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Autore: Minina    31/03/2014    2 recensioni
[Prima Guerra Mondiale].
Eccoli là, verso il fronte. 
Ma come possono ragazzi di soli vent'anni andare incontro alla morte, costretti da una società che la parola "vigliacco" la tiene sempre in mano? 
Ma ormai Sebastian è là, fucile alla mano e avversione nel cuore, in un luogo che non gli appartiene, che non appartiene a nessuno di loro, nemmeno a quel caro ragazzo amico -e forse anche di più- che sin dal primo momento gli è stato da pilastro, mano alla quale aggrapparsi quando la terra, umida e fredda, t'inghiotte la vita.
Capitolo III (in arrivo).
Genere: Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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Capitolo II.

Il sole splendeva alto in cielo, riscaldando la terra umida e i cuori dei soldati a riposo, stesi sull’erba ora un po’ più accogliente. La maggior parte dei giovani tedeschi si approfittò di quella calura per far asciugare camicie e calze al sole, godendosi i tiepidi raggi solari sulla loro pelle.
Sebastian, appoggiata la schiena su di un pezzo di lego, ripensava a quel misero attacco e alla misera figura avvenuta qualche giorno addietro lungo la linea, finendo per ridere di sé stesso. Non doveva più accadere.
Nulla era andato come si aspettava. Aveva finito per fare la figura dell’idiota, del bambino attaccato alla gonna della madre, un frignone che mai aveva messo piede in caserma; eppure là era uno dei migliori. Com’era possibile?
Ti ci abituerai.
Che diamine! Sentiva ancora la vergogna stringergli il petto.
Scosse violentemente il capo; doveva smettere di pensarci. Tornò a guardarsi attorno, in solitudine, studiando l’ampio campionario di giovani uomini e ragazzi che beatamente si godevano quel po’ di riposo. Era come se fosse tornato al giorno in cui era arrivato: c’era chi fumava, chi sonnecchiava, chi giocava a carte; e proprio in quel gruppetto poco distante da lui, a giocare vi era anche il ragazzo dell’elmetto, che probabilmente, sentendosi fissato, si voltò verso di lui.
Sebastian sostenne lo sguardo del compagno per alcuni secondi, secondi che gli sembrarono un’eternità, per poi rigirare il capo nella direzione opposta, udendo subito dopo dei passi nell’erba e nel fago asciutto.

“Hei, hai mica una sigaretta?”

Sebastian alzò lo sguardo, accecato dai raggi del sole e dalla luce che circondava la figura del suo interlocutore. Si pose una mano sopra la fronte per coprirsi gli occhi chiari e rendere più nitida la figura di fronte a lui.

“Dico, ce l’hai mica una sigaretta?”

“Oh...” si ridestò, iniziando a frugare nelle tasche facendone uscire un intero pacchetto ancora in buone condizioni “prendi, io tanto non fumo”.

La figura resa scura dal riflesso del sole sospirò. “Si vede che sei nuovo”. Ridacchiò flebilmente. “Io ti ho chiesto solo una sigaretta, non tutto il pacchetto. Vedi, questo…” disse sollevando il pezzo di cartone scuro “lo puoi scambiare un po’ con qualsiasi cosa, non ti conviene darlo via così, è da sprovveduti!”.

Fu allora che il giovane s’inginocchiò a livello di Sebastian, rivelando le vere fattezze: era un giovane uomo dal corpo magro ma dalle spalle grosse, con due occhi color del ghiaccio e dei magnifici capelli bruni che gli scendevano a ciuffi sulla fronte.  Sebastian ne rimase come incantato.

“E poi aspetta e vedrai, comincerai anche tu a fumare. Tienitele ancora strette per un po’, fidati di me”.
Sebastian non rispose, limitandosi ad allungare il braccio per tornare in possesso del pacchetto, che iniziò a rigirarsi fra le mani. “D’accordo”.

Il giovane sorrise. “Quanti anni hai, recluta? Sembri parecchio giovane”.

“Diciannove. Ne ho diciannove”.

“Fiù” fischiò sorpreso. “Sai, ti facevo più giovane. In molti qua hanno la tua età. Purtroppo”.
Sebastian si limitò a sorridere di rimando, continuando a giochicchiare nervoso con il pacchetto, quasi quasi propenso ad accendersi una sigaretta.

