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Autore: sheisonfire    03/04/2014    17 recensioni
Riflettori. Luci. Flash. E’ tutto quello che riesco a vedere.
Urla. Singhiozzi. Il ritmo della batteria. Le mie orecchie percepiscono solo questo.
Ma il mio cuore sta sentendo molto di più. Una cosa che ti avvolge fino a chiuderti lo stomaco, che ti toglie il fiato, che ti fa spuntare un sorriso genuino sulle labbra. Una cosa che ti fa sentire viva. Speciale. Utile.
E’ l’amore di milioni di persone.
Persone che ti seguono qualsiasi cosa tu faccia, in qualsiasi posto tu vada.
Questo solo perché ho un microfono in mano e un copione da seguire.
No. E’ di più.
La voce trasmessa da quel semplice apparecchio può far commuovere, dicono.
Delle battute scambiate davanti alla telecamera possono far ridere, dicono.
Ma io dico che non ho mai provato sensazioni così forti per gente che non ho mai visto né tantomeno conosciuto.
E’ facile. Loro ti donano il loro cuore, tu gli regali il tuo cuore…
Loro ti donano il loro supporto, tu gli regali la tua voce…
Loro ti donano il loro tempo, tu gli regali un sogno per cui combattere…
Ma una cosa che forse non sanno è che loro sono il mio, di sogno.
Genere: Azione, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Chapter 5
 




Sangue.

Sangue dappertutto.

Sulle pareti, per terra, sulle mie mani, sulle mie gambe, nei miei capelli  ormai macchiati di un rosso scuro scolpito fra le mie ciocche castane.

Rossi gli occhi di chi sto guardando, accesi di fame e di violenza.

Profondi, così tanto che in quel mare di cattiveria è affogata ogni mia cognizione di tempo.

Quanti secondi sono passati dall’ultimo grido?
Quanti mesi sono passati dall’ultimo sguardo?
Quanti anni sono passati dall’ultimo bacio?

Niente ha più senso mentre avverto nuovamente il contatto dei suoi denti appuntiti contro la soffice pelle del mio collo, e urlo.
Urlo come se servisse a cacciare fuori dal mio corpo l’impotenza che mi tiene distesa a terra, con un labbro spaccato e le braccia immobili, serrate dalla forza delle sue mani.
In quel suono si può avvertire tutto il terrore che il cuore sente ad ogni battito che mi sconquassa il petto, i polmoni ad ogni respiro mozzato, i muscoli incapaci di reagire a quel corpo così forte e pesante sopra il mio.

Avverto il canino che si conficca nella pelle lacerandola, scavando un solco fra gli strati e raggiungendo la vena pulsante.
Il dolore è così forte che la mia testa si gira involontariamente verso destra, permettendogli così di prendere me meglio.

E mentre avverto il sangue uscire fuori e sgorgare per tutta la lunghezza del mio collo so di star perdendo ogni cosa, a partire da me stessa.
Un po’ di sangue e sono andata via.
Altro sangue ed scappata anche Lei, la mia anima.

Lo specchio alla mia destra si rompe improvvisamente e i pezzi di vetro cadono uno dopo l’altro, sgretolandosi al suolo.
La cornice verniciata d’oro, però, rimane intatta e da essa appare una figura.
Ma la mia vista è troppo opaca per riconoscerne i tratti del viso e i movimenti, così non mi resta che implorarla con gli occhi. Con la poca forza che mi è rimasta fisso costantemente quell’alone come se stessi chiedendo aiuto.

Eppure le mie palpebre crollano dopo pochi istanti, due macigni che coprono le mie iridi piene di niente.
Mi accorgo di essere morta solo quando le mie orecchie percepiscono un imponente silenzio, la mia bocca smette di emettere gemiti e la mia schiena torna pesantemente a toccare il pavimento freddo.
 
 
 
 
 
 
“Svegliati!”.
“Svegliati Sara, svegliati!”.
“Apri gli occhi!”.

Una voce fa combattere i miei occhi contro l’oscurità.
Il buio che mi pesava sulle palpebre scompare di colpo, facendomi scontrare con i raggi del sole che filtrano dalla finestra e il viso di una persona conosciuta.

“Va tutto bene?” mi chiede Alexis, con le sopracciglia leggermente corrugate e il viso che esprime attesa di una risposta, prima che io avverta il contatto delle mie dita che stringono forte le lenzuola.
Collego subito il suo volto alla voce che mi imponeva di svegliarmi.

