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Autore: PerseoeAndromeda    10/07/2008    2 recensioni
Questa storia cominciai a pubblicarla tempo fa con un altro account. La ripubblico nella sua versione riveduta e corretta. La storia di due fratelli, il loro perdersi e ritrovarsi, il più prezioso dei legami.
Genere: Malinconico, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Andromeda Shun, Phoenix Ikki
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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 2

Yours ever

*Scintillio di stelle su lettere d’argento*

 

 

**************************************************

“Comincia, bambino, a conoscere la madre al suo sorriso…”

 

-Virgilio; Bucoliche, Egloga IV-

**************************************************

 

 

 

 

Dopo la nascita di mio fratello, restammo  in quel piccolo appartamento alla periferia di Tokyo.

Avevano preso l’abitudine di parlare a me e a Shun in giapponese, probabilmente prevedendo una lunga permanenza in quelle terre così care a papà.

Io, con la curiosità tipica dei bambini, soprattutto di quelli molto precoci, cominciai a guardarmi intorno e mi vedevo circondato da persone brune, con gli occhi a mandorla… in un certo senso sembravano tutti uguali e tutti simili a papà. Non vedevo mai nessuno che somigliasse, nemmeno vagamente, alla mamma e a Shun: erano come due anomalie, due esseri fuori posto, e spesso la gente li guardava in modo un po’ strano, recando sul volto parecchie domande inespresse.

Nella mia testolina infantile si ingarbugliavano parecchie questioni che non capivo e cominciai a chiedere un sacco di cose, articolando domande semplici e ingenue.

E adesso che sono cresciuto, andando indietro con la memoria e i ricordi, riesco a ricostruire qualcosa di ciò che erano i miei genitori… Adesso che so tutta la verità… adesso che ho scoperto l’identità del mio vero padre… quel vero padre che non riesco ad accettare… Il mio papà era colui che aveva aiutato mia madre ad allevare due figli che lui non aveva contribuito a mettere al mondo ma che amava come se fossero suoi.

Dovettero passare molti anni prima che mi fu concesso di scoprire come stavano le cose, in maniera traumatica… solo pochi mesi fa per essere precisi.

Colui che credevamo nostro genitore ha in realtà conosciuto nostra madre quando io già ero nato e lei era in attesa di Shun. Era evidentemente stata sedotta da quel bastardo di cui mi ripugna solo fare il nome, anche adesso che ho compreso il senso della nostra vita e forse trovo, nei suoi confronti, un minimo di giustificazione… Già una volta, dopo la mia nascita, l’aveva abbandonata, per poi tornare dopo due anni a giocare di nuovo con la sua innocenza e la sua ingenuità. In un certo senso lo ringrazio… se lui e mia madre non si fossero incontrati nuovamente, Shun non sarebbe mai nato… a volte mi dico che, forse, sarebbe stato meglio così, per quel povero ragazzo che è mio fratello, dato quello che ha dovuto sopportare ma, egoisticamente parlando, cosa farei io senza di lui? Cosa farebbe il mondo intero se lui, lumicino di purezza nelle tenebre che lo avvolgono, non esistesse?

Mia madre era rimasta completamente sola; la sua famiglia l’aveva ripudiata già dopo la prima gravidanza e lei si era presa cura di me senza ottenere l’appoggio di nessuno.

Era ancora molto giovane, poco più che adolescente quando rimase incinta di Shun; se ne andò dall’Irlanda, sua terra d’origine e, in Inghilterra, incontrò Koji… papà… egli rimase incantato da lei, dal suo candore, dalla sua gentilezza, da quegli occhi e da quel viso che ho la fortuna di ricordare bene perché Shun, del tutto identico a lei, ne mantiene viva la memoria.

Ovviamente, non posso conoscere le circostanze del loro primo incontro, non le posso ricordare, come non posso assolutamente ricordare il modo in cui i fatti si svilupparono; non ho la più minuscola memoria della prima volta in cui le loro strade si incrociarono e del perché cominciai a chiamarlo “papà”. Per me era semplicemente, da sempre, il mio papà e lui non mi ha mai smentito, come non smentì Shun in seguito.

Forse avrebbe dovuto dirci la verità? Sarebbe stato più giusto e onesto nei nostri confronti?

