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Autore: Emerlith    04/04/2014    3 recensioni
-Andromeda, non vorrei sembrarti scortese. Ma ora… qualsiasi cosa tu voglia dirmi, puoi farlo, ma non adesso. Adesso devo … -
-Devi correre da Bellatrix, come sempre. Non è così?-
Non c'erano tracce di provocazione nel tono che assunse, né vi trapelava alcuna minaccia. Semplicemente c'era una muta rassegnazione, talmente intensa da inchiodare Rodolphus su quell'altalena malconcia, con un tuffo sordo al cuore.
-Meda, ma…-
Andromeda spostò lo sguardo sul fiore scarlatto nell'occhiello. Delicatamente ne sfiorò i petali sottili con la punta delle dita curate.
-Dovresti andare allora, Rod. Sta facendo buio. Non so se i lampioni funzionano qui, sai…-
-Perché… perché non me l’hai mai detto?- Replicò Rodolphus, prendendole il viso.
Andromeda sorrise continuando ad accarezzare il fiore.
-Perché è un qualcosa di antico, Rod. Appartiene al passato. E tu… tu non hai mai voluto vederlo.-
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lucius Malfoy, Rabastan Lestrange, Rodolphus Lestrange, Sorelle Black | Coppie: Rodolphus/Bellatrix
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Come se si potesse dar l’addio all’eterno
 
 
-Padroncina, siete davvero sicura di quello che fate?-
Andromeda s’inginocchiò all’altezza del piccolo elfo domestico, accarezzandogli dolcemente le orecchie a forma di pipistrello.
-Peewie, mi perdonerai mai, per quello che ti ho costretto a fare ieri sera? Mi perdonerai, se ti ho fatto bere quell’orribile pozione?-
L’elfo annuì, piangendo e gemendo.
-Peewie non deve perdonare nulla, padroncina. Peewie è stato felice di aiutarla, signorina Black. Ma ora Peewie si chiede se è giusto…-
Andromeda lo interruppe, posando delicatamente l’indice fra le sue labbra.
-Ormai ho deciso, Peewie. E tu lo sapevi da tempo. E sei stato un ottimo amico, Peewie. Ti ringrazio, per aver mantenuto il mio segreto così a lungo. Ma non posso più rimandare. Non piangere, Peewie. Non voglio che tu pianga.-
L’elfo si guardò i piedi, incapace di sollevare di nuovo lo sguardo.
-Peewie manterrà il segreto, padroncina.-
-Lo so, Peewie. Ma lo farai perché sei un mio amico, non perché sei un mio schiavo. E io non sono così innocente come credi, Peewie. Ora torna a casa. E’ sorto il sole.-
 
 
Andromeda chiuse gli occhi, ascoltò quei passetti incerti sulle foglie secche, uno ad uno. Li contò, immobile, solo il vento ad accarezzare il suo viso e ad asciugare le sue lacrime che non avrebbero mai trovato un rifugio. Poi, quando non udì più nulla se non il cinguettio degli uccelli, riaprì gli occhi. Intravide, per l’ultima volta, l’austera facciata del maniero dov’era cresciuta. L’impulso di cercare e ritrovare per l’ultima volta la finestra della sua stanza, fu talmente violento da mozzarle il respiro, e farla cadere in ginocchio, nell’erba. Affondò le unghie nella terra umida, la smosse e poi prese a scavare, in preda al terrore, in preda ad una cieca furia. Quando vide il sangue stillare dalle sue dita, solo allora, riuscì a fermarsi.
Richiuse gli occhi, si costrinse a rimettersi in piedi. Passò le mani sporche di sangue e fango sul viso, lasciando strie nere sulle sue guance chiare. Segni che, sapeva, non sarebbero mai stati cancellati neppure se di lacrime ne avesse versate un torrente. Andromeda Black non aveva più lacrime. Andromeda Black non aveva più nemmeno un cognome. E così, senza lacrime e senza più una storia da poter raccontare, con il cuore in frantumi, con le mani vuote, girò su se stessa ad occhi chiusi. Ispirò per l’ultima volta l’odore del bosco, se ne riempì i polmoni fin quando le sembrò che si stessero lacerando. E poi, nel silenzio assoluto di un quieto mattino di Settembre, sparì per sempre.  
***
 
