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Autore: Midnight the mad    03/04/2014    1 recensioni
"Insomnia" perché sì. Perché è roba scritta in notti insonni e momenti del cazzo.
Canzoni perché sì. Perché sono più reali della vita.
Parole perché sì. Perché è l'unico modo di gridare.
Cose diverse tra loro, che vengono un po' quando vogliono. Se volete leggere, leggete.
1. Redundant
2. Basket Case
3. She's a Rebel
4. Uptight
5. Die young
6. Pompeii
7. St. Jimmy
8. Gli anni
9. X-Kid
10. Show must go on
11. Cry to heaven
12. '74-'75
13. Knockin' on heaven's door
14. The forgotten
Genere: Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia è un po' diversa dalle altre, come vedrete. è stata scritta prima, molto prima, qualche anno fa, in realtà. L'ho ritrovata in un vecchio diario e ho voluto pubblicarla.
Me lo ricordo ancora alla perfezione, di quando l'ho scritta. Era piena notte, e io ero a letto con una lampada accesa che illuminava la pagina e gli 883 a mille nelle orecchie. Ha significato molto per me scriverla, spero che significhi altrettanto per voi leggerla.

GLI ANNI
 
Le ultime note di Non sono una signora di Loredana Berté si spensero insieme alla sua voce, dando vita all’applauso della folla.
Sorrise a quella miriade di volti, sentendosi ancora di più una ladra. Di canzoni, di cuori, di vite. Questo era sempre stata, ed era in questo modo che voleva essere ricordata. Per quella capacità di fare sue le parole, persino le emozioni, e di dare loro nuova vita e significato. Dopotutto, non era questo che voleva dire fare musica?
Con un lieve inchino, voltò le spalle alla folla e sparì dietro le quinte. Mentre scendeva le scale di legno, vide l’espressione esultante del suo staff, e sentì la paura distruggere la sua volontà ferrea. Loro credevano in lei.
Anzi, no, non era vero. Credevano nel suo talento, nella sua capacità, nel suo successo.
E questo non le bastava, non più.
Si diresse decisa verso il camerino. Un veloce cambio d’abito, di volto. E di destino. Troppo veloce perché qualcuno potesse sospettare qualcosa.
Troppo veloce perché qualcuno potesse fermarla.
Si chiuse la porta alle spalle e inspirò l’aria profumata di vaniglia e cipria. Avanzò lentamente verso la toeletta, e aprì la trousse.
L’ago penetrò la pelle senza esitazioni, senza rammarico. Spinse lo stantuffo e il liquido le entrò in vena. Bruciava, sembrava fuoco.
Gettò la siringa sul pavimento e uscì a passo svelto. Non voleva perdere un secondo. Perché, lo sapeva, se l’avesse fatto sarebbe tornata indietro.
Raggiunse il centro del palco e salutò la folla con un cenno della mano. Era il momento di entrare in scena per davvero. E per l’ultima volta.
Il silenzio calò, carico di attesa. Avvicinò il microfono alle labbra e iniziò a cantare.
 
Stessa storia, stesso posto, stesso bar,
stessa gente che vien dentro, consuma, poi va...
Non lo so
che faccio qui...
Esco un po’
e vedo i fari delle auto che mi
guardano e sembrano chiedermi
chi cerchiamo noi...
 
Quelle parole le aveva appena sussurrate, la gola stretta nella morsa del fuoco, ma il ritornello lo gridò con tutto il fiato che aveva, fissando negli occhi gli spettatori uno per uno, fissando lui.
 
Gli anni d’oro del grande Real,
gli anni di Happy Days e di Ralph Malph,
gli anni delle immense compagnie,
gli anni in motorino sempre in due,
gli anni di che belli erano i film,
gli anni dei Roy Rogers come jeans,
gli anni di qualsiasi cosa fai,
gli anni del tranquillo “siam qui noi”,
siamo qui noi...
 
Prese un respiro, mentre lo stacco musicale si esauriva. Fino a quel momento aveva camminato per il palco, ma adesso fu costretta a fermarsi.
La seconda strofa partì sottovoce come la prima.
 
Stessa storia, stesso posto, stesso bar...
 
Il fuoco le percorse le braccia, violento. La mano destra tremò, rischiò di far cadere il microfono.
 
Una coppia che conosco, c’avran la mia età...
 