Non lo so, non sono in grado di esprimere un parere, di analizzare questo fatto con la ragione, non sono abile nell’usare la ragione; tutto quello che so è che non gli rimprovero nulla e che gli sarò grato eternamente per averci donato, anche se per così poco tempo, la gioia di avere un padre da considerare realmente tale.

In fondo non era una bugia… ci ha amato davvero come figli; l’autentico padre è stato lui, non certo quel mostro che, geneticamente, ci ha permesso di venire al mondo.

Forse sbaglio ad essere tanto duro alla luce della presa di coscienza mia e dei miei compagni… eppure mai smetterò di odiarlo, non tanto per me stesso ma per ciò che ha fatto a mia madre, a mio fratello… Potrà essere irrazionale questo odio dato che lui è stato, in fin dei conti, una pedina, come tutti noi lo siamo… ma non trovo niente di razionale nella mia esistenza e allora perché devo esserlo io nel perdono?

Papà ci condusse con lui nei suoi viaggi, senza mai una meta fissa; tuttavia, la gravidanza di mia madre lo convinse a trovare un porto stabile, dove fermarci almeno per un po’.

Così, tra un viaggio e l’altro, giungemmo qui, nel Sol Levante, qui dove entrambi i nostri “padri” erano nati e dove sia io che mio fratello venimmo allevati come piccoli giapponesi.

Intanto Shun cresceva bene e senza problemi di salute; fisicamente era piccolo e delicato ma quella fragilità era tutta apparenza.

 Con la sua bellezza e il suo aspetto singolare attirava le attenzioni di molti; aveva due occhi grandissimi e dolci, di una sfumatura indefinita tra il verde e l’azzurro che ricordava il mare in tempesta… e che ricordava gli occhi di nostra madre. Poteva capitare, a seconda del tempo, che uno dei due colori prevalesse sull’altro.

Non era solo il colore a colpire in quelle iridi: erano due specchi infiniti che aprivano una finestra nel suo cuore. Ancora oggi è facilissimo capire al volo cosa prova mio fratello… basta guardarlo negli occhi.

E in essi c’era.. e c’è… anche qualcosa di più, una saggezza nell’osservare il mondo che, a prima vista, è facile scambiare per ingenuità ma che nulla ha di più diverso… e quella fiducia nel prossimo che non si è estinta neanche in seguito a tutte le sofferenze che hanno ferito il suo sensibile cuore… quegli occhi, quello sguardo, hanno da sempre la capacità di richiedere amore donandolo e danno l’impressione di saper leggere nel profondo dell’anima altrui… e oggi sono sicuro che è proprio così… Shun sa intuire quello che provano coloro che lo circondano e, con la sua singolare sensibilità, si comporta di conseguenza.

Era tranquillo ma vispo; si guardava intorno con un’intelligenza acuta e intuitiva e, allo stesso tempo, con un’emotività sconcertante.

Era timido ma la sua fiducia verso chiunque lo portava a sorridere sempre: non poteva concepire la crudeltà, tutto il mondo era buono per lui. Secondo il suo punto di vista, perché qualcuno avrebbe dovuto fargli del male?

Purtroppo per lui, ha imparato a sue spese che il mondo non gli assomiglia affatto e tuttavia questa realtà non è servita a cambiarlo… ha solo velato di sfumature malinconiche e tristi il suo carattere solare.

 

 

 

 

Sono così lontani, nella mia mente, quei giorni della nostra infanzia, talmente tante cose sono accadute, che essi sembrano appartenere ad un’altra vita.

Una felicità effimera destinata a spegnersi, due piccole vite destinate ad essere gettate in un baratro senza fine, una caduta nell’orrore, nella sofferenza, una caduta che ancora oggi continua, senza freni e senza speranza.

Forse sono pessimista, tanto pessimista quanto ero gioioso in quegli anni lontani… in quell’altra vita, dovrei dire.

I nostri sogni furono infranti nel giro di poche ore; sembra impossibile come pochi istanti siano sufficienti per distruggere, in un colpo solo, anni di serenità, le speranze di due genitori amorevoli che desideravano la miglior crescita possibile per noi, i sogni di due bambini la cui unica fortuna, la cui unica salvezza, si è rivelata quella di poter stare insieme, almeno per un po’, in seguito alla tragedia.

Shun non aveva ancora due anni, io mi avvicinavo ai quattro quando nostro padre decise che era il momento di spostarsi nuovamente.

