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Autore: Pineapple__    07/04/2014    5 recensioni
"Fino a che punto si è disposti a sacrificarsi per proteggere ciò che più si ama?"
La storia si svolge su un'isola fredda e deserta, dove il capitano Law viene esiliato dalla Marina in cambio della salvezza della sua ciurma. Ma, un giorno, mentre è impegnato a contemplare il mare in tempesta, la sua attenzione viene attratta da una cesta bruciacchiata. Il canestrino nasconde una piccola neonata, arrivata da chissadove, come per uno scherzo del destino sull'isola di Law. Il chirurgo è scettico a riguardo, ma decide di crescere come la piccola come fosse sua figlia. Comincia così una conversione per il nostro spietato capitano, il quale scoprirà quanto sia meraviglioso, e a volte pericoloso, voler bene a qualcuno.
Genere: Azione, Introspettivo, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Scappo via con il mio cuore
Scappo via con la mia speranza
Scappo via con il mio amore
Ora so abbastanza bene
Quanto la mia vita e il mio amore
Possano andare avanti
Ne tuo cuore, nella tua mente
Starò con te per tutto il tempo.
-The Calling, Wherever You Will Go-
 
 
 
 
Si perdeva, il suo sguardo, tra i perpetui flutti dell’oceano che abbandonavano la sfrigolante spuma biancastra sullo scavo della nave. I raggi del tenero Sole appena sorto si rifrangevano sull’acqua appena increspata, donandole un tenue colorito rossastro. Colpivano pure il suo viso, come una tenera e rassicurante carezza, costringendolo a strabuzzare gli occhi, infastidito. La frizzante brezza mattutina scompigliava burlona i suoi capelli corvini e si insinuava serpeggiante nei meandri del lungo cappotto nero. I suoi occhi vagano spenti e vuoti, privati di quel luccichio sarcastico che sovente illuminava le iridi ghiacchiate, seguendo i guizzanti riverberi che attraversavano la superficie melliflua.
 
Erano ormai passati tre giorni. Tre giorni nei quali il suo cuore, il suo animo stavano lentamente appassendo sotto il peso di una disperata angoscia. Nonostante gli insistenti tentativi dei Mugiwara di risollevargli il morale nemmeno la vista di quell’idiota di Rufy con due bacchette lignee infilate nelle cavità nasali riusciva a strappargli una smorfia. Il suo viso era tornato marmoreo ed impassibile. Non voleva azzardarsi a pensare a cosa la sua Yuki sarebbe stata costretta a passare tra le grinfie di quel bastardo del fenicottero. Se immaginava allo stesso trattamento che Doflamingo aveva riservato a lui fin da quando era un bambino innocente applicato su una bambina come Yuki (dalla forte personalità, certo, ma pur sempre una bambina di otto anni), il sapore acido di un rigurgito acido di bile gli impregnava le fauci.
 
Si appoggiò stancamente alla balaustra e si passò una mano istoriata di atri segni tra i capelli. Erano giorni che non chiudeva occhio, troppo impegnato a pensare a un piano per salvare la sua bambina. Continuava a domandarsi perché, mentre quella scena si ripeteva a nastro nella sua mente. Vedeva quei verdi prati sconfinati e le labbra livide che sussurravano quelle due parole. Quelle due maledette parole esternate con un’immane dolcezza. Lasciami andare. Le cose non sarebbero dovute andare così. Era lui che doveva proteggerla, non il contrario.
 
“Law-sama?” lo chiamò una titubante vocina dal basso.
 
“Non scocciare, Touya, non è il momento.” sputò il corsaro fissando il piccoletto con la coda dell’occhio.
 
Ora vi starete chiedendo sia questo Touya, dico bene? In effetti nemmeno Law riusciva a crederci, ma non appena si ritrovò davanti un bambino della stessa età di Yuki, dai corti capelli color carota e da due vispi occhietti d’ossidiana, dovette ricredersi. Persino la sua mente geniale non riuscì subito a comprendere la situazione ma, dopo un’accurata spiegazione da parte del cuoco, tutto gli fu più chiaro e non riuscì a trattenere un sorriso intenerito. Quella zucca vuota di Monkey D. Rufy era inaspettatamente riuscito a far cadere ai suoi piedi nientemeno che la bella e formosa navigatrice e, dal loro matrimonio, era nato uno sveglio e attento frugoletto. Fortuna per lui che non abbia ereditato il cervello del padre, pensò il Chirurgo sorpreso e a tratti toccato. Era incredibile come anche un cretino come Mugiwara-ya avesse trovato l’amore avesse messo su famiglia.
 