Forse poteva ancora salvarsi, pensò. Forse, se avesse chiamato subito aiuto, avrebbe potuto farcela...
Una stoccata di dolore troncò quella speranza sul nascere. No, era troppo tardi, ormai, lo era da quando si era infilata quell’ago nella vena.
Lo era da quando gli aveva detto addio.
Strinse la mano attorno al microfono come a un’ancora, e continuò.
 
“Come va?”
salutano...
Così io
vedo le fedi alle dita dei due...
Che porco Giuda, potrei essere io
qualche anno fa...
 
Già. Ci sarebbe potuta essere lei, lì, al posto di quella sconosciuta. A tenerlo per mano, a sorridergli, ad amarlo.
E invece non era andata così. La vita si era presa anche quell’unico barlume di felicità, lasciandola sola nel vuoto.
O forse no. Forse era stata lei a non volerlo, a mandarlo via. Perché sapeva di non meritarselo.
 
Gli anni d’oro del grande Real,
gli anni di Happy Days e di Ralph Malph,
gli anni delle immense compagnie,
gli anni in motorino sempre in due,
gli anni di che belli erano i film,
gli anni dei Roy Rogers come jeans,
gli anni di qualsiasi cosa fai,
gli anni del tranquillo “siam qui noi”,
siamo qui noi...
 
Le lacrime che le rigarono le guance non la sorpresero, e tuttavia non le asciugò. Non ne aveva la forza, e forse non voleva neppure farlo. No, era stata forte per una vita intera, ora basta. Quella debolezza era sua, adesso, era l’unica cosa che fosse capace di farle fissare quella platea senza vederla, mostrandole solo lui.
Mostrandole l’unico vero motivo per cui doveva andarsene.
La terza strofa la dedicò a se stessa. Perché pensava di meritarsela, dopotutto, perché forse, in tutto quel male, una crepa era riuscita a farla.
Sorrise tra sé, e intonò quelle parole.
 
Stessa storia, stesso posto, stesso bar,
stan quasi chiudendo, poi me ne andrò a casa mia...
Solo lei
davanti a me...
Cosa vuoi?
Il tempo passa per tutti, lo sai;
nessuno indietro lo riporterà,
neppure noi...
 
Già, casa sua. Ormai erano anni che non aveva più una casa in cui tornare. Oppure sì? Il buio la attirava con un richiamo irresistibile, ma lei non poteva seguirlo. Aveva un’ultima cosa da fare.
Le ginocchia le cedettero mentre per l’ultima volta urlava il ritornello. Mentre la musica le esplodeva nelle orecchie. Mentre, per l’ultima volta, lo guardava con occhi di fuoco.
 
Gli anni d’oro del grande Real...
 
La sua voce sembrò sparire per poi tornare, forte e roca, a incendiarle l’aria nei polmoni.
 
Gli anni di Happy Days e di Ralph Malph...
 
Chiuse gli occhi, e per un secondo il mondo sembrò scomparire. Li riaprì di scatto. No, non poteva cedere. Doveva farla finita, lì e ora, e poi basta. Per sempre.
 
Gli anni delle immense compagnie...
 
Risentì nel cuore le grida della folla, e sollevò la testa, quasi trionfante. A suo modo, quella era una vittoria. Una vittoria semplicemente sua.
 
Gli anni in motorino, sempre in due...
 
Mani immaginarie la sfiorarono, labbra inesistenti baciarono le sue. Le scacciò con un gesto deciso del capo.
 
Gli anni di che belli erano i film...
 
Crollò di nuovo, la testa contro il petto, le mani appoggiate al legno gelido del palco.
 
Gli anni dei Roy Rogers come jeans...
 
La sua voce, pur senza microfono, risuonò potente nella sala, sfiorando i cuori, stringendo le anime.
Per l’ultima volta.
 
Gli anni di qualsiasi cosa fai...
 
Non riusciva più a muoversi, neanche a sollevare la testa. Ma non aveva importanza. Sapeva già cosa avrebbe visto, se l’avesse fatto.
 
Gli anni del tranquillo “siam qui noi”...
 
La coltre nera le scivolò addosso come un abbraccio. E lei si lasciò andare, mentre l’eco delle sue ultime parole si spargeva nel buio.
 
Siamo qui noi...

 
  
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