Mia madre accolse la notizia con un’espressione scura, forse per la prima volta la vidi davvero delusa ed arrabbiata; aveva sperato nella stabilità, aveva sperato che potessimo crescere in quel Giappone che lei tanto amava pur non appartenendole, quel paese che la teneva a distanza per la sua stranezza, come teneva a distanza il mio fratellino.

Eppure lei stava bene in quell’angolo di periferia, stava bene quando poteva aggirarsi per le verdi campagne, aspirando i dolci profumi d’oriente, la delicata essenza dei petali di ciliegio danzanti nel vento, la spiritualità che impregnava quei luoghi ameni e distanti dalla caotica città… forse le ricordavano i posti dove era nata e cresciuta, in qualche modo, nonostante il Giappone sia davvero molto diverso dalle praterie irlandesi.

E ora papà le diceva quelle parole che sperava di non ascoltare mai più:

“Dobbiamo partire; mi hanno offerto un lavoro molto fruttuoso in Germania.

Lei non rispose nulla; si alzò e si affacciò alla finestra.

Ero sempre stato molto sensibile ai momenti di tristezza di mia madre, come ora lo sono quando ombre di angoscia attraversano i luminosi occhi di Shun: mi sembra di vedere lei, così solare, costretta a piegarsi alle ingiustizie della vita, come Shun deve, a tutt’oggi, piegarsi ad un destino orribile che non merita e che io non posso cambiare, essendo anche il mio destino.

E allora mi arrabbio, divento freddo, lo spingo ad essere forte, a volte con parole così cattive che, dopo, mi morderei la lingua, perché so che non è giusto; dovrei limitarmi ad incoraggiarlo, a spronarlo ad affrontare il destino a muso duro ma senza cambiare… Nonostante gli rivolga parole crudeli spesso, io non lo voglio diverso: se persino lui cambiasse, se questo orribile mondo riuscisse a modificare, a ghiacciare in qualche modo l’anima del mio fratellino, anche la speranza volerebbe via, triste, offesa… sconfitta.

Nostra madre era come lui e le sue tristezze mi angosciavano allo stesso modo; era lì, fragile e sola, a quella finestra e, in quel momento, io, così piccolo, detestavo chi le aveva detto qualcosa di brutto e l’aveva fatta soffrire: era tutto ciò che, al momento, riuscivo a comprendere.

Shun, poverino, assorbiva, come gli accade ancora oggi, l’umore di chi lo circondava e fin da allora stava male se qualcuno, intorno a lui, soffriva.

I suoi occhioni di smeraldo fissavano impauriti la mamma: ovviamente non sapeva cosa fosse accaduto ma la mamma era triste ed era questo che non poteva sopportare.

Era seduto sul pavimento, circondato dai suoi giocattoli che, ormai, avevano perso ogni attrattiva per lui: le sue attenzioni erano tutte per mamma e, forse, fu proprio lui il primo ad accorgersi della sue lacrime.

Aggrappandosi a una sedia si sollevò in piedi, reggendosi con le sue gambe ancora un po’ malferme e tese le manine verso l’esile figura alla finestra:

“Mamma” chiamò.

Poi aggiunse qualcosa, con il suo vocabolario ancora incerto, qualcosa che io compresi: “Non piangere.

Solo in quel momento mi decisi a muovermi, sbattendo a terra rabbiosamente il biscotto che stavo sgranocchiando e fulminai mio padre con lo sguardo:

Perché l’hai fatta piangere? ti odio!” urlai, scattando in piedi.

Papà mi guardò allibito; ero sempre stato piuttosto vivace ma probabilmente non mi ero mai rivolto a lui con quella cattiveria.

Lo stupore lasciò subito posto al nervosismo; non mi accorsi neanche della sua mano che si mosse, sentii solo il dolore bruciante quando colpì la mia guancia.

Contemporaneamente, le mie orecchie furono raggiunte dagli strilli di mio fratello e dalla veemente protesta di mia madre:

Koji! Sei impazzito?!

Un attimo dopo lei era al mio fianco e mi stringeva a sé, scrutando ansiosa il mio volto contuso.

Io ero rimasto silenzioso, troppo sconvolto per reagire; papà non mi aveva mai picchiato prima, era impensabile per entrambi i nostri genitori una cosa simile.