“Perché tu? Quanti ne hai?”.

“Io? Oramai sono ventitré mio caro…?”

“Sebastian. Sebastian Träumen” sorrise sbilenco, poggiando le sigarette a terra e allungando la mano verso il ventitreenne, in attesa che venisse ricambiato il gesto.

“Gustave Sauer”.

Gustave strinse la mano di Sebastian con un’energia insolita, potente. Una di quelle strette di mano che ti ricordi per tutta la vita. Non sudaticcia, non mole, ma forte, rigorosa. Perfetta.

“Gustave? Perdonami, forse mi sbaglio, ma sembra tanto un nome…”

“Francese. Si, francese. I miei genitori erano, sono, fanatici di Gustave Flaubert. Renditi conto, mi hanno istigato a leggere Madame Bovary in tutte le salse. Risultato? Ora odio romanzo e autore, il cui nome ce l’avrò marchiato addosso per tutta la vita”. Sbuffò prendendo posto a fianco di Sebastian, steso supino sull’erba con le mani giunte dietro il collo e irradiato dai raggi solari sul volto, tanto che dovette continuare a parlare con le palpebre rigorosamente serrate.

“Che ironia. Con questo nome da questa parte della linea”.
Sebastian rise, riprendendo fra le mani il pacchetto di sigarette e iniziando a rigirarsene una fra le dita.

“Ad ogni modo, qui tutti mi chiamano Gutt”.

“Gutt?”. Domandò perplesso Sebastian. “Che insolito soprannome per un Gustave”.

“E’ venuto fuori questo, e questo mi voglio tenere. Di un po’, vuoi d’accendere?”.
Sebastian si voltò verso Gustave – o Gutt, insomma, quel che era- incapace di rispondere. Non aveva mai fumato prima d’ora e sapeva per certo che il primo tiro non sarebbe stata un gioia per i suoi polmoni tanto che avrebbe tossito così forte da far girare tutti verso di lui e farsi una bella risata, facendoli sospirare “Ah, Reclute”. No, aveva già dato. Almeno per qualche giorno voleva starsene tranquillo senza dover incappare nella vergogna.

“No”.

“D’accordo” rise “Come preferisci”.
Rimasero stesi alla luce del sole per vari minuti, forse anche un’ora, in completo silenzio, avvolti dalla tranquillità che li si sapeva essere una cosa rara, finché il sole non iniziò a tramontare lasciando spazio al flebile imbrunire e alla frescura che la sera porta con se. Gutt raccolse camicia e calze e si rivestì, rabbrividito dalla temperatura in calo.

“Da dove vieni?” domandò, chiudendosi i bottoni della giacca.

“Da Berlino”.

“Anche io. È una bella città, non trovi?”

Sebastian lo guardò. “Si, molto”.
Ancora per altro tempo rimasero in silenzio a contemplare qualcosa di indefinibile. Era strano, pensava Sebastian, molto strano. Un ragazzo che era là da chissà quanto tempo prima di lui per ore se n’era stato in sua compagnia, per lo più in silenzio, invece che rimanere con i compagni ormai amici a giocare a carte, raccontarsi aneddoti sporchi, o semplicemente dimenticare il posto dov’erano capitati. Era in procinto di domandare a Gutt il perché di quell’insolito gesto che l’interessato s’alzò, saltando sul posto tirandosi su i pantaloni.

“Vieni, andiamo a mettere qualcosa sotto i denti”.
Sebastian guardò dritto di fronte a sé. Vide un paio di uomini che trasportavano un grosso pentolone, posizionandolo su di un piccolo tavolino di legno che, per chissà quale strana legge, riusciva a sorreggerne il peso senza rompersi. Assieme a Gutt s’alzò dallo spiazzo d’erba, avvicinandosi con lui verso la fila che pian piano si stava formando. Prese mano alla gavetta e alla forchetta a molla e seguì i passi del più anziano che puntavano dritto su un piccolo gruppetto di giovani uomini.
Come un timido bambino presso la madre Sebastian lo seguì a capo chino, imbarazzato e nascosto dalle ampie spalle di Gutt che, con un gesto della mano, attirò l’attenzione del gruppo.
Sebastian conobbe così Mark, Tanko e Wolter.
Tanko era l’unico della sua stessa età, mentre i rimanenti erano uno di un anno più grande e uno più giovane di Gustave. Due originari di Bonn e uno di Ratisbona.