“Papà ha detto che non le fa bene stare qui a rimuginare, per di più a stomaco vuoto! Su, venga che zio Sanji ha già preparato la colazione!” trillò strattonandolo debolmente per un lembo del cappoto.
 
“Ti ho detto di lasciarmi stare! Non ho intenzione di farmi trascinare in quel refettorio dove tutti sono allegri e spensierati!” esclamò con i tendini del collo estremamente protesi.
 
Il piccolo indietreggiò impaurito, nascondendosi dietro una delle seducenti gambe della madre, di cui solo in quel momento aveva notato la presenza. La donna sbuffò, accarezzando materna le scompigliate ciocche carota del figlio. Il suo viso si aprì in un vago e dolce sorriso, alla vista del quale il bambino si rasserenò di colpo. Il corsaro sbarrò gli occhi, riuscendo chiaramente a rivedere se stesso riflesso in Nami, mentre con quella sua callosa mano ancora impregnata del sangue di numerose vite, vezzeggiava gli ondulati capelli della figlia.
 
“Su, Touya, vai in mensa che gli altri ti aspettano. Io cerco di far ragionare questo testone.” affermò spinge dolo delicatamente verso le scale.
 
“Va bene, mamma, ma per favore, non essere troppo dura con Law-san.” Fece una piccola pausa, voltandosi verso il soggetto in questione. “E’ solo molto triste.”
 
Un sorriso a trentadue denti si fece strada sul paffuto viso del bimbo, per poi fiondarsi verso la stanza indicatogli dalla madre, gracchiando che aveva una fame da lupi. Il moro voltò nuovamente lo sguardo verso lo sconfinato oceano, ridacchiando sommessamente; magari non aveva ereditato la scarsa intelligenza del padre, ma non era riuscito ad evitare di farsi trasmettere anche la sua profonda ingordigia. L’arancione si avvicinò alla balaustra e, con un agile balzo, si posizionò a sedere di fianco a lui.
 
Lasciava infantilmente le gambe a penzolare nel vuoto e i lunghi capelli color carota ondeggiavano nel freddo vento del mattino del cinque dicembre. Voltò lo sguardo e ricominciò a vagare di nuovo, con la mente. Incassò la testa tra le smagrite spalle e si conficcò gli immacolati denti nel labbro inferiore, tanto violentemente da percepire in bocca l’acre odore del sangue. Non poteva manifestare così palesemente la sua tormenta interiore ma, a quanto pare, nulla sfuggiva all’occhio indagatore della navigatrice. Lei allungò una mano e tirò impietosamente l’orecchio del Chirurgo.
 
“Mi fai male, brutta strega, lasciami!” ringhiò sommessamente il corvino.
 
“Non ti abbacchiare così tanto, ok? Rufy ti ha promesso che la riporteremo indietro e così sarà.” sbuffò esaudendo il desiderio di libertà del pirata.
 
“Non ti abbacchiare, eh? Bene, voglio rigirarti la domanda; cosa faresti se uno stronzo come Doflamingo rapisse Touya?! Diresti semplicemente Non devo abbacchiarmi, tanto lo andrò a salvare?!” sbraitò mostrando i denti come un cane rabbioso.
 
“Law, calmati, non serve a nulla arrabbiarsi così.” rispose lei dandogli una pacca sulla fronte, il che lo fece imbestialire ancora di più.
 
“Sono arrabbiato, sono arrabbiato con me stesso per averla lasciata con quel mostro!” incalzò stringendo infuriato i pugni.
 
“Hai paura che le faccia qualcosa?” domandò Nami assumendo un tono decisamente più dolce.
 
Il moro trasse un profondo respiro nel tentativo di calmarsi e appoggiò i gomiti alla balaustra, affondando le mani tra la spettinata e folta chioma. Sentiva nell’arancione un’intonazione che non aveva mai udito prima; era stranamente rassicurante, probabilmente forgiata dal suo lavoro di madre. Lui sapeva qualcosa in merito. Anche l’uomo era cambiato, non lo negava. A volte i bambini possono insegnare davvero tanto ai genitori, soprattutto se quest’ultimi non hanno avuto una vita all’insegna della gioia. E, in quel momento, vedere l’espressione di profondo dispiacere della navigatrice era di grande conforto per lui. Fissò per qualche lungo istante la sua Nodachi prima di rispondere, rimembrando quegli ultimi disperati tentativi di salvare la piccina.
 