I suoi occhi angosciati fissavano sbarrati la propria mano che aveva compiuto quel gesto… e tremava…

Quell’immagine è tornata ora alla mia memoria e credo che non la dimenticherò mai più.

Forse mio padre disse qualcosa, quando si inginocchiò anche lui accanto a me, qualcosa tipo: “Mi dispiace Ikki… Non volevo…”

Io non piangevo; mi stavo arrabbiando ancora di più perché udivo i singhiozzi impotenti di Shun, che aveva assistito alla scena senza che il suo cuore di bimbo potesse comprendere nulla se non la terribile atmosfera, se non il fatto che il nostro adorato papà mi aveva appena fatto del male, come mai prima d’ora e aveva fatto piangere la mamma.

Perché nessuno badava a lui?

Ora so che papà e mamma erano troppo confusi.

Mi divincolai con forza dalla stretta e loro due seguirono con gli occhi la mia corsa verso Shun, ogni mio gesto; mi chinai e lo strinsi, cullandolo e mormorandogli parole di conforto, tutte quelle che un bambino di quasi quattro anni, forse un po’ precoce, poteva trovare.

Shun si calmò, strofinando la sua testolina castana contro il mio petto, aggrappandosi a me con le sue dita bianche di bimbo.

Papà e mamma ora erano in piedi e ci guardavano; piangevano entrambi e la mamma disse:

“I nostri due angeli ci hanno appena dato una lezione di vita.

 

 

 

 

Quello stesso giorno, la mamma ci prese con sé e ci portò nella vicina campagna per una gita all’aria aperta; era primavera, eppure nevicava…

Ma dal cielo non piovevano freddi fiocchi ghiacciati bensì petali, donati al vento dai ciliegi in fiore.

La mamma camminava a piedi nudi, sfiorando la superficie smeraldina del prato con la stessa leggerezza di quei petali leggiadri. Mi conduceva per mano e, dall’altra parte, teneva in braccio Shun che sgambettava felice, cercando di acchiappare quelle cose strane che gli volteggiavano intorno, come per salutarlo e fargli festa.

Un petalo si posò sulla sua manina tesa e il suo candore rosato si fuse con la nivea pelle di Shun, il quale si lasciò sfuggire un gridolino di trionfante, semplice gioia. Poi allargò di nuovo le piccole dita e lasciò andare quel petalo, libero di continuare così il suo volo; gli occhioni verdi sgranati seguirono quel petalo danzante con l’estasi pura di chi ha appena assistito a un prodigio.

Per un bambino così piccolo è normale gioire in questo modo di cose all’apparenza tanto insignificanti ma, per quanto sia incredibile dopo tutto quello che ha passato, Shun ci riesce ancora adesso: sa sorridere con stupore e dolcezza ai più minuscoli miracoli della vita.

In estate avrei compiuto quattro anni, mentre quelli di Shun sarebbero stati due a settembre; eravamo ancora innocenti e sereni, conoscevamo solo l’affetto dei nostri genitori e i piccoli traumi che tutti i bambini devono affrontare per crescere ma sempre sotto la costante sorveglianza di due persone amorevoli per le quali rappresentavamo la vita intera.

L’episodio di poche ore prima era forse stato un preludio alle tenebre e, a dire la verità, era sembrata la naturale conseguenza di un periodo difficile per i nostri genitori, una cupezza che, probabilmente, avevo percepito e che rendeva anche me più nervoso del solito, tanto da spingermi a rivolgermi con quel tono a papà.

Forse era per lenire un po’ questo nervosismo che la mamma ci aveva condotto a quella scampagnata fuori programma. In realtà lo faceva spesso, amava portarci fuori, soprattutto allontanarci dalla città per farci entrare in contatto con le manifestazioni più genuine della vita e dell’esistenza, quelle che solo in mezzo alla natura incorrotta è possibile ancora incontrare. Lei desiderava che non dimenticassimo queste origini, le sue origini, il suo legame con una terra verde e selvaggia, il suo sangue incontaminato che ci aveva trasmesso… non lo dovevamo dimenticare.

Eppure l’uscita di quel pomeriggio non era stata prevista, altrimenti io lo avrei saputo parecchie ore prima, fin dal mattino o dalla sera precedente… e soprattutto papà non era con noi… era una stranezza in fin dei conti… sembrava che la mamma volesse stare da sola con noi per qualche ora… ripensandoci adesso, probabilmente era proprio così.

