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Autore: ki_ra    03/04/2014    5 recensioni
In un punto imprecisato del tempo, in un luogo qualunque del mondo, due anime lontane incrociano le proprie vite.
Sangue e nome, rispettabilità e disonore, tradimento e amore li spingeranno l’una verso l’altra.
Mentre un mondo vecchio e superficiale si dibatte per continuare ad esistere, un amore nuovo nasce e sconvolge anime e cose.
Genere: Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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Punta d'ago e balsamo guaritore

 


L’aveva seguito, un passo dietro di lui, sebbene conoscesse perfettamente la dimora.
Da ragazzino, nonostante fosse alloggiato insieme alla servitù, per non urtare la sensibilità della signora di quella casa, aveva attraversato spesso le ricche sale, corso per i lunghi corridoi, contemplandone lo sfarzo.
Decine di volte, insieme con Miran, si erano nascosti proprio nello studio del padre, forzato l’armadietto dei liquori, per assaporarne il gusto forte ed infiammante; avevano sottratto dalla preziosa scatola di cuoio un sigaro profumato, per provarne il percorso graffiante attraverso le narici giovani e sentirsi grandi.
Avevano trascorso mesi, cavalcando insieme, nei campi assolati; si erano sfidati come soldati, armi alla mano e sorriso sulla faccia; avevano confidato l’uno all’altro sogni e paure; si erano amati come solo gli amici di infanzia riescono a fare.
Si erano amati come fratelli.
Eìos aveva amato quel ragazzino dagli occhi chiari ed ingenui, inconsapevole della verità, perché egli gli aveva riservato affetto e rispetto incondizionati; l’aveva amato perché Miran gli aveva offerto sé stesso, nonostante le differenze sociali.
Poi la speranza di appartenere a quella famiglia si era dissolta, come il miraggio nell’arsura del deserto; suo padre era morto ed egli era stato cacciato, come un cane randagio. E come un cane aveva patito agli angoli delle strade, umiliato per le vesti lacere e maleodoranti e per le mani ed il sangue sporchi.
Il destino, incomprensibile, si divertiva a metterli di nuovo l’uno di fronte all’altro, gli stessi occhi chiari ed inconsapevoli di Miran, lo stesso desiderio inappagato di Eìos di essere suo fratello.
Ma gli anni erano passati, essi non erano più i due ragazzini che giocavano alla guerra, ma due uomini divisi da uno spartiacque invalicabile: il rango e la ricchezza di uno, la rabbia affilata e la sete di vendetta dell’altro.
Non sentiva di odiarlo per ciò che la vita gli aveva riconosciuto per diritto di nascita: Eìos non sapeva odiare.
Ma neanche sentiva di amarlo come allora, giacché egli sapeva adesso, che quella fraterna comprensione di Miran, altro non era che compassionevole cura per chi è nato disgraziato, soltanto il sentimento cristiano di sollevarlo dalla mala ventura.
Se Miran avesse saputo che il proprio sangue era lo stesso che alimentava Eìos, nulla avrebbe potuto trattenere l’odio: né il ricordo di una fanciullezza perduta, né la compassione avrebbero potuto prevalere sull’istinto di preservare ciò che era suo.
Si è generosi soltanto quando ciò che ci appartiene non ci può essere strappato!
- Sai che mio padre nutriva il desiderio che crescessimo insieme, che tu vivessi qui, nella mia casa … - gli ricordò, sorseggiando il liquore nel calice di finissimo cristallo. – E che rimasi profondamente amareggiato quando, dopo la sua morte, tu lasciasti la tenuta. – insistette, guardandolo sincero.
- Fu tua madre a scacciarmi … - replicò, scostante, la schiena mollemente adagiata alla poltrona di vecchia pelle, le gambe accavallate e le dita impegnate dal sigaro.
- Lo so … e fui in collera con lei per molto tempo. – si giustificò.