Rodolphus dormiva ancora, quando fu svegliato da un altro incubo. Riaprì gli occhi di scatto, e si mise una mano sul petto, per sentire i battiti cardiaci pericolosamente accelerati. Respirando profondamente, rotolò sulla schiena e rimase a fissare il soffitto per la seconda volta nell’arco della stessa mattina. Cercò di afferrare il ricordo del sogno appena fatto, ma gli venne in mente solo il barlume confuso di quello di qualche ora prima, quando Andromeda l’aveva svegliato. Perplesso, riaprì gli occhi e si mise a sedere a fatica, accorgendosi d’avere un gran mal di testa. Perché mai Andromeda era entrata nella stanza? Si massaggiò le tempie, mugugnando confuso. Gli aveva chiesto di aver cura di Bellatrix. Aveva detto di non voler aspettare la colazione. Aveva pianto. Improvvisamente, fu colto da una spiacevole sensazione d’inquietudine. Perché mai Andromeda aveva sentito la necessità di svegliarlo così, all’alba? Qualcosa non quadrava. Si passò una mano fra i capelli, poi fece per alzarsi dal letto, e si rese conto d’avere ancora Bellatrix accanto a sé. Si voltò di scatto a guardarla, come se si aspettasse di trovarla già sveglia. Ma stranamente, Bellatrix dormiva ancora. Sembrava caduta in un sonno profondo, un sonno perpetuo. Alla sola idea, Rodolphus rabbrividì. Prima di potersi frenare, le stava accarezzando il viso. Aveva le labbra dischiuse, i capelli meravigliosamente in disordine. Al suo tocco, le palpebre di Bellatrix s’incresparono leggermente, e una sottile ruga le si delineò sulla fronte. Ma Rodolphus non riuscì proprio a desistere. Dimenticò invece perché stava per alzarsi di corsa dal letto, e si distese poggiandosi sull’avambraccio sinistro, mentre con la mano destra continuava ad accarezzarle il viso. Dopo qualche secondo, Bellatrix scosse la testa e si scostò. Rodolphus sorrise, senza nemmeno rendersene conto. Passò le dita sul mento, scese a sfiorarle il collo, la spalla nuda. Irretito, poggiò di nuovo la testa sul guanciale, e poi avvicinò il viso al suo.
-C’era una volta un principe.- Mormorò.
Bellatrix mugugnò infastidita.
-C’era una volta un principe, il principe delle nevi.- Continuò, sorridendo alle smorfie di Bellatrix.
-Un principe molto bello, e molto solo. Un giorno come tanti, mentre vagava per i boschi senza meta, incontrò una fanciulla, la più bella che avesse mai visto, con gli occhi neri come l’Onice, e bastò un solo sguardo per farlo innamorare perdutamente.-
Bellatrix non mosse un muscolo.
Rodolphus intrecciò le dita ai suoi capelli.
-Subito il principe la chiese in sposa, ma lei rispose che non poteva seguirlo nel suo castello di ghiaccio, perché lei era la principessa della primavera, e vivendo in un posto così freddo, dove non vi erano fiori, sarebbe morta di dispiacere. Allora il principe dovette desistere e far ritorno al suo castello, dove però non riuscì più a darsi pace, tanto era straziato dal pensiero di non rivedere più la sua amata. E prese a camminare avanti e indietro, dapprima nel castello, poi in tutto il regno, cercando di lei, sull’orlo della pazzia. Fino a quando, vagando nella brughiera, a testa china per schivare la tempesta di neve, riuscì a trovare un rifugio, e si accorse che le suole delle proprie scarpe si erano ormai consumate, e dai piedi stillava sangue, d’un rosso vivo. Ormai sconfitto e in preda all’angoscia, si addormentò, piangendo.
 La principessa della primavera, dalla sua radura fiorita, udì quel pianto straziante, e decise comunque di esporsi alle intemperie pur di ritrovare quell’uomo di cui sognava tutte le notti.
E nel cercarlo, scorse dei piccoli fiori scarlatti che sbocciavano dal manto di neve bianca. Si accorse sorpresa che delineavano un sentiero, e non esitò a seguirlo. Finalmente arrivò nella grotta dove si era rintanato il povero principe, e scoprì allora che quei piccoli fiori nascevano quando una goccia di sangue toccava terra. S’inginocchiò davanti a quell’incantesimo, e baciò il principe dichiarandogli il suo amore per lui. La neve si sciolse e  cespugli di fiori sbocciarono lungo tutto il sentiero che conduceva al castello. Così la principessa della primavera poté sposare il principe, perché il castello di ghiaccio rimase sempre fiorito.-
Bellatrix si girò verso di lui, aprì gli occhi.
-L' hai inventata adesso?-
Rodolphus sorrise.
-Allora mi hai ascoltato.-
-E’ un po’ difficile non sentirti, se ti metti come un tarlo nel mio orecchio, non trovi?-
-Stavo sussurrando.-
Bellatrix alzò gli occhi al cielo.
-E dunque? Cos’era, il delirio di un pazzo sull’orlo del tracollo emotivo? Vuoi metterti a fare lo scrittore? Avresti fortuna, sai.-
Rodolphus sospirò rassegnato, ridacchiò e rimase a fissare il soffitto.
-E’ solo una fiaba. Me la raccontava mia madre.-
Bellatrix si voltò a guardarlo. Non sorrideva più, negli occhi una strana ombra di malinconia.
-Cosa c’è?-
-Mia madre non mi ha mai raccontato niente del genere.-