Noto con un certo sollievo che il mio corpo non si trova disteso su un freddo pavimento, ma su un comodo materasso che sono costretta ad abbandonare controvoglia.
Mi metto lentamente a sedere e punto lo sguardo verso le mie gambe: sono intatte. Al posto di graffi e tagli mi trovo a contemplare il lenzuolo immacolato.
Di scatto porto la mano sulla parte sinistra del collo aspettandomi il peggio e trasalisco al pensiero. 
L’espressione di paura - che sono sicura sia dipinta sul mio viso - non dev’essere sfuggita alla mia amica, che aspetta ancora una risposta.

“Brutto sogno” mormoro più a me che a lei, per calmare il cuore che ancora mi galoppa nel petto.
“Ti va di parlarmene?” chiede, sporgendosi di più verso di me.

Per un momento tentenno, non sapendo bene se raccontarle una bugia o la verità. In pochi attimi scelgo la seconda: è una mia cara amica e dirle che un ragazzo con gli occhi rossi mi stava mangiando la farà semplicemente ridere.
La mia previsione si avvera  e dopo pochi minuti una risata squillante inonda la stanza e distrugge ogni traccia del mio sonno.
Sgattaiolo a piedi nudi verso il bagno chiudendomi la porta alle spalle per evitare ulteriori domande. Nonostante il muro ricoperto di pennellate cobalto, però, continua a parlare.

“E com’era fatto? Era bello?” chiede imperterrita. La sua voce si fa sempre più acuta, facendomi sperare che non abbia una grande estensione vocale.
“Era un sogno, Alexis” rispondo, disgustandomi della mia voce rauca di prima mattina. “Come faccio a ricordarmi?”
“I suoi occhi erano rossi! Sai, una volta ho sentito dire…” apro immediatamente l’acqua del rubinetto per evitare di far arrivare alle mie orecchie altre stronzate.

Ancora qualche borbottio, passi veloci e la porta che sbatte.

Se n’è andata, finalmente.  

Non lo penso con cattiveria, è solo che la mattina ogni minimo rumore urta il mio limite di sopportazione, figuriamoci delle cretinate raccontate a voce così alta.
Faccio scivolare pigramente le dita sotto il tiepido getto d’acqua e me ne riempio le mani a coppa per portarla al viso.
La gradevole sensazione di tepore che mi attraversa i pori spazza via un po’ quell’attaccamento verso l’incubo.

Perché mi sento come se fosse successo davvero?

Strofino le mani sull’asciugamano cobalto come le pareti, il mobiletto, lo sgabello accanto al lavandino e i saponi posti sullo specchio.

Perché sento ancora i suoi denti che trapassano la mia pelle?

Apro velocemente la porta cobalto - ma li conoscono gli altri colori? -  e rovisto nella valigia cercando qualcosa da mettermi per l’incontro con i fans.
Una camicetta di jeans blu cobalto – ma che è, una condanna? - e una gonnellina sopra al ginocchio di pelle nera coprono il mio corpo. Mi ritrovo quasi a sorridere mentre guardo le mie gambe abbastanza slanciate e la vita stretta al punto giusto, sentendomi almeno per una giornata in pace con me stessa.

Non è stato facile convivere con il mio fisico, né tantomeno combattere per cambiarlo; finalmente oggi, a sedici anni fra due settimane, posso definirmi una persona contenta dei suoi polpacci e della sua pancia.
Non so quante volte abbia squadrato me stessa da capo a piedi davanti alla Grande Prova, il mio Grande Nemico, la mia Grande Tristezza.

Lo specchio c’è stato mentre piangevo sussurrando “Odio queste gambe, odio questo viso”.
Lo specchio c’è stato mentre mi ritornavano in mente tutti gli insulti ricevuti per com’ero fatta, per come camminavo; le critiche ai miei fianchi, ai miei capelli, ai miei denti.

Ed è stato incredibile come un ammasso di vetro, un dannato riflesso, una visione del mio apparire  potesse cambiare totalmente il mio umore.