- E perché mai? Tua madre aveva ragione: non si mischiano lana e seta … - decretò amaro, come un vecchio saggio. - Ognuno ha il proprio posto a questo mondo: a quelli come te, Miran, sono riservate ricche dimore e a quelli indegni, come me, i letamai … -
- Tu non sei indegno, Eìos. Scostante e rude, dal carattere aspro, ma non indegno. – lo corresse.
- Se è questo ciò che credi … - scrollò le spalle, incurante e per nulla toccato dallo slancio di Miran.
- E’ ciò che credo e intendo dimostrartelo. Voglio che tu rimanga qui: ho bisogno di un uomo affidabile, di un amico disinteressato che mi affianchi nell’amministrazione dei miei possedimenti. – propose.
Eìos si intorbidiva ogni qual volta Miran rimarcava il possesso su ciò che inconsapevolmente apparteneva anche a lui, un legittimo sussulto lo spingeva a saltargli al collo, a gridargli tutta la sua rabbia, con disprezzo, uno sputo in pieno viso. Come l’incisione di un ascesso caldo, dona sollievo alla ferita purulenta, così lo sfogo dell’ira selvaggia e consapevole di due animali, che si contendono lo stesso territorio, li avrebbe finalmente resi liberi.
Ma una forza stabile ed ancora più prepotente lo legava, in attesa: la vendetta disperata prevaricava ogni istinto e ciascuna pulsione.
- Mi stai offrendo un lavoro? – chiese, impassibile.
- L’accetteresti, in nome della nostra vecchia amicizia? – ribatté, di nuovo il ragazzino nostalgico della loro fanciullezza.
- Non ho mai avuto un padrone … - lo mise in guardia.
- Sarai un amico, un ospite, non un servo alle mie dipendenze. – precisò, per fugare ogni dubbio.
Per la prima volta Eìos sentì che la vita gli stava offendo l’occasione perfetta per prendersi ciò che era suo.
I contorni erano ancora troppo fumosi per definirlo un vero piano, ma il fine era chiaro: avrebbe portato il nome che gli apparteneva per nascita. Al diavolo Nubia, bugiarda e meretrice, al diavolo l’amore ed il rispetto … al diavolo ogni altra cosa.
- E sia! – accettò, sul volto impassibile, non un’emozione a tradire il suo stato d’animo. – Devo avvertire il dottor Elmisk della mia permanenza nella tua dimora … - concluse, sollevandosi.
- Me ne occupo io: avevo già in animo di mandare qualcuno per richiedere la sua presenza. Vorrei che visitasse Nubia … -
- Come credi … - l’assecondò, le spalle già rivolte a lui ed il petto increspato dal suo vendicativo proposito.
- Eìos … - lo chiamò, quando era già sulla soglia dello studiolo. – Alloggerai nell’ala della casa destinata agli ospiti, questa volta … - precisò, per rimarcare la sua intenzione di trattarlo come un amico.
- Il padrone sei tu! – replicò allontanandosi, con le spalle dritte rivolte a lui ed un gesto svogliato della mano.
 

*********
 

Erano trascorse già un paio d’ore dal momento in cui Eìos e Miran si erano recati nello studio di quest’ultimo, per discorrere, ed Ariela non aveva fatto altro che pregare e sperare che la conversazione fosse amichevole e cordiale, così come amichevole e cordiale le era apparso il tono di suo cognato. Si fermò solo per un attimo ad immaginare quali terribili conseguenze avrebbero portato le parole ingiuriose di quell’uomo e ne fu inorridita, tanto che preferì distogliere la mente per votarla a tutt’altri pensieri.
Ancora non riusciva a comprendere per quale arcano motivo avesse ceduto alla supplica muta di Nubia e avesse omesso di raccontare alla madre ciò che aveva scoperto.
Non aveva mai saputo mentire, Ariela, neanche da bambina.