Rodolphus frenò l’impulso di tirarla violentemente a sé, di stringerla. Bellatrix richiuse gli occhi e si girò sulla schiena nuda.
-Scusami se…-
-Smettila di chiedere sempre scusa, Rodolphus.- Lo zittì.
-E adesso muoviamoci, è tardi. E quella donna orribile sta già sbraitando. Non la senti?-
Rodolphus si mise a sedere. Tese le orecchie. In effetti, si udiva un gran baccano dal piano di sotto.
Bellatrix si rigirò freneticamente fra le lenzuola attorcigliate, come se dovesse calmarsi.
Rodolphus continuò a fissarla di sottecchi.
All’ennesimo scatto convulso, esasperato le prese il polso e la voltò nuovamente verso di sé.
-Si può sapere dove sbaglio, con te? Dimmelo, per cortesia. Metti fine al mio tormento. Dove ho sbagliato? Questa notte ti avevo detto che…-
Bellatrix si divincolò e gli assestò una sberla ben piazzata.
E proprio in quel momento, Rabastan aprì di scatto la porta della camera.
I due rimasero seduti, immobili fra le lenzuola sgualcite.
Rabastan si schiarì la gola e paonazzo si voltò contro il muro, mentre suo fratello iniziava ad urlare.
-Possibile che non si riesca ad avere un minino di privacy in una casa grande come questa? Dì un po’, ma che ti dice il cervello?-
-Mi dispiace, Rodolphus.- Lo interruppe. -Ma dovresti scendere di sotto. E’ urgente.-
Rodolphus guardò Bellatrix, Bellatrix guardò Rodolphus.
E in un secondo, solo un secondo, Rodolphus sentì qualcosa che s’infrangeva, da qualche parte dentro di lui. Un rumore sordo. Lo avvertì con chiarezza, provò la stessa sensazione della sera prima, quando aveva visto la folgore stagliarsi dinanzi a lui e squarciare il cielo.
Lasciò andare Bellatrix, riacciuffò la camicia.
-Tralasciando il fatto che vorrei Cruciarti seduta stante, che cosa è successo di così grave da condurti in questa stanza senza neanche bussare?- S’intromise Bellatrix.
Rodolphus si alzò, si infilò gli stivali.
-Hai perso l’uso della parola, Rabastan?-
Rabastan si mise a cincischiare con la tenda. Rodolphus vide le mani del fratello tremare impercettibilmente.
-Non è nulla, Bella. C’è solo un piccolo contrattempo. Tu… non preoccuparti, scendi quando sei pronta.-
Rodolphus si accigliò, si avvicinò al fratello per osservarne l’espressione del viso.
-Possiamo scendere, Rab.-
Rabastan annuì, senza aggiungere altro, senza neppure un cenno, lo precedette fuori dalla camera e richiuse poi la porta alle spalle del fratello, che lo agguantò dal bavero.
-Se non mi dici cosa sta succedendo io…-
Poi lo sentì. Un pianto convulso, disperato. Urla sconnesse, prive di senso.
-Ma che diamine sta succedendo qui?-
Rabastan lo trascinò lungo il lungo corridoio, ancora buio. Rodolphus notò che le tende non erano state tirate, i fiori non erano stati sistemati nei vasi. In altre parole, gli elfi domestici non erano in giro a sbrigare le loro incombenze.
-Rabastan. Se non parli io…-
Rabastan lo spinse lungo le scale.
-Si tratta di Andromeda.- Sussurrò, incrociando il suo sguardo.
Rodolphus incespicò sui gradini. Trasalì ad un altro grido.
-E’ Druella.- Aggiunse suo fratello, greve. -Rod, ecco…-
-Se non ti sbrighi a parlare, Rabastan, giuro che…-
Rabastan si asciugò il sudore freddo sulla fronte, ripose il fazzoletto in tasca.
-Cos’è successo?- Urlò Rodolphus.
-E’ Andromeda, Rod… lei è… ecco, lei è …-
-E’ che cosa, Rabastan?-
-E’ scappata!- Sputò fuori Rabastan.
Rodolphus sbiancò. Rimise a fuoco il fratello, che  aveva ripreso il proprio fazzoletto.
-Ma che stai dicendo, sei impazzito?- Si passò le mani fra i capelli, distese il collo, prese un respiro.
-Chi l’ha detto? Che razza di …-
Rabastan scosse la testa e riprese a correre lungo la scalinata.
Rodolphus gli caracollò dietro.
-Rab, aspetta!-
-E’ così, ora vedrai!-
-Ma è impossibile, Rabastan, l’ho vista poche ore fa, è entrata in camera proprio prima che …-
Rabastan si voltò di scatto, Rodolphus gli andò a sbattere contro.
-Come?-
Rodolphus annuì.
-Ma certo, ti dico che l’ho vista, era…-
Poi si bloccò.
Come aveva fatto a non rendersene conto? Come aveva potuto essere così stupido?
Rabastan lo incitò.
-Allora? Cosa, cos’era?-
-Era… era vestita.- Mormorò, accasciandosi alla parete.
-Era vestita, aveva… aveva indosso un vecchio mantello, e un bel vestito da giorno, e ha salutato Bellatrix, lei, lei mi ha detto di … di stare attento, di…-
-Ma come hai fatto a non accorgerti di niente?- Urlò di rimando il fratello, mentre Narcissa correva loro incontro, ancora in camicia da notte.
-Rod, oh, Rod!- Gli gettò le braccia al collo, Rabastan distolse lo sguardo.
-Sta’ calma, Narcissa.- Delicatamente la spinse a sedere su una poltrona, tenendole saldamente la mani.
-Sta’ calma. Spiegatemi, cosa…-
-Come faccio a star calma!- Gridò istericamente, gettando in terra un foglio di pergamena accartocciato.
Rodolphus si chinò a raccoglierlo, ancora scosso, freneticamente lo aprì e prese a leggervi le poche righe che vi erano state scribacchiate di fretta.
 