Eppure ho sempre avuto al mio fianco una persona che ha spaccato quel vetro con me, l’ha preso a pugni fino a farsi sanguinare le mani; ma ce l’abbiamo fatta insieme ed abbiamo ricostruito quello specchio secondo la nostra volontà.
Lei mi ha capita, mi ha sorretta, mi ha consolata, mi ha fatta commuovere, ridere, impazzire, e lei mi ha anche appena chiamata, purtroppo.

“Sì, arrivo subito” dico frettolosa al cellulare sul cui schermo spicca in grassetto il nome di Alexis.
Con orrore realizzo che devo ancora truccarmi, pettinarmi, infilare le parigine nere e scegliere le scarpe: nella fretta inciampo due volte nel bordo del piumone, una punta di mascara mi finisce sul naso, il pettine schizza sul pavimento e perdo una scarpa sotto il letto.
Infilo accuratamente la camicia nella gonna ed indosso un cardigan nero di cotone completando il tutto.

Infine, alle 11:21, con un clamoroso ritardo di ventuno minuti, posso ritenermi pronta. Zittisco il cellulare che squilla prevedendo che sia  la mia amica o Scott e lo lascio vibrare nella tasca della gonna. Che saranno mai milleduecentosessanta secondi?!

Scendendo le scale, i cui gradini scricchiolano un po’ troppo sotto i tacchi dei tronchetti scuri, arrivo nella hall dell’hotel mentre sotto i miei occhi c’è un viavai di camerieri, ospiti  che arrivano e altri che partono con il loro solito cappello da baseball in testa e gli occhiali da sole calcati sul naso.

“Ma sei bellissima!” urla Alexis, facendomi sbattere col tallone contro il gradino per la sorpresa.
Mugolo sommessamente, tastandomi il piede mentre appoggio il braccio sulla ringhiera.
Alexis indossa un jeans a vita alta con degli strappi qua e là sulle gambe e un largo maglione grigio, e le faccio notare che anche lei di certo non si può non definire bella.

“Uh, scusa tesoro” fa lei, per poi cominciare a parlare a raffica.
In mezzo a quella specie di discorso capisco solo “tardi”, “presti questa gonna” e “annullamento”, così la invito a parlare più lentamente in modo da poterle dare delle risposte a quel che sembrano domande.

“Ho dovuto annullare i concerti in Spagna” ripete lei mentre ci dirigiamo verso l’uscita con tutti gli ospiti ci passano accanto sfrecciando verso la sala da pranzo, spaventati forse dall’idea di non fare in tempo a mettere nella loro pancia uno di quei cornetti ricoperti da un’invitante polvere bianca che ho adocchiato prima su un vassoio di un cameriere.

“Caspita, la colazione!” mi lascio sfuggire con un tono quasi angosciato, portandomi la mano alla fronte.
“Io invece ho fatto in tempo” pronuncia la mia amica, quasi a vantarsene “Quel waffel ricoperto di yogurt e con le fragoline sopra era semplicemente una…”
“E dai, smettila!” dico io, tirandole uno schiaffo innocuo.
A pochi passi dalla porta principale ci troviamo davanti ad uno Scott visibilmente seccato, con un’espressione che non promette niente di buono.
Neanche un waffel allo yogurt.
 
 
***
 
 
“Grazie mille! Ti adoro!” dice la persona davanti a me, le cui lacrime le imperlano il viso che esplode di un’imponente felicità.

E’ quel che riesco a leggere sul dolce viso di una ragazzina, poco più piccola di me, che stringe al petto una mia foto incollata su un cartoncino verde decorato con svariati cuori. Mi alzo sorridendole e la abbraccio nonostante il tavolo che ci divide, e mentre le sue mani avvolgono la mia vita e il suo mento si trova sulla mia spalla, la ringrazio. Lei comincia a singhiozzare più forte, poi è costretta ad andarsene come imposto dall’autoritario avviso della security.

Mi lascio cadere sulla sedia e firmo con il pennarello nero un altro book, una rivista e un cartellone; mi alzo altre tre volte per stringere dei ragazzini in lacrime e poi, con la testa in fiamme per tutte quelle urla ma l’anima spumeggiante di allegria, posso definire la signing conclusa e il mio umore decisamente a posto.
Dopo due ore di strepitii, urla e singhiozzi la visione della fila vuota, segnata da una barriera composta da delle corde verdi alternate a paletti, mi sembra quasi surreale.