“Ti ci abituerai”. Gli sussurrò Wolter.

Ti ci abituerai. Ti ci abituerai alla morte, alla paura, alla vergona, agli istinti primordiali, alla mancanza di compassione e pietà, ti ci abituerai alla Guerra.
E di fatti, dopo un paio di giorni da quell’incontro, Sebastian dovette abituarsi.
I francesi avevano attaccato lanciando bombe piene di fosgene, che in pochi secondi s’irradiò per tutta la trincea. Assistito da Gutt e determinato a dimostrare quel che valeva, Sebastian si coprì svelto il volto con la maschera, spostandosi dalla sua bassa posizione verso una più alta. Assicurati che l’effetto fosse svanito i giovani si tolsero le maschere, issando la baionetta sul fucile. In una frazione di secondo abbassò lo sguardo verso la bassa trincea: i ragazzi che, visti i compagni togliersi la maschera avevano seguito il gesto, erano ora riversi a terra, volto viola e labbra blu. Le maschere erano soffocanti, forse tanto quanto il gas, ti facevano respirare l’aria che direttamente fuoriusciva dal respiro. Togliersela era un piacere, ma nelle zone più basse il gas rimaneva più a lungo che nelle zone alte, bruciandoti i polmoni.
L’ordine era quello di attaccare e cercare di guadagnare terreno e spostare la linea del fronte.
Sebastian, accerchiato dai compagni, partì assieme a loro circondato dagli scoppi delle bombe e dell’artiglieria, sfiorato dai miagolii dei proiettili. Vedeva ragazzi colpiti cadere a terra implorando aiuto, vedeva ragazzi diventare accozzaglia di membra e stoffa centrati dalle bombe, vedeva ragazzi che strisciavano al suolo con la sola forza delle braccia verso la linea amica, perché le gambe non c’erano più, vedeva ragazzi correre sui propri moncherini di caviglie, perché i piedi non c’erano più. Chi era fortunato veniva recuperato e portato verso la linea tedesca, curato o diretto nelle baracche ospedaliere. Se eri davvero fortunato ti beccavi una ferita tale da essere addirittura rimandato a casa. Ma avresti dovuto perdere gambe, braccia, o colpito alla spina dorsale. Chi non era fortunato rimaneva nel campo, nella terra di nessuno, lì a morire da solo.
Sebastian si scagliò contro i nemici, facendosi strada a suon fucilate e colpi di baionetta, che per quanto strumento di guerra e di morte fosse per l’avversario, lo era anche per il tedesco. Si impiantava tra le costole e per farla sgusciare fuori dovevi spingere sulla pancia del ferito. Questo era causa di morte per colpi di pallottole.
Colpito al braccio Sebastian si lasciò sfuggire il fucile dalle mani, pronto alla mercè del nemico. Allora Gutt, visto l’amico in pericolo, con un colpo di fucile sparò alla testa del francese, facendolo cadere sulle ginocchia e poi a terra.
Dato il fin troppo alto numero di perdite venne dato l’ordine di ritirata. I giovani uomini correvano verso la linea nemica ormai ridotta in brandelli, ma sempre ben solida, e arrivati li si contarono.
Sebastian, Gut, Mark, Tanko e Wolter c’erano tutti, e stavano bene, solo qualche; ma il gran numero del loro squadrone si era notevolmente ridotto. Fin troppo.

“Tutti qua? Siete solo voi?”. Domandò un Sergente.

“Si, siamo solo noi”. Rispose Tanko, ansimante e sporco di sangue, a capo chino.
Nemmeno il rancio erano riusciti a portargli in quel giorno d’inferno.
Sebastian, dopo essere stato medicato al braccio, ritornò vero il gruppo degli, ormai, amici. Estrasse dalla tasca il pacchetto di sigarette e se ne accese una, e al diavolo alla tosse.
Gutt lo guardò impressionato per la mancanza di singhiozzi. Gli posò una mano sulla spalla, facendo un po’ di pressione, sorridendogli.
Erano ancora tutti là, loro quattro, ma chissà ancora per quanto.
La Guerra per Sebastian non era appena che all’inizio; ma si era già abituato. 
   
 
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