Fermò i propri passi sotto il ciliegio più maestoso del parco, il sovrano incontrastato, pensai io, lavorando con la mia fantasia infantile e trasformandolo, nella mia mente, in un immenso guerriero vestito di bianco, circondato dai suoi fedeli seguaci in altrettante candide armature, tutti uniti e pronti a versare il proprio sangue e a mettere a repentaglio le proprie vite in nome di un comune ideale.

E’ quasi ovvio pensare che questo mio sogno ad occhi aperti recasse in sé un forte senso di predestinazione, è ovvio, ora, concludere che in quell’albero avevo visto Athena e nei suoi simili tutti noi, suoi soldati in nome della giustizia….

Ma no… non voglio contaminare di significati che esulano dalla loro innocente essenza anche gli innocui sogni infantili… almeno quei primi anni della mia vita, desidero ardentemente che siano esistiti per se stessi, per il semplice amore che teneva unita la nostra bella famiglia… voglio che le mie fantasie di bambino restino tali e pure; in fin dei conti, tutti i bambini sognano, tutti si creano immagini nelle proprie fervide menti per dare spiegazioni anche assurde a ciò che li circonda… perché questo diritto dovrebbe essere negato a mio fratello ed a me?

Fui felice che la mamma avesse scelto proprio l’ombra generosa di quella pianta per accovacciarsi e posare Shun sul prato.

Trovandosi improvvisamente libero dall’abbraccio protettivo, il piccolo interruppe di colpo i giocosi mugolii e i frenetici movimenti, guardandosi intorno con aria interrogativa e sperduta; ma appena i suoi immensi occhi, sfiorati per un istante dal terrore dell’abbandono, si posarono su di noi seduti lì, accanto a lui, il visetto dolce si rasserenò immediatamente, tornando sorridente e radioso e le sue manine ricominciarono a dare la caccia ai petali volteggianti mentre il suo sguardo prese a vagare alla ricerca di cose nuove e degne della sua attenzione.

Ben presto ci ignorò completamente, troppe erano le attrattive di quel luogo immerso nella natura per una mente attenta e recettiva come la sua; il leggero ondeggiare di ogni singolo filo d’erba, il balzo improvviso di ogni piccolo insetto che capitava nel suo raggio visivo, erano fonte di un interesse senza pari e sufficienti a provocare i suoi urletti di estasiata soddisfazione.

Finché avesse percepito al proprio fianco la presenza rassicurante di chi lo amava, non avrebbe avuto paura di nulla e ogni cosa sarebbe stata degna di curiosità e incredibili scoperte: è sempre stato così il mio piccolo Shun… l’affetto nei suoi confronti equivale ad alimentare in lui la fiducia in stesso… fin da quando è nato, l’essenziale per lui è non essere solo… la solitudine la sua nemica peggiore. Deve vivere nell’amore, ha bisogno di ricevere amore e forse soprattutto di darne… di dare tutto ciò che ha dentro, tutto se stesso.

Nostra madre si perse qualche istante a contemplarlo mentre io, a mia volta, contemplavo lei… la scrutavo in realtà… solitamente, nel suo sguardo, quando ci osservava, erano racchiuse tante cose, tanti sentimenti, tante sensazioni ma non quella tristezza che stavo percependo allora, non le era mai appartenuta.

Poi si avvide della mia occhiata, mi sorrise, come riscuotendosi da uno stato di sospensione nel quale sembrava essere caduta e mi tese le braccia:

“Vieni qui, Ikki.”

Sgattaiolai fino a lei che mi abbracciò e mi fece appollaiare sul suo grembo, cullandomi e baciandomi la nuca.

“Il mio cucciolo forte” mormorò con la voce che le tremava “Sono tanto orgogliosa di te… e sono così sollevata di sapere che non abbandonerai mai Shun e che potrà sempre contare su di te…”

Smise per un istante di parlare e mi circondò le guance con le mani, per farmi sollevare il viso e potermi così guardare bene negli occhi; mi trovai ad affogare nelle enormi pozze di splendente smeraldo:

E tu potrai sempre contare su di lui… tutti potranno contare su di lui. C’è qualcosa di speciale in tuo fratello, Ikki, qualcosa che non so spiegare a parole, qualcosa che, forse, solo in quanto madre posso prevedere e comprendere pienamente.