Non perdonerete mai, quindi è inutile che io vi metta sulle spalle quest’ultima incombenza.
Sappiate solo che se sono arrivata a far questo, è perché non ho trovato nessun’altra via d’uscita.
Mi dispiace, arrecarvi tanto dolore, e mi dispiace ancor di più farlo in un giorno come questo.
Mi dispiace  essermi resa conto di non essere stata amata abbastanza.
E di dirvi che forse anch’io non ho saputo amarvi abbastanza.
Andromeda.
 
Rodolphus dapprima non ebbe nessuna reazione. Nessun movimento, nessuna imprecazione, niente. Rimase semplicemente imbambolato, come un allocco.
Narcissa continuava a singhiozzare, Rabastan urlava contro gli elfi domestici, le grida isteriche di Druella Black continuavano a riecheggiare nell’atrio d’ingresso.
Rodolphus fissava il foglio.
La bella grafia ordinata e composta, proprio come era sempre stata Andromeda.
E si sorprese a pensarci al passato.
Forse fu questo, a dargli la scossa finale.
O forse furono i passi di Bellatrix.
E l’improvvisa consapevolezza di non aver nulla di sensato da dire.
Rabastan gli prese il polso, biascicò qualcosa che lui non capì.
Bellatrix gli si parò davanti.
Ancora in vestaglia e scalza.
Non chiese nulla, non parlò neppure.
Sembrava avesse già capito tutto.
E in caso avesse avuto ancora dei dubbi, Druella Black, con tutta la corte di parenti al seguito, fece la sua entrata drammatica.
Con ancora i fazzoletti di raso premuti con forza sugli zigomi pronunciati, riuscì a fulminarli tutti con una sola occhiata truce.
Rodolphus indietreggiò di un passo, istintivamente.
Ma Bellatrix rimase a guardarla, se possibile con un disprezzo maggiore.
-Voi…- Balbettò la donna, puntando la bacchetta contro il gruppetto, avanzando verso di loro.
-Voi, voi due, che diavolo significa questo?!- Urlò, strappando di mano a Rodolphus la lettera.
-Signora Black, io non so di cosa stiate parlando…-
-Druella, dovete calmarvi.- Le intimò Cygnus.
-Sta’ zitto, marito! Per anni, per anni ho sopportato le tue sciocchezze!-
Tutti ammutolirono, Narcissa abbassò gli occhi a terra, non osando incrociare Lucius che se n’era restato incollato allo stipite della porta a gustarsi lo spettacolo.
-Voi sapevate!-
Prima che Rodolphus potesse replicare, Druella si scagliò contro Bellatrix.
-Tu! Dov’è tua sorella, dove è Andromeda, dov’è andata? Tu lo sai! Tu, sei la rovina della mia vita! E’ colpa tua, tu l’hai sempre coperta! Avanti, Bellatrix, non osare restartene muta davanti a tua madre!-
Bellatrix squadrò la madre da capo a piedi, con profondo disprezzo.
-Non so di cosa stiate parlando, né m’interessa dar retta ai vostri melodrammi.-
Lo schiaffo violento risuonò nelle orecchie di Rodolphus, gli invase il cervello, rimbombò nella sua cassa toracica, gli annodò lo stomaco.
-Non osare, Bellatrix! Che diavolo ci fai in queste condizioni, scalza e in vestaglia da notte! Sei indecente, sei… -
Rodolphus vide la donna afferrare i capelli della figlia e strattonarla con forza.
Senza sapere come, si ritrovò fra le due, disarmò chiunque provasse a frenarlo, afferrò gli esili polsi di Druella, la scosse con violenza.
Bellatrix finì in terra, in ginocchio, Rodolphus la spinse all’indietro con un colpo di bacchetta.
-Rod, no!-
-Voi!- Sputò fra i denti, -Siete sempre stata voi, e non pensate che io non lo sappia, lo so da quando ero solo un bambino!-
Incrociò quegli occhi di ghiaccio, ora spalancati dallo stupore, ma comunque spietati, vitrei, vuoti.
Mostruosamente vuoti.
Avrebbe continuato.
Avrebbe voluto torturarla, vederla contorcersi in preda alla sofferenza.
Avrebbe volto vederla morta, e non sarebbe stato comunque soddisfatto.
L’avrebbe strangolata, se nessuno l’avesse fermato. Se solo non gli avessero tolto la bacchetta.
Se non l’avessero braccato contro alla parete.
Se suo fratello non gli avesse assestato un destro sul naso.
L’avrebbe uccisa, sì, con le sue stesse mani.
Quando finalmente riuscì a liberarsi, Rodolphus sputò in terra, scansò Rabastan.
La bacchetta finita chissà dove, paonazzo, corse ad afferrare Bellatrix, la sollevò dal pavimento e oltrepassò la stanza tenendole la testa contro il proprio petto.
-Non è niente.-
-Rodolphus, dove stai andando! Rod!-
-Non è niente.- Le ripeté, percorrendo il corridoio, aprendo le porte a spallate, ignorando i richiami, i piagnistei, le urla isteriche.
Risalì le scale, percorse corridoi senza neppure sapere dove stesse andando e si ritrovò davanti alla cameretta dove li aveva condotti Andromeda la sera precedente.
Vi scivolò dentro, si accasciò in terra, esausto.
Notò solo in quel momento, stringendo Bellatrix a sé, di come le sue mani fossero serrate attorno alla stoffa della sua camicia.
Baciandole la fronte, provo lentamente a districarle le dita.
-Bella?-
Le sollevò il viso, rimase in silenzio. Si limitò ad accarezzarle il dorso delle mani, a sentirne la morbidezza sottile. Lasciò vagare lo sguardo spento sui mobili colorati, sui giocattoli ordinatamente sistemati e infine sulla passaporta posata ancora sulla scrivania. Bellatrix seguì il suo sguardo, lo fissò anch’ella sulla giostrina.
Quand’era un ragazzino, Rodolphus avrebbe potuto giurare che Bellatrix non sapesse piangere.
Non l’aveva mai vista versare neppure una lacrima, fino alla notte precedente.
Mai. Qualunque caduta, litigio, malessere, sembrava non riuscisse a sortire nessun effetto su di lei. Lui restava i minuti interi, a squadrarla di sottecchi, sperando di cogliere un sottile barlume, un indizio. Ma Bellatrix gli restava inaccessibile.
Ed ora, gli appariva invece così fragile. Così diversa. Così stanca.
-Non credo potremmo restare qui a lungo.- Disse lei, interrompendo il flusso dei suoi contorti pensieri.
Rodolphus le scostò i capelli e le scoprì la spalla, seguendo con le dita il profilo della clavicola.
-Possiamo restare qui tutto il tempo che vuoi.-
Bellatrix sorrise amaramente, indicando il carillon con un cenno, senza aggiungere altro.
Lentamente, Rodolphus si rialzò da terra, trascinandola con sé.
-Ascolta, Bella. Tu resta qui. Io… vado io a cercarla. Vedrai che è solo una bravata.-
Bellatrix ridacchiò, scosse la testa e si allontanò, iniziando a girare attorno alla stanza.
Rodolphus andò alla scrivania. Non sarebbe riuscito a sopportare l’assurdità della situazione per un secondo di più, e detestava starsene a ciondolare sena poter fare nulla. Fece per prendere la piccola passaporta, ma Bellatrix gli afferrò il polso.
Aveva di nuovo gli occhi lucidi di pianto, le guance rosate.
-Non andare.- Gli sussurrò, appiccicando poi lo sguardo al tappeto.
Rodolphus sussultò, non riuscì neppure a sorridere tant’era commosso.
La sollevò di nuovo fra le braccia, la baciò con trasporto e lei si lasciò baciare.
-Ritorno subito. Te la riporto.-
Bellatrix scosse lievemente il capo.
-Io ti sposo. Ma tu portami via.-
Annuì, inebetito.
-Non dovrai mai più sopportare tutto questo. Ti lascerò finalmente libera, te lo prometto.-
Bellatrix posò la fronte sulla sua.
-Ho la tua parola?-
Rodolphus sorrise.
-Hai la mia parola d’onore. Se vuoi, posso firmare una dichiarazione.-
Altri passi concitati e cori di voci che chiamavano Andromeda li distolsero.
-E’ meglio che vada.-
Bellatrix ritoccò terra con la stessa leggerezza di una candida piuma bianca. Uscì dalla camera senza aggiungere un’altra parola. Rodolphus afferrò la passaporta.
Si ritrovò sdraiato nel prato del cimitero, una pioggia battente a sferzargli il viso.
 
