Gioca, Robin.
Con gli occhi e coi silenzi, calcolando le pause, centellinando le parole.
Lo fa avvicinare, sorride complice al ghigno che gli piega la bocca, si finge accondiscendente quando le abbassa la lampo del giubbino, ma, nell’istante in cui Zoro cerca di catturarle le labbra, si scosta e lui si ritrova a mordere l’aria.
Soffia, allora, a mascelle contratte, mentre Robin socchiude le palpebre, rendendo il suo sguardo, se possibile, ancor più seducente.
Stregato, viene, però, illuso, perché lei si ritrae nuovamente, nonostante i suoi fianchi siano chiusi in un abbraccio che non sembra dispiacerle, e gli offre una perfetta visuale del proprio mento, su cui Zoro lascia comunque un solco di denti.
È stanco, impaziente, confuso. È ciò che lei vuole che sia.
Con decisione la costringe a sedersi sul divano, bloccandole i polsi e obbligandola a reclinare la testa.
La guarda.
I suoi occhi brillano di una luce intensa, sinistra, soddisfatta. E il sospetto di essere stato abilmente raggirato gli accarezza la mente, ma non la invade del tutto. In fondo, pensa, Robin è lì, sotto di lui, alla sua mercé.
“Basta giocare…” l’ammonisce, liberando un respiro pesante che non arriva nemmeno a scalfirle il viso perché in un attimo le posizioni s’invertono.
Ora è lei a stringersi, cavalcioni, contro il suo bacino, a fissarlo graffiante, a impartire le regole.
Si china, gli sfiora le labbra con le proprie senza impossessarsene e ghigna, avvertendo il corpo di Zoro offrirle accondiscendenza prima ancora di parlare. “Abbiamo appena cominciato, spadaccino…”.
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