cognato ed io siamo stati tutta la sera qui al Goldfinger e ho una decina di testimoni che lo possono confermare. Se vuole le fornisco i nominativi, così potrà fare tutti gli accertamenti che desidera».
«Non si agiti, Cardinale. Non ho parlato ai miei superiori di lei e di suo cognato. Può dormire sonni tranquilli. Anche se so già che me ne pentirò per tutta la vita».
Martìnez stava fissando Benedetta. La voglia di prenderlo a sberle era triplicata. Sorresse il suo sguardo, serrando i pugni.
«Posso parlarti un attimo?», gli chiese. «In privato».
Martìnez si voltò in direzione di Halona, combattuto. Lei roteò gli occhi.
«Non si preoccupi, Detective, non vado da nessuna parte».
Benedetta si diresse verso il suo ufficio, senza preoccuparsi di controllare se lui la stesse seguendo o meno, Martìnez conosceva fin troppo bene la strada. Aprì la porta e quando anche lui fu entrato, la richiuse con violenza. Non gli diede il tempo di fare alcunché. Lo colpì alla mascella, proprio come la notte prima. «Questo è perché non ti sei fatto i cazzi tuoi». Il secondo colpo affondò nello stomaco. «E questo perché pensi che una scopata tra ubriachi cambi le carte in tavola».



«Devo liberarmi di una patata bollente». Halona sfoderò dalla tasca del giubbotto una pistola. «Ci ho ammazzato Trucizna con questa, ed è molto meglio se il Detective non mi perquisisce mentre ce l’ho addosso».
«Dalla a me», disse Shiriki.
«No», si intromise Zachariasz. «Me ne sbarazzo io. È meglio, tu sei suo marito. Il Detective potrebbe chiedere anche a te di seguirlo».
Shiriki annuì.
«È registrata?», chiese Zachariasz.
«Ovvio che no», rispose Halona, mentre gli porgeva l’arma.
Lui l’assicurò alla cintola dei pantaloni e poi tirò su la lampo del giubotto di pelle per coprirla. I suoi occhi si era trasformati in due pozzi neri senza fondo. Nel frattempo Isa aveva posato la ciotola di Shiriki sul tavolino, facendone traboccare un po’ del contenuto dai bordi. Si sedette accanto a Carlisle, che la prese per mano. Lei ricambiò la stretta, aggrappandosi con tutte le sue forze.
Nessuno sapeva leggere negli occhi di Zachariasz meglio di Carlisle.
Nessuno, eccetto sua sorella Isa.



Martìnez si appoggiò alla scrivania per riprendere fiato, gemendo e imprecando. Dietro la mano con cui si stava massaggiando la mascella, però, Benedetta intravide un mezzo sorriso. Come se si fosse aspettato esattamente quella reazione da lei e fosse contento di averci azzeccato. Il che la fece incazzare ancora di più.
«Ti sbagli, non lo credo», disse lui. «Non ho cinque anni».
«Allora perché? Speri forse che sentendomi in debito verrò a letto con te un’altra volta? Be’, se è così, sappi che hai più speranze di scoparti Thresh».
Lo sguardo di Martìnez si adombrò.
«Ti sembro il tipo d’uomo che ha bisogno di ricorrere a simili mezzucci per andare a letto con una donna?».
No, non ne aveva bisogno. Lei ne era la prova vivente.
«Senti, non me ne fotte un cazzo di che tipo d’uomo sei. Voglio solo sapere perché. Nessuno fa niente per niente».
Lui tornò in posizione eretta, non senza lamentarsi un’altra volta, e abbozzò un sorriso intenerito. «Sapevo che saresti riuscita a occuparti di lei». Indicò con un cenno del mento la piccola edera sul davanzale della finestra. «É cresciuta tantissimo, la piccolina. Lei hai addirittura sostituito il vaso!».
«Porca puttana, non cambiare argomento! Se fossi coinvolta anch’io nella storia del cantiere, forse potrei capire il tuo gesto, ma così…».
«Perché so che tieni a lui. Mi hai raccontato del Cardinale, di come ti ha aiutata, ricordi? E poi il lava secco La Macchia di Greenpoint ti dice niente? Sei morti, un ferito e una vecchia terrorizzata. Quanto pensi ci metterà la polizia a collegarli alla strage del cantiere? Se avessi parlato del Cardinale, saresti rimasta coinvolta anche tu eccome!».
Martìnez era serissimo, adesso. Benedetta aggrottò la fronte.
«Se non avessimo…».
«Avrei agito nella stessa identica maniera. E adesso, scusa, ho una sospettata da portare in centrale».
Le passò accanto guardando dritto di fronte a sé. Benedetta lo seguì, senza parole.
Fuori dal suo ufficio, intanto, l'atmosfera si era fatta stranamente elettrica.
«Forza, Signora Birmingham. È ora di andare. E lei, Signor Birmingham… Non sarebbe male se venisse anche lei».
«Che c’entra mio marito, adesso?».
Martìnez ammiccò.
«Precauzione. Mi consideri pure paranoico».