“Sì, ho paura che faccia quello che ha fatto a me per tanti anni, fin da quando ero un moccioso.” ammise con uno sbuffo.
 
Nami piegò di poco la testa, facendo sfuggire diverse ciocche pel di carota dal controllo di quello chignon di fortuna che le teneva legati i capelli. Lui la guardò di sfuggita, domandandosi se fosse il caso di aprirsi così tanto.
 
**
 
Ripiombò di schianto sul lettino, percependo le convulsioni involontarie del suo corpo scemare al diminuire dell’intensità delle scariche elettriche che percorrevano inclementi il gracile corpo. Ansimava esausta mentre i quadrettoni del soffitto in pietra scura roteavano vorticosamente intorno alla sua testa pulsante. Misteriose figure vestite con lunghi camici bianchi e mascherina si affannavano intorno alla barella su cui era costretta tramite delle cinghie che le legavano polsi e caviglie. Quelle figure, tuttavia, erano confuse e i suoni stranamente ovattati da quel buffo casco munito di lampadine che si ritrovava in testa.
 
Sentiva il sudore impregnarle la fronte e i palmi delle mani. Sarebbe dovuto essere dicembre, ma in quella stanza faceva estremamente caldo. Una piccola lacrima spuntò tra le ciglia della castana, sfuggendo al suo ferreo controllo. Faceva male. Ogni cosa a cui l’avevano sottoposta da quando era stata internata in quella prigione era estremamente dolorosa per le sue tenere carni; elettroshock, iniezioni di sostanze strane tramite aghi esageratamente lunghi, essere immersa in acqua gelata e subito dopo in acqua bollente.
 
L’aggeggio che più però odiava era L’Aspirapolvere. Così lo chiamava, per la vaga somiglianza con l’oggetto domestico. Ma non era affatto innocuo come quest’ultimo; serviva infatti per trasmetterle, per via orale, un intruglio verdastro dal sapore disgustoso e che le provocava un forte mal di pancia. La sua mente, però, è sempre rimasta lucida e con una nitida immagine impressa al suo interno: il suo papà. Era convinta che il suo amato genitore sarebbe arrivato presto a salvarlo insieme a quella ciurma dalla nave dalla testa leonina.
 
“Doflamingo-sama, non risponde nemmeno a una scarica così potente.” annunciò sconsolato uno degli uomini dal camice bianco.
 
“Uscite tutti, incapaci, prima che vi smembri.” bofonchiò aggressivo il biondo sistemandosi gli occhiali sul naso.
 
A quelle minacciose parole tutti si accalcarono verso la porta per paura di fare una fine poco piacevole e, in infimi istanti, in quella spoglia stanza di pietra rimasero solo quelle due figure così contrastanti. Il fenicottero scostò la schiena dal muro e avanzò a passi cadenzati verso il lettino. Yuki sentiva lo scricchiolante rumore dei suoi mocassini rimbalzare sulle pareti pietrose per poi rimbombare nelle sue orecchie. Per tre lunghissimi giorni quella specie di uccello acquatico era rimasto inerme contro la parete, osservando tacito le reazioni della piccola a quei test a dir poco disumani.
 
Gli unici ghigni soddisfatti vennero fuori quando, stroncata dal dolore e dall’esasperazione, la castana si lasciava scappare gemito o un grido disperato. E lei se ne stava lì, oppressa su quel piatto materasso, attendendo che quel forte cavaliere senza macchia e senza paura dal lungo cappotto nero e dal peloso cappello maculato la salvasse dal drago cattivo. Sapeva che il suo papà non sarebbe rimasto con le mani in mano ma avrebbe fatto di tutto per poterla stringere di nuovo. E Yuki sognava. Sognava quelle braccia forti e rassicuranti e persino quegli occhi così freddi che solo poche volte aveva visto sciogliersi. Un violento schiaffo si infranse contro la sua guancia, riportandola alla realtà.
 
“Perché? Perché Koori non reagisce?!” sbraitò lui afferrandola per il colletto del camice.
 
“Visto? Nemmeno i Demoni si sottomettono a un buffone come te.” ridacchiò beffarda.
 
“Vedo che Law ti ha cresciuta a sua immagine e somiglianza. Piccola impertinente, ora riceverai lo stesso trattamento che ho riservato per lui.” sogghignò soddisfatto sfilandosi l’imponente pelliccia rosa.
 