Rialzandosi, ebbe la certezza d’essere sulla pista giusta. Senza riflettere, iniziò a girare confusamente attorno alle lapidi, cercando con lo sguardo perso il mausoleo in cui avevano cercato di entrare la sera prima, e da cui era poi sbucato quell’uomo incappucciato. Vi corse dentro, sprangò la porta con una spallata, senza neppure ricorrere ad un incantesimo. Rimase quasi deluso, anche se non sapeva neppure cosa sperasse di trovarvi. La cripta era vuota, nulla a tradire il passaggio di un essere umano negli ultimi cent’anni. Rodolphus la ispezionò da cima a fondo, ma neppure i nomi incisi sul marmo freddo gli diedero un qualche indizio. Con il panico crescente, ritornò fuori, e prese a correre giù lungo il sentiero che portava alla cittadina abbandonata. Iniziò a chiamare Andromeda, dapprima fra sé e sé, e poi a squarciagola. Ma nulla. Neppure il cinguettio di un uccello, un cane randagio che segnalasse la presenza di qualche forma di vita.
Era disperato. Non sapeva cosa fare, cosa cercare, dove andare. Se non l’avesse trovata, che cosa avrebbe raccontato a Bellatrix? Come avrebbe fatto a convivere con un così smisurato senso di colpa?
Sconvolto, sedette su una panchina, provando a ragionare lucidamente.
Non poteva credere che fosse vero.
Non voleva davvero crederci.
Come aveva potuto non cogliere nessun segno, nessun indizio?
Eppure c’erano stati, rifletté.
Il comportamento anomalo che Andromeda aveva mostrato nell’arco di tutta la giornata precedente, avrebbe dovuto per forza insospettirlo.
Ma l’aveva fatto, rifletté un secondo dopo.
Certo che si era insospettito, ma non aveva avuto tempo e modo per trarre una qualsiasi conclusione, perché era accaduto tutto troppo velocemente.
Si accigliò.
Lo aveva baciato, pensò un secondo dopo, passandosi le dita sul labbro inferiore.
L’aveva baciato piangendo, e lui non aveva capito niente!
Urlando per l’esasperazione, scalciò via un giornale volato fino ai suoi piedi, e improvvisamente, fissando la carta appallottolata volar via sospinta dal vento, ricordò.
Ricordò, e le immagini che la sua mente aveva represso esplosero vivide davanti ai sui occhi, con la prepotenza e la forza di un’allucinazione.
 
-Rod, Rod! E’ all’altalena, Rod!-
Andromeda, con un palloncino rosso legato al polso, spiega ancora una volta il bigliettino che ha fra le mani. Rodolphus posa la testa contro la sua, si concentra di nuovo sull’indizio, guarda quel cespuglio di fiori e si dà una manata sulla fronte.
-Hai ragione! Sono proprio dei Rododendri, sono i fiori del bouchet che ti ho regalato! Come ho fatto a non notarlo prima!-
Si guardano e scoppiano a ridere, mentre riprendono la corsa sfrenata verso le altalene in fondo al giardino, cercando di non farsi scorgere dalla squadra avversaria con Bellatrix al comando.
-E’ laggiù, non manca molto!-
Rodolphus si fionda contro il cespuglio fiorito, cerca freneticamente l’ultimo indizio che li condurrà all’agognato tesoro. Ma non riesce proprio a trovarlo. Si volta in cerca di aiuto, e vede Andromeda che invece gira attorno all’altalena.
-Vieni a darmi una mano!-
Ma la bambina scuote la testa.
-Non è fra i cespugli, sarebbe troppo facile!-
-Ma questi sono gli unici fiori che ci sono da questa parte del giardino.- Osserva Rodolphus.
Poi scuote la testa, si arrende e si inginocchia fra l’erba assieme ad Andromeda, solleva i sassi.
-Ti dico che è qua, da qualche parte. Se solo riuscissimo a trovarlo, avremmo vinto…-
-Eccolo, è lì!- Grida poi la bambina.
Rodolphus alza la testa e vede il biglietto infilato con cura tra le fessure del sellino in legno dell’altalena. Esultando, lo estrae con cautela e siede sull’altalena per leggerlo. Andromeda lo spinge in là, per sedersi accanto a lui.
 
Un due e tre,
dalla lince alla lancia,
quanti fiori ci sono in … ?-
 
Rodolphus si blocca, si gratta la fronte.
-Ma sì, è una cantilena, l’ho già sentita!- Dice poi, rivolgendosi nuovamente ad Andromeda.
-Sì? E come termina la frase?-
Rodolphus riflette, la canticchia, ma proprio non riesce a ricordarne la fine.
-In Francia, Rod! Fa rima!- Esclama poi Andromeda, scuotendolo.
Rodolphus urla a sua volta.
-Hai ragione! Come ho fatto a dimenticarmene!-
Continuano a ridere, e poi improvvisamente si fermano, mentre l’altalena continua a dondolare.
-Quando sarò grande, Andromeda, io ti sposerò.-
La bambina arrossisce, distoglie lo sguardo.
-Dici davvero?-
-Certo.- Le promette, mettendo la mano destra sul cuore  e cercando di assumere un’aria solenne.
-Prometto di sposarti, perché voglio stare sempre assieme a te.-
E poi, frettoloso, imbarazzato, le bacia velocemente le labbra.
Rimangono così, a fissarsi, con gli occhioni splendenti e sgranati dall’imbarazzo e la curiosità.
 
-Ho vinto!-
Sobbalzano, si voltano per vedere Bellatrix che sogghigna perfidamente, acquattata dietro ad un albero.
Rodolphus scatta in piedi.
-Che fai? Ci stavi spiando!-
Bellatrix ride, indicandoli.
-I due piccioncini, che stupidi! Ho ascoltato tutto quello che avete detto, e ho mandato il resto della squadra da tuo padre, Rod, che è l’unico mago francese presente alla festa, e sicuramente avrà lui il tesoro!-
Rodolphus si avventa su Bellatrix, non si riesce a trattenere.
-Non è valido! Hai barato! Abbiamo vinto noi!-
-Lasciami stare, stupido!-
Gli centra il viso con uno schiaffo.
 
Ora sì che lo ricorda, Rodolphus.
 
Si precipitò nel parco, saltò la recinzione, corse disperato, rischiando di cadere diverse volte.
Arrivò all’altalena, e proprio come nel suo ricordo appena riemerso dai menadri della sua memoria, s’inginocchiò in terra per guardare sotto al sellino malmesso dell’altalena.
Ed eccola lì.
Una lettera infilata fra le fessure di legno fradicio d’acqua.
 