Sto ancora contemplando dalla mia scomoda sedia di plastica il locale pieno di silenzio, quando un’emozionatissima Alexis seduta accanto a me continua il discorso che stavamo facendo all’hotel.
“Ho dovuto annullarli perché mi è stato riferito di alcuni problemi del palco, e si è scoperto che anche l’acustica era tipo…” si interrompe di colpo, voltandosi verso destra.

Contorce la bocca trattenendo un impulso di disprezzo, e gli occhi le si fanno d’un tratto più duri verso il punto in cui sta guardando. Prima che mi volti anch’io per capire a chi è rivolta quell’espressione tanto disgustata, ma allo stesso tempo così contenuta, noto che mette anche la schiena più dritta.
La mia testa si gira istantaneamente, e senza neanche accorgermene sto squadrando Scott, cercando di coprire il mio viso con la maschera più normale possibile.

Senza le lenti scure a coprirgli le iridi marroni posso finalmente rivolgere la mia attenzione a quel che è, a quel che pensa, a quel che sente.
Non ci guardiamo – guardare per davvero, non con una copertura su quei misteriosi specchi animati - da quel pomeriggio in cui combattei per tornare a casa mia contro quell’uomo, imponendo a lui di farmi prendere quel dannato aereo e a me stessa di restare calma.

Stavolta però, negli occhi, al posto della perenne seccatura che ci viveva dentro, di cui guardandola si era quasi capaci di farsene una colpa, oppure della freddezza, inanimata e piatta, c’è qualcosa di inaspettato, eppure atteso.
Faccio scattare immediatamente le gambe in piedi quando realizzo che lì dentro c’è un netto e indissolubile dolore.
Lo fisso ancora per un po’, cercando di trovare qualcosa che mi faccia sbagliare, un barlume del solito Scott rompiscatole, impassibile e taccagno, ma il dolore ha scaraventato via quel personaggio, quella persona così falsa e costruita di cui ho realizzato solo ora la vera natura.

“Cosa… cosa è successo?” mormoro impercettibilmente.

Alexis ripete le mie stesse parole, non avendo ancora colto quel che mi trovo ad affrontare io ora, traballante sui tacchi, le mani colte da un incessante
tremolio, la testa che elabora cento risposte, mille aspettative, un milione di indecisioni e un infinito di paura.

Rispondi, rispondi, rispondi.

Apre la bocca formando delle piccole rughe intorno alle labbra e abbassa lo sguardo stanco e sconfitto, prende un grande respiro che spero gli arriverà presto nei polmoni in modo da potermi rispondere e poi dice, cacciando fuori oltre alla risposta che voglio anche il dolore della sua anima, le parole che il Tempo assimila incespicando e lo Spazio diffonde urlando.

“Hanno ucciso Katherine”.
 
 
 
 
 
 
 
Eccomi!
Non ci credo, ho aggiornato. Ma come si deve fare?! Non so come scusarmi, porterei un pacco di biscotti a tutte (in stile condoglianze, va’). Beh, in effetti le condoglianze ci stanno dopo aver letto l’ultima frase, per ora abbastanza enigmatica ma dal prossimo capitolo in poi non più.
Non pubblico qualcosa da fine gennaio e siamo agli inizi di aprile, giuro che mi prenderei a schiaffi. ‘Sta dannata scuola e tutti gli altri impegni personali non sono stati abbastanza gentili da lasciarmi scrivere qualcosa.
Se volete seguirmi, su Twitter ho cambiato nome e sono @londonismyway.
Prometto di recuperare, e se mi vedrete scomparire di nuovo, non vi preoccupate che in estate vi pubblicherò un capitolo ogni tre giorni!
Ne approfitto anche per ringraziarvi per tutte le recensioni e i complimenti, ve l’ho già detto ma vi adoro, e mi stanno bene anche i consigli per portare avanti la storia nel modo più giusto e corretto possibile.
Ricordate che questo è solo l’inizio, mancano ancora tanti (troppi) eventi drammatici e non, nel mondo di questa piccola star siamo appena entrati e non vedo l’ora di continuare questo viaggio con voi, miei adorabili prodi.
Perciò, ho da dire solo una cosa per me, per voi, per il ritardo con cui aggiorno.
 
Avanti tutta!
 

-sheisonfire    

P.S. Vorrei ringraziare la mia adorata ma rompiscatole sorella, che mi ha consigliato le cose da correggere. Grazie Ninni, ti voglio bene!

 
  
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