Quando Zachariasz aprì la porta che dava sul vicolo sul retro, trovò Honey seduta sul gradino. Si stringeva nelle braccia, infreddolita, e fissava il vuoto.
«Honey?».
Lei si girò verso di lui, aveva gli occhi un po’ arrossati. Forse per il pianto. Forse per il freddo. Forse per entrambi.
«Ci sono novità?».
Zachariasz esitò. Non voleva mentirle, sarebbe stato come predicare bene e razzolare male, ma sapeva anche che Honey avrebbe faticato a capire, perciò optò per una mezza verità.
«Sì, ma non buone».
Honey annuì e basta. Tornò a fissare il vuoto. A Zachariasz pareva ieri quando l’aveva vista seduta su quello stesso gradino per la prima volta, aveva tredici anni, due trecce che le scendevano sulle spalle e non voleva saperne di tornare dentro e finire i compiti di matematica. Era anche la prima volta che la portava al Goldfinger. Gli pareva ieri, sì, ma sapeva che non era ieri. Era molto più tempo. Honey era cresciuta davvero, era una donna ormai, e lui l’aveva capito soltanto adesso.
«Tesoro», cominciò, prendendo posto accanto a lei. «È meglio che tu e la mamma torniate a casa. Vi accompagnerà Benedetta».
«Cosa? No, io voglio aspettare JD».
«É sicuro che non uscirà prima di domani mattina».
«Ma…».
«Tuo zio ed io rimarremo qui a studiare un piano. Tu però hai bisogno di riposare».
«Papà, non sono più una bambina».
«Lo so. Oggi hai dovuto affrontare cose molto più grandi di te, credevo che ne saresti uscita distrutta e invece sei ancora in piedi, sana e salva. Quindi, credimi, adesso lo so. Che non sei più una bambina. Che puoi affrontare questo e altro».
E che non devo più preoccuparmi per te. O, meglio, si sarebbe sempre preoccupato per lei, ma adesso sapeva che poteva fare quello che doveva col cuore sereno.
Honey abbassò lo sguardo sul suo polso destro, che si stava massaggiando spasmodicamente.
«Ho anche combinato un bel casino».
«Honey, guardami». Lei tornò a fissarlo dritto negli occhi e per un attimo Zachariasz temette di non farcela, di stramazzare sull’asfalto viscido del vicolo. L'aria all'improvviso sembrava densa come crema, respirare era diventata un'impresa. Dilatò le narici e prese un respiro profondo. «Non è colpa tua. Non sei responsabile di nulla, qualsiasi cosa accada. Hai capito? Tu hai solo cercato di fare la cosa giusta tornando indietro da JD. Ricordi quello che mi hai detto sui tuoi tatuaggi?».
Lei annuì, tirando su col naso.
«Ogni volta che li tocco è come se ti prendessi per mano. Come se avessi accesso a un po’ del tuo coraggio».
Zachariasz abbozzò un mezzo sorriso.
«In te c’è una parte di me. Per tanto tempo ho temuto che fosse quella peggiore, invece no. Tu hai preso il meglio di me e lo stai coltivando e nutrendo come io non ho mai fatto. E questo, oltre ad alleggerire la mia coscienza, mi rende molto fiero di te».
Honey gli buttò le braccia al collo e scoppiò in singhiozzi contro la sua spalla.
Zachariasz tornò indietro nel tempo, quando il peso più dolce del mondo si era posato sulla sua spalla per la prima volta, quando aveva capito che adesso la vita di un altro essere umano dipendeva da lui, quando aveva giurato a se stesso che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di difendere quella bambolina rosa e che sarebbe diventato un uomo migliore per lei.
Forse finalmente sarebbe riuscito a mantenere quell’ultima promessa.
«Ti voglio bene, papà».
«Anch’io, sempre».
Honey si staccò dal suo abbraccio e si asciugò gli occhi col dorso della mano. Zachariasz le porse Gina e lei la maneggiò con cura, neanche si fosse trattato di una reliquia, accarezzandone la punta ormai spaccata, smusata e frastagliata.
«Tienila tu, questa», le disse. «Così potrai restituirla a JD di persona, quando tornerà a casa».



Mezz’ora più tardi al Goldfinger erano rimasti soltanto Zachariasz e Carlisle.
«Non sono convinto, ci deve essere un’altra soluzione. Aspettiamo di sentire i miei avvocati, vediamo quali alternative ci propongono».
«No, ormai ho deciso».
«Deciso un paio di palle! Non pensi a tua figlia, non pensi a tua moglie? Mia sorella, cazzo. Avevi giurato che ti saresti preso cura di loro!».
«Non capisci? Lo devo fare. Per JD, per Honey, ma soprattutto per me stesso. Per diventare l’uomo che ho sempre desiderato essere per la mia famiglia».
Carlisle scosse la testa, sconfitto, ma non insistette. Zachariasz gliene fu infintamente grato.
«Penserai tu a loro, non è vero?».
«Certo, maledetto figlio di puttana. Certo».
«E per quanto riguarda la palestra… Kip è perfettamente in grado di gestirla da solo. Assicurati solo che dia la mia parte a Isa, è un bravo ragazzo, ma prevenire è meglio che curare».
Carlisle annuì.
«Vuoi che ti accompagni?».
«No, preferisco andare da solo».
«Va bene, allora… cosa si dice in questi casi?».
Zachariasz gli porse la mano. Lui gliela strinse subito.
«Grazie di tutto, Carlisle».
«Oh, fottiti, bastardo!».



Dovevano essere circa le nove del mattino, JD non era sicuro, non c’erano finestre. Non aveva dormito nemmeno un po’, perché la cella del distretto di polizia nella quale era stato rinchiuso era piena come un uovo. Quattro o cinque dei suoi compagni di cella erano stati suoi clienti e nel riconoscerlo lo avevano salutato con un cenno del capo.
«Ehi, JD. Vieni qua».
Un agente stava aprendo la cella con un grosso mazzo di chiavi tintinnante. Dietro di lui c’era il Detective Bell.
«Un altro interrogatorio?», chiese oltrepassando la porta che l’agente teneva aperta.
«No, al contrario, sei libero».
JD aggrottò la fronte.
«Non capisco. Stanlio ha ritrattato?».
«Affatto, Stanlio continua a ripetere che sei stato tu. Ma c’è stata una confessione che ti scagiona completamente. O meglio, quasi. Sei ancora accusato di resistenza a pubblico ufficiale, ma sono sicuro che il giudice terrà conto delle attenuanti».
Stavano camminando lungo il corridoio.
«Attenuanti?».
Il Detective Bell fece per rispondere, ma si bloccò. Fissava qualcosa di fronte a lui. JD seguì il suo sguardo e sgranò gli occhi. Qualche metro più avanti, Zachariasz era in manette, affiancato da due agenti. JD provò ad avvicinarglisi, ma uno dei due sbirri lo tenne a distanza.
«Stai indietro, ragazzo».
«Non si preoccupi, agente», intervenne il Detective Bell. «È tutto a posto. Diamo loro due minuti».
A giudicare dalle occhiate nervose che lanciavano in direzione di Zachariasz, i due poliziotti non sembravano convinti che lasciare incustodito un reo confesso di omicidio fosse una buona idea, ma non protestarono. Si allontanarono di un paio di metri, insieme al Detective.
«Che cosa hai raccontato?».
«Che ho ucciso Trucizna, perché aveva minacciato di far male alla mia famiglia. Che tu ti trovavi al cantiere per impedirmelo».
«E ti hanno creduto?».
«All’inizio no. Ma ho portato con me l’arma che ha freddato Trucizna. E il poliziotto che stava per arrestarmi al cantiere mi ha riconosciuto».
JD sospirò e si portò i capelli indietro.
«Non avresti dovuto».
«Sì, invece. Adesso siamo pari».
«Non pensi a Honey? Lei ha bisogno di suo padre».
«Honey sa badare a se stessa, ma visto che l’hai tirata in ballo… Vedi di trattarla come si deve e di non farla soffrire. Se arriva al mio orecchio la notizia che ha versato anche solo una lacrima a causa tua, giuro che evado di galera e ti ammazzo con le mie mani».
Il sopracciglio destro di JD ebbe un sussulto, proprio mentre il Detective Bell tornava con i due agenti.
«Mi spiace, ma dobbiamo andare adesso».
La faccia di Zachariasz era di pietra. JD non sapeva cosa dire, grazie sembrava una parola così scontata e vuota. Gli venne in mente che Wile preferiva tacere, piuttosto che ripetere come un robot le solite frasi fatte. JD si era sempre trovato d’accordo con lui.
«Honey lo sa già?».
«No, e non la prenderà bene. Fa’ che non si senta in colpa. Dille che fin quando avrò i miei tatuaggi magici, starò bene».
«D'accordo».
Poi i due agenti portarono via Zachariasz e JD rimase a fissarlo finché non scomparve in fondo al corridoio. Provava una sensazione di rigetto alla bocca dello stomaco, come quando Wile aveva scoperto di avere il cancro ai polmoni.
Soltanto io ho il diritto di essere incazzato. Mi vedi incazzato, forse? No, infatti. Quindi levati quel cazzo di muso dalla faccia, che andiamo dall’avvocato.
A fare che?
Il testamento, no? Il mio negozio deve finire in buone mani. Non voglio che a tuo padre venga la felice idea di venderlo.
Wile, non pensi che dovresti prima pensare a curarti?
No.
Ma…
La minestra è questa, che ti piaccia oppure no. Non puoi cambiarla. Le uniche cose che ti spettano sono accettare la mia decisione e prenderti cura del mio negozio. Non voglio ripeterlo più, sono stato chiaro?
Cristallino, nonno.
Non chiamarmi nonno!







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Note autore:
E questo era il penultimo capitolo.
Chi segue la serie tv Elementary avrà sicuramente riconosciuto il Capitano Gregson e il Detective Bell. Del resto, ci troviamo sempre a New York, no? I vari universi si intersecano facilmente, di questi tempi.
Come sempre, un grazie gigantesco a tutti.
Ci vediamo lunedì prossimo, con l’ultimo capitolo!
Bacioni.
   
 
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