Mio caro Rodolphus,
quando sarai arrivato fin qui e starai leggendo queste righe, io sarò già scomparsa nel nulla, proprio come un fantasma.
Sapevo che scriverti questa lettera sarebbe stata la parte più dolorosa e difficile, e ti prego quindi di perdonarmi. So che alla fine riuscirai a capire, Rod.
Vedi, avrei voluto parlarti a voce, di tutto questo.
Accovacciarmi sulle tue ginocchia, prenderti per mano e raccontarti realmente di me, della persona che sono diventata, della scelta sofferta che questo ha poi comportato.
Ma non potevo farlo, Rod.
Non sarei riuscita a pronunciare nemmeno mezza parola, avendoti di fronte.
E anche in questa maniera, da dove cominciare? Come fare per spiegarti tutto questo provando ad impedire che tu soffra?
Non c’è una maniera indolore, purtroppo.
E crescendo con la mia famiglia, è la prima cosa che ho imparato.
Non vi è modo per sfuggire alle sofferenze.
La mia intera vita è stata costellata di sofferenze, Rod. Un velo invisibile tra me e il mondo, un velo che sembrava solo io riuscissi a scorgere.
Sai meglio di me quanto dura e rigida sia stata la mia educazione.
Non potevo correre liberamente senza essere sgridata.
Non potevo urlare, giocare con bambini sconosciuti.
Quando ci portavano a Diagon Alley, mi sorprendevo a fissarli, assieme alle loro famiglie. Mentre mangiavano un gelato, o mentre se ne stavano semplicemente a sbirciare gli scaffali della libreria che tanto adoravo. E mi chiedevo, con sconcertante insistenza, perché mai io non potessi avvicinarli.  Perché fossero poi così diversi da me.
Poi l’ho imparato.
Ed ovviamente fu Bella a spiegarmelo, ancor prima dei miei genitori.
Mi spiegò che avevamo un Nome importante, mi spiegò in cosa fossimo diverse, mi insegnò i nomi di tutti i nostri nobili e rispettati antenati, mostrandomi l’arazzo secolare sulle pareti del salotto di nostra zia.
Per un po’, Rod, le credetti, come credetti ai miei genitori. Imparai ad essere diffidente, a scansare gli altri bambini, qualunque sconosciuto che provasse ad avere un contatto con me.
Fu allora che probabilmente, iniziai ad instaurare con Bella quel legame che ben conosci. Un legame viscerale, troppo intenso, maledettamente morboso. In una sola parola, insano.
Per tentare di difendermi, di squarciare quel velo di profonda tristezza, ho passato la mia intera vita a cercare di legarmi indissolubilmente a Bella, e ciò non ha fatto altro che incrementare la mia insicurezza, le mie paure.
Cercando di raggiungere Bella, ho perso me.
Mi sono persa in un luogo e in un tempo così remoto, Rod, che non riesco più a ricordarmene.
Ricordo solo la mia folle disperazione, il terrore che mi spingeva ad assecondare Bellatrix in qualunque circostanza, in qualsiasi modo fosse possibile.
Avrei dato qualsiasi cosa, perché Bella mi amasse, Rod.
Perché almeno qualcuno della mia famiglia, mi amasse.
Mia madre non c’era, non c’era mai.
E quando c’era, si mescolava ai dipinti incorniciati alle pareti fredde del salotto, i suoi lineamenti austeri e i suoi capelli biondi si confondevano con quelli di sconosciuti, non ricordavo mai il colore esatto delle sue iridi.
Non mi toccava mai, mi sorrideva raramente e ancor più raramente si spingeva in un qualsiasi gesto d’affetto nei miei riguardi.
A volte, sulle braccia di Bella scorgevo dei lividi, dei graffi.
Probabilmente, l’ho sempre saputo. Ma non ho mai voluto vederlo. L’ho scacciato dietro al mio velo, l’ho sepolto in profondità, in un luogo che visitavo solo nei miei incubi più terribili.
Alla tenue luce del giorno, non ricordavo mai nulla. Non chiedevo a Bellatrix perché volesse sempre giocare al buio. Non volevo pensare che detestasse Narcissa solo perché somigliava in maniera impressionante a quella che per noi in realtà non era mai stata una madre.
Quando ti ho conosciuto, il mio affetto e la mia dedizione nei confronti di Bella erano ancora paurosamente intatti. Erano intatti, finché non ho incontrato te, alla festa organizzata per il mio settimo compleanno. In discolpa di mia madre, cosa potrei mai dire? Che organizzava cene e feste sontuose, per far vedere a tutti quanto fosse perfetta la sua famiglia e quanto desiderabili le sue figlie? Era solo in quelle occasioni, che mostrava un reale interesse per noi. Ci pettinava persino i capelli, e Bellatrix lo detestava. Se ne stava ritta, con le labbra serrate nel tentativo di non urlare tutta la sua rabbia.
Io ho imparato a non urlare imitando lei.
Bella non si lamentava mai, si era costruita una corazza capace di renderla impermeabile a tutte le intemperie del mondo, e ci era riuscita con una facilità impressionante.
Quando ti prese di mira, il giorno in cui ci conoscemmo, ne fui sinceramente sorpresa. Si limitava a scansare gli altri, li provocava solo raramente. Ma con te fece l’esatto opposto. Me ne sono chiesta più volte perché, ma dopo tanti anni penso semplicemente che in realtà ti volesse tutto per lei fin dal principio.
Nel momento in cui ti ha visto porgermi quel meraviglioso bouchet di rododendri, si è ingelosita. Forse perché eri molto carino fin da quell’età e ci avevano parlato così tanto di te.
Forse perché non voleva che si prestasse attenzione a me e non a lei.
O forse perché voleva semplicemente provocarti per il puro gusto di farlo.
Ad ogni modo, riuscì benissimo nel suo intento, altrimenti non saremmo a questo punto.
Alla fine della partita, dopo averti visto baciarmi, vi picchiaste violentemente. E se ancora non lo ricordi, te lo racconto io.
Vi picchiaste a sangue, in maniera inaudita. Alla fine tu piangevi, sdraiato in terra e con le mani premute sulla faccia. I nostri genitori, accorsi dopo troppo tempo, vi avevano separati con l’uso di un incantesimo. Bellatrix aveva il vestito stracciato, l’acconciatura disfatta e le guance cocenti dai due schiaffi in più somministrategli da nostro padre. Mi fissava con astio, fu la prima volta che lessi nel fondo del suo sguardo l’odio profondo che poi vi ho intravisto così di frequente.
Ed io ero impietrita, bloccata su quell’altalena, con gli occhi lucidi, il velo di nuovo a velarli.
Non avevo fatto nulla per provare a difenderti, né avevo difeso lei.
Perché appena un secondo prima, solo un secondo, mi stavi promettendo la tua mano, con una tale fierezza e una tale sicurezza che a ripensarci oggi, riesco ancora a commuovermi.
Riesco ancora a rievocare alla mente il salto che fece il mio cuore nel momento in cui posasti delicatamente le tue labbra sulle mie.
E fu proprio in quel momento, che mi resi conto d’essere capace di amare qualcuno più di quanto amassi mia sorella.
Perché quand’è che ci si innamora, di preciso?
Io mi accorsi che avrei potuto innamorarmi davvero di te nell’esatto momento in cui Bellatrix ti mise le mani addosso.
E ti continuai ad amare, dapprima in maniera innocente come può amare una bambina, e poi in maniera devastante come si può amare solo nell’età, forse, in cui si pensa che sia ancora tutto possibile.
Anche se ti è sfuggito, io ti ho amato con tutto il cuore.
Ti ho amato in maniera distruttiva, folle, di nascosto. Dietro ad un angolo.
Ti ho amato come tu hai amato Bellatrix.
Mio padre ci considerava buona merce di scambio. L’ una o l’altra, per lui non faceva poi molta differenza.
Quando smetteste di picchiarvi, e tuo padre ti rimproverò dandoti della femminuccia, nostro padre disse che invece eri stato molto coraggioso a tenere testa a Bellatrix, dato il caratteraccio che aveva. E così, di punto in bianco, come se volessero scommettere su qualcosa, diventasti di Bellatrix. Ridevano come matti, dandovi pacche sulle spalle e spronandovi a far pace. Scuotevate entrambi la testa, lo sguardo inchiodato a terra.
“Beh, fino al matrimonio vi passerà.” Ridacchiarono.
Ed è così che è andata.
Probabilmente i nostri genitori neppure se lo ricordano.
Non lo ricorda nessuno, tranne me.
Perché io c’ero, ogni volta in cui hai sorriso a Bellatrix invece che a me.
Ogni volta in cui hai perduto un pezzo della tua anima che so non ritornerà più indietro.
C’ero ogni volta in cui vacillavi, ogni volta in cui i tuoi occhi venivano investiti da quell’ombra di insicurezza che conoscevo così bene, perché era la stessa dalla quale tentavo invano di fuggire io.
C’ero e pensavo che ci sarei stata per sempre. A vederti andar via, scivolare sempre più lontano. Probabilmente non mi saprò mai perdonare, Rod.
Perciò, ti chiedo, con mano tremante, di riuscire a perdonare entrambi.
E ti chiedo anche di non riferire mai a nessuno tutto questo che stai leggendo.
Lo sai mantenere un segreto, Rod?
Sono stata io.
Io mi sono travestita da Mangiamorte, la scorsa notte.
Ho costretto Peewie, il nostro elfo domestico, ad assumere le mie sembianze bevendo una pozione Polisucco.
Ho inscenato una commedia perché volevo vedere dove sareste stati capaci di spingervi, o forse dove sarei stata capace di spingermi io stessa.
Ho retto un cadavere fra le mani, Rod. Il cadavere di una bambina innocente, lasciato in un mausoleo dimenticato dal mondo. Uccisa dai nostri stessi genitori, dalla loro cieca stupidità.
Perché è questo che è, nulla più. Cieca presunzione, cattiveria, pura malvagità.
Non voglio più far parte e mai più essere complice di tutto questo.
Ed in questo momento, so che stai capendo ciò che voglio dire.
Non voglio dover far finta di ignorare gli omicidi che vengono e verranno commessi ancora sotto al mio naso dalle persone che mi sono così care, nonostante tutto.
Non voglio mai dover portare i miei figli in un cimitero come questo e spiegar loro cosa sia la “Caccia al Babbano”.
Non ricordi neppure questo, vero?
Siamo già stati qui. In un lontanissimo giorno indefinito.
Una gita fuori porta, una scampagnata, l’avevano definita.
In un cimitero dove si compievano rituali e sacrifici in nome della nostra presunta purezza di sangue.
Io non posso dimenticare ciò che ho visto, né starò qui a ripeterlo, perché come ho già detto, confido che capirai.
E anche nel caso in cui non dovessi comprendere, allora di sicuro comprenderai questo:

Aspetto un bambino.
Aspetto un bambino e sono follemente innamorata di un uomo che di nobile non ha nulla, se non il suo amore sconfinato nei miei riguardi.
Si chiama Ted, e va avanti da anni, ormai.
Da quando miracolosamente riuscii a toglierti dalla mia testa. Da quando lui mi urtò in corridoio e mi fece cadere i libri, e poi scappò via, rosso dalla vergogna. Ho aspettato e rimandato la mia decisione fin troppo a lungo. E questo bambino che porto in grembo è stato un dono a cui non puoi chiedermi di rinunciare.

Non puoi farlo, perché sai troppo bene come ci si sente ad amare follemente, e con tutta l’anima.
Perché tu, mio caro Rodolphus, sei capace di amare per davvero, contrariamente a quanto pensi.
E sai anche che purtroppo sei innamorato di una persona per te e per me irraggiungibile.
Credimi, io non ti biasimo per questo. Ammiro la tua forza, ammiro la tua perseveranza e sono tutt’ora innamorata della tua, seppur celata, dolcezza.
Ma non puoi chiedermi di stare a guardarti mentre vai al patibolo.
E’ proprio perché ti ho amato, che non posso essere presente e far da testimone al giorno delle tue nozze con Bellatrix. Non chiedermi di sopportare anche questo. Non chiedermi di assistere al momento in cui vedrò tutti i tuoi sogni lasciare i tuoi occhi.
Perché io so cosa vuoi, e so anche, con disarmante certezza, che non riuscirai mai ad ottenerlo.
Tu vuoi una bambina che abbia gli occhi di Bella, e non riuscirai mai a vederla, né a sentire la sua piccola mano che stringe la tua.
Ti ho mostrato il tuo destino posandolo davanti ai tuoi piedi.
Perciò non chiedermi di assistere a tutto questo.
Lasciami andare così, silenziosamente.
Lasciami andare con un sorriso, fa’ finta che io stia sempre lì, dietro ad un angolo in attesa di un tuo sguardo tanto agognato.