”Quando avevo più o meno l’età di Yuki,
quel bastardo mi chiamò in infermeria per
curare un idiota che si era fatto una profonda ferita
maneggiando una spada.”
 
La bambina se lo ritrovò addosso. Riusciva ad intravedere un luccichio sadico negli occhi di Doflamingo, anche se coperti da delle nuove lenti di colore scarlatto. Sentiva il suo fiato pesante gravare sul collo. Quella situazione non le piaceva affatto ed era consapevole che sarebbe finita in uno dei peggiori dei modi. Cominciò quindi ad agitare tutto il corpo, per quanto fosse in grado di fare, nel tentativo di scrollarsi via quel colosso di dosso. Ma non sembrò funzionare, dato che percepì i denti del fenicottero affondare famelici nella diafana pelle del collo, mentre una mano scivolò grama sotto l’inconsistente veste.
 
”Andai in infermeria ma, una volta là, mi resi conto
che non c’era nessuno. Sentii poi una porta sbattere
alle mie spalle e la serratura cigolare. Mi voltai e vidi
Doflamingo che mi guardava in modo strano…
Un’espressione che non gli avevo mai visto prima…”
 
La bambina gridò disperata. In preda alle lacrime cercava di spingere la testa dell’uomo mentre invocava spiantata l’aiuto di qualcuno. Ma fu tutto inutile; ora nulla poteva distogliere l’attenzione del cacciatore dalla sua preda inerme. Il leggero vestitino le fu strappato brutalmente di dosso, lasciandola discinta davanti a quell’omone che la guardava con lo stesso sguardo con cui aveva fissato il fragile corpicino del padre. Era incredibile che avessero la stessa corporatura minuta, la stessa pelle così delicata e lo stesso sguardo di terrore negli occhi. L’ex Shichibukai percorse con il muscolo orale l’innocente e asciutto fisico della piccina, beandosi delle sue urla sgomente.
 
”Mi saltò addosso e mi strappò di dosso i vestiti.
Senza tanti indugi cominciò… ad abusare di me.
E andò avanti, sempre di più, sempre più forte,
fregandosene delle mie suppliche. Non dimenticherò
mai quel momento e i momenti uguali che si susseguirono
durante la mia permanenza nella Donquijote Family.”
 
Entrò in lei con tutta la crudeltà e la violenza di cui il biondo era capace. Yuki gridò un ultima volta, poi fu il silenzio più totale. Il solo rumore che si percepiva era il respiro affannoso del uomo, forse non più abituato a pratiche tanto barbare. Fu così che, quella notte, quella illibata piccola creatura, la cui colpa fu solamente quella di essere venuta al mondo, venne bestialmente deflorata dall’uomo che avrebbe popolato i suoi incubi d’ora in avanti. Percepiva un intenso dolore avvolgerle tutto il corpo, mentre le lacrime scorrevano come un fiume in piena. Ma timide, silenziose. E il dolore che provava non era solo fisico, ma soprattutto interiore.
 
Voltò semplicemente lo sguardo verso la porta, perdendosi nella speranza che il suo papà, il suo cavaliere, irrompesse in quel preciso istante in quella stanza illuminata solo da una fioca luce al neon e la portasse via con sé. Ovviamente non accadde e lei continuava, inerme, a subire le sevizie di quell’essere senza cuore o anima. Non aveva nemmeno la forza di reagire, di sputargli in faccia qualche insulto. Nulla. Era come un agnello indifeso davanti al suo carnefice. Spingeva, spingeva, sempre di più, sempre più forte.
 
Proprio come una notte di tanti anni fa, una pura creatura veniva incivilmente violata dallo stesso uomo. Voglia di gridare montava in lei. Gridare il suo dolore, la sua rabbia, la sua angoscia. Ma non poteva. Non si azzardava ad emettere un singolo suono, per paura che potesse peggiorare l’orribile situazione in cui si trovava. Copioso sangue proveniente da lei iniziò a gocciolare dal lettino e a impregnare di un orribile rosso diluito l’imbottitura del materasso. Scosse la testa e gonfiò i polmoni d’aria. Pronta, decisa ad urlare la sua immonda sofferenza.
 
“PAPA’ FAI PRESTO!”
 
E, finalmente, il buio l’accolse nella sua tetra e al contempo gratificante morsa. Svenne. 
  
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