Le poche volte che si era adoprata a farlo, immediatamente le guance le si erano imporporate, il respiro increspato e gli occhi le erano caduti in grembo, nel tentativo maldestro di nascondere la bugia. Così la madre l’aveva scoperta, rimproverata e punita, tanto che ella aveva rifuggito, negli anni a venire,  quell’inutile pratica scorretta.
Per questo non riusciva a spiegarsi perché avesse ricominciato a farlo proprio in quel frangente, tanto più che il misfatto taciuto non era neanche opera sua. Forse la vergogna dell’ingiuria, lo sdegno per il comportamento dissoluto di Nubia, forse  il desiderio di proteggere sua madre da un simile dolore, erano stati i legacci  che l’avevano trattenuta.
Ma una verità celata è pari alla menzogna; e la menzogna è peccato, così come l’omissione.
Ma soprattutto essa non è che un anello di una catena, legato a quello successivo, una spirale indissolubile che corrode, esaspera lentamente, finché si palesa, nell’istante esatto in cui è già troppo tardi per rimediare. Allora diventa rimprovero e punizione gravissima  senza possibilità alcuna di redenzione.
Era così assorta in quegli infernali rovelli che non si rese neanche conto di essere uscita dalla piccola cappella nobiliare, dove aveva recitato i vespri, ancora il velo di pizzo a coprirle il capo ed il rosario di madreperla inanellato intorno alle dita sottili. Percorreva a passi docili il sentiero che conduceva alla casa, gli occhi sulla ghiaia biancastra, che scricchiolava sotto i piedi, e il fruscio quasi impercettibile delle vesti.
Il colore del cielo imbruniva, induceva alla calma ed alla ricerca del silenzio, il profumo dell’erba falciata da poco, mescolata a quello leggermente acre dei fiori di zagara, era la cornice perfetta per quella scena bucolica, come in un quadro magico, che cattura, all’unisono, vista e olfatto.
Un crepitio più deciso la ridestò, come lo schiocco di un ramoscello calpestato nel silenzio della notte: Eìos le stava di fronte a pochi passi, lo sguardo fermo su di lei, i capelli scarmigliati e la camicia bianca, slacciata sul petto.
Un raggio di sole, ultimo bagliore di un giorno consumato, filtrava attraverso i rami più bassi degli alberi da frutto che delimitavano il sentiero. Un vaporoso fascio di luce obliquo si infrangeva lungo il suo profilo fluido, disperdendosi nella luminosità argentea delle infinitesime particelle di polvere galleggianti nell’aria. La guardava assorto ed intenso, come se cercasse di vedere oltre i confini accessibili alla vista umana, una fessura, un anfratto interiore di cui neanche lei stessa aveva coscienza.
Anche Ariela fermò lo sguardo su di lui, interrogativo, speranzoso, carico di domande che però rimanevano mute.
- Non guardatemi così, con quell’aria angosciata. Ve ne prego … - chiese quasi intenerito, - Non ho ancora rivelato il nostro segreto. – ammiccò, piegando il capo a cercare meglio i suoi occhi.
- Ve ne sono grata … - lo ringraziò, il cuore sollevato da un incredibile peso.
- Non l’ho fatto per voi, né per Miran, tanto meno per quella …  per vostra sorella. L’ho fatto per me solo! – precisò, inasprendo il tono e coprendo, a grandi passi, la distanza che li separava.
- Ciò che conta è che abbiate taciuto … - insistette, immobile, nello stesso punto in cui era quando l’aveva veduto, un velo di riconoscenza nella voce.
- Cosa vi angustiava, signora? Che imbrattassi di fango il vostro buon nome o di sangue purissimo e nobile la camicia di vostro cognato? – la provocò, lo stato d’animo inasprito dalla premura che ella mostrava per il rivale.
- Temevo per il vostro sangue, invece … - gli rivelò, stringendo tra le dita il breviario, come a mitigare la punta aguzza del carattere acre di lui.
- Siete davvero sicura del valore di Miran! – sorrise caustico, - Non ve ne abbiate a male, ma se ci fossimo battuti a duello, non sarebbe stato certo il mio sangue a disperdersi! – affermò, arrogante.
- Di certo, siete più sicuro voi del vostro! – ribatté, con quella forza sconosciuta che la obbligava a tenergli testa.
- Io non ho valore, non ho nome, non ho onore, né rispetto alcuno per la vita e per le regole. E per questo che l’avrei battuto! – ruggì, brandendo, come un’arma, la propria voce affilata.
- Se è come dite, se non avete onore, né rispetto o valore, perché dunque avete taciuto? – lo provocò, sempre più animata, e decisa ad interpretare il suo intento oscuro.
- Perché adesso non è il suo sangue ciò a cui anelo … - rispose vago.
- A cosa, allora? – insistette, con un brivido di ghiaccio a pungerle il petto.
- Non vi riguarda … O temete forse che possa indurre in tentazione la vostra casta sorellina? – alluse, sfacciato.
- Non siate insolente. -
- E voi non siate ingenua: quella donna mi ripugna. Ora che conosco la sua natura, provo repulsione e sdegno. La sola idea di me a riempirle quel ventre bugiardo … mi nausea. – sputò, le parole come fossero un veleno che gli imputridiva il sangue.
Ariela, che fino a quel momento era riuscita a tenere il viso fiero su quello di lui, calò gli occhi, imbarazzata, umiliata, come se avesse ricevuto uno schiaffo in pieno viso. Non era avvezza ad un tale linguaggio così provocatorio e insolente; tantomeno all’immagine impudica di un amplesso. Le guancie si colorarono dello stesso verecondo pudore che l’aveva costretta ad abbassare lo sguardo ed Eìos, per la prima volta, sentì sulla propria pelle il bruciore delle sue stesse parole e ne fu ferito.
- Perdonatemi … non era mia intenzione mancarvi di rispetto! – si scusò, con una voce caldissima ed avvolgente.
Del gentiluomo, Eìos, non aveva alcunché. Non l’andatura impettita dell’ufficiale, piuttosto quella del soldato rude ed incosciente al massacro. Non la maniera d’abbigliarsi, sempre disinvolta, la camicia morbida a fasciargli il petto, il colletto slacciato e mai inamidato. Tantomeno l’uso delle parole, mai calibrate, ma sfacciate e cattive, scudo per difendersi e lancia per offendere.
Eppure in quell’istante la sua capacità nobilissima di chiedere scusa, sanò ogni pudore leso: Eìos feriva, come la punta di un ago, e medicava, come un balsamo guaritore.
- Miran mi ha offerto ospitalità nella sua casa, per qualche tempo … - le rivelò, spezzando la cima di un ramo fiorito e odoroso di un arancio, - Ed io ho accettato. – continuò, tormentandolo tra le dita, un gesto che parve alla giovane quasi di imbarazzo.
- Non avreste dovuto … Rinunciate, per l’amor di Dio! – lo supplicò, accorata.
- Quale Dio, signora? Il vostro, che ama tutti gli uomini in egual misura, quali suoi figli diletti? Od il mio, che nega ad un bambino il calore di una casa, il nome, l’altrui rispetto per un sangue che non è legittimo?
Credere in un Dio giusto e padre è il lusso che solo voi, che avete avuto ogni cosa, potete permettervi! -
Gettò il ramoscello, dai fiori ormai spampanati ai piedi di lei, con rabbia e sdegno; le passò accanto, le spalle a sfiorarsi; il volto dai tratti induriti, fissò quello di lei, indugiando sulle guance pallide e le labbra vermiglie. Il profumo di lui, muschio bianco e sandalo, la sfiorò come zefiro primaverile, mentre le volgeva le spalle, lasciandola sola.
Punta d'ago e balsamo guaritore.

 

  
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