Tienimi con te, sempre.
Pensa che sto sorridendo, solo in un’altra stanza.
So che manterrai tutte queste promesse.
E so anche che, in fondo, non mi lascerai mai veramente.
Perciò pensa a noi due così.
Siamo ancora dei bambini, smarriti nei contorni indefiniti di un sogno.
Cerca di non dimenticarlo mai.
E cerca di non scordare che al mio bambino, in qualche modo, racconterò di noi.
Ma voglio che cresca in un mondo libero.
E nel mondo dove noi siamo cresciuti, la libertà è l’unica cosa che realmente manca.
 
Ed ha un prezzo così dannatamente alto, Rod.
Perché anche sapendo che questa scelta mi renderà davvero felice, il sentire la tua, la vostra mancanza, in qualche modo me la farà rimpiangere, questa tanto agognata libertà.
Ci vediamo a colazione, Rod.
Meda.
 
Rodolphus restò inchiodato a quelle parole per ore. Impresse nella sua mente ogni singola sillaba, i tratti di ogni singola lettera.
E se Bellatrix aveva pianto per la prima volta quella notte, quella mattina Rodolphus si accorse di versare quelle che sarebbero state le sue ultime lacrime.
Perché tutto quello che avrebbe potuto perdere nell’arco di un’intera vita, l’aveva già perso.
E non aveva neppure fatto rumore.
Quando la pioggia cessò, solo allora si convinse a rialzarsi.
Con estrema lentezza, risalì il viale deserto e si diresse in quella cabina telefonica.
Vi entrò, si accasciò contro i vetri rotti e vi cadde in ginocchio.
Non stava cercando più nulla, ma gli capitò sotto mano un tomo strappato. Lo sfogliò a casaccio. Uno strano elenco di numeri e nomi senza alcuna importanza, né memoria.
E curiosamente, si ritrovò a pensare che ora anche lui sarebbe entrato nella schiera di tutti quei nomi.
Così, affondò la mano nella tasca della sua giacca e ne tirò fuori un’altra, di lettera.
E in quella busta che Bellatrix non avrebbe mai aperto, vi mise anche le ultime righe di Andromeda.
Le strinse fra le mani ancora per un istante.
E poi le chiuse fra quelle pagine stampate e macchiate di pioggia, di tempo, di niente.
Si rialzò in piedi, calpestò il vecchio elenco telefonico e con un ultimo colpo di bacchetta lo fece sparire.
E non fece neppure rumore.
 
Addio, Bellatrix.
Inizio dalla fine, perché questo è esattamente l’inizio di una fine.
Se mai abbiamo avuto un inizio, Bella, è esattamente qui che tutto finisce.
Nel giorno del suggellamento della promessa del mio eterno amore per te, tutta la mia vita si infrange.
Perciò Addio, Mio eterno amore.
Come se poi si potesse dar l’addio all’eterno.
Addio ai tuoi sorrisi, fugaci, nascosti, unici testimoni dei tuoi segreti.
Addio ai miei sorrisi. Fragili, incerti, indissolubilmente legati ai tuoi.
Addio ai tuoi occhi neri, sempre alla disperata ricerca dei brandelli di un’anima che non hai mai riconosciuto tua.
E addio anche alla mia, di anima, che invece ti appartiene di diritto da quando si è smarrita nel tuo sguardo.
Addio a  tutte le mie speranze, Bellatrix, le speranze che da sempre avrei voluto sussurrarti all’orecchio dopo una notte con te.
Tu non ci sarai, a riempire il vuoto e l’eco le mie notti.
Perciò addio, addio alle mie notti, addio alle mie scelte, cadenzate sempre in funzione di ogni tuo passo.
Addio, Amore Mio, alla tue corse sfrenate verso i mondi che non potevo toccare.
Addio ai disegni della pioggia fra le tue ciglia, all’ addormentarsi dei tramonti nelle tue favole.
Inventavi sempre centinaia di fesserie, Bella.
Inventane un’altra, per me.
Inventa una storia che non contempli un addio.
Inventa una storia in cui io possa negarti la libertà di scegliere.
Una storia in cui io possa salvarti, salvarmi.
Inventa una storia che non inizi al calar delle tenebre, che mi faccia invece morire fra le tue braccia.
Inventa quello che non hai mai avuto, Bellatrix.
Inventa l’amore.
Inventa un amore eterno, inventa me. Il mio sorriso, i miei occhi, le mie mani che non ti sapranno ferire.
E se riesci, Bella, inventa anche questo addio.
Inventa il mio, di addio, perché questa è l’unica cosa che non so darti.
Perché io non so vivere, senza l’Eterno.
Tu sei il mio Eterno, Bella.
Eterno amore,
Eterno rimpianto,
Eterno abisso,
Eterna lotta, mai vinta,
Eterna illusione di un Addio.
 
Io ti amo, Bellatrix.
Ti amo, ti amo per ogni giorno in cui mi hai sfiorato con uno sguardo.
Ti amo per ogni giorno in cui tu non hai amato Me.
E ti amerò,
per ogni volta in cui non riuscirò a dirti Addio.
                                                                                                                         Rodolphus



 
Note: La storia che Rodolphus racconta a Bellatrix prende spunto da uno dei tanti miti riguardo al significato del fiore del Rododendro. Lessi un racconto molto simile a quello che ho poi raccontato qui quando ero piccola, in internet troverete leggende analoghe, nel caso potesse interessarvi. Volevo terminare la storia con un altro capitolo, ma non ho il tempo né, sinceramente, l'ispirazione adatta per riuscire a scrivere decentemente. Perciò lascio il finale così, sperando un domani magari di scrivere un seguito. Alla prossima :)
  
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