Si fermò ancora e scosse il capo con una risatina:

“Come posso pensare che tu capisca simili discorsi? Mi viene istintivo parlarti sempre come se tu fossi una persona grande, forse ti sopravvaluto… sei ancora così piccolo.

Sbattei le palpebre… io capivo, capivo sul serio ma non riuscii a parlare in quel momento; ero semplicemente incantato… e in più c’era quella vaga sensazione di malessere che emanava da lei e mi scendeva nel cuore e che mai, prima d’ora, mi era capitato di collegare alla sua persona.

Emise un sospiro alquanto doloroso e proseguì:

“Ti basti sapere questo Ikki… tuo fratello è speciale.”

Finalmente ritrovai la voce e dissi, con tutta la serietà di cui ero capace:

“Ma io lo so mamma… non c’è nessuno come Shun.

Sgranò gli occhi, che divennero enormi e lucidi e, dopo un attimo di esitazione, mi strinse così forte che sembrava volersi fondere con me, come eravamo prima che nascessi:

“Non ti sopravvaluto invece… caso mai ti ho sempre sottovalutato amore mio; sei il bambino più intelligente che abbia mai incontrato e non lo dico perché sei mio figlio. Anche tu sei speciale… i miei due piccoli sono unici al mondo!”

Mi liberò dal soffocante abbraccio ma non smise di sommergermi di parole, anche se riprese il discorso con tono più pacato:

“Non dimenticarlo mai Ikki: siete speciali, due fratelli unici al mondo. Dovrete restare sempre uniti, anche nelle difficoltà, anche quando tutto sembrerà complottare contro di voi, il vostro legame dovrà vincere ed essere più forte di ogni avversità… anche se il destino vorrà separarvi, i legami della fratellanza non verranno spezzati perché resteranno saldi, come saldi saranno i vostri cuori, in ogni istante della vostra vita… promettimelo Ikki.”

Promisi con un semplice cenno del capo ma a mia madre bastò e annuì a sua volta:

“Grazie Ikki… siete speciali… siete fratelli e al mondo non c’è nessuno come voi*…”

Parole in apparenza semplici ma che racchiudevano tutto ciò che avrebbe dato un senso alla mia vita, parole che rischiai di tradire, come rischiai di tradire, in un’unica volta, mia madre e mio fratello… un breve periodo, in cui rinnegai me stesso e tutto quello che ero, tutto ciò che per me contava e mai riuscirò a cancellare quei giorni di tenebra, mai la mia coscienza cancellerà la mia colpa nei vostri confronti madre mia, mio amato fratello.

Quel pomeriggio lontano, sotto il ciliegio, la mia esistenza ebbe una svolta; capii per la prima volta il significato del mio essere al mondo, quel significato che oggi ho ritrovato, dopo la parentesi di oscurità che aveva imprigionato ogni mio pensiero.

Un urletto acuto di Shun attrasse la nostra attenzione; il piccolo aveva adocchiato un gatto solitario che passeggiava indisturbato a qualche passo di distanza. Non poteva sfuggire ai sensi sempre vispi del mio fratellino e, come ogni creatura dotata di soffio vitale, non poteva non risultare interessante per lui. Shun amava e ama la vita e niente, neanche l’esperienza più atroce, potrà mai distruggere questo enorme rispetto per tutto ciò che ha un proprio posto nell’universo.

Si alzò… evidentemente si era messo in testa che doveva raggiungere “signor Micio” e salutarlo, magari presentarsi e pregarlo di diventare suo amico.

I suoi piani non andarono esattamente come aveva previsto; le sue gambe non erano ancora sicure e, spiccata una corsa talmente precipitosa che né io né la mamma fummo in grado di avvedercene in tempo, fece appena pochi passi e capitombolò a faccia in giù sul prato, fortunatamente per lui abbastanza soffice da risparmiargli una caduta troppo rovinosa.

Esplose in strilli disperati, mentre io saltavo velocemente giù dalle ginocchia della mamma e volavo al suo fianco, precedendo persino lei.

Percependo la mia presenza Shun, continuando a singhiozzare sconsolato, allungò le braccine per gettarmele attorno al collo.

Un istante dopo, la mamma mi esonerò da quella responsabilità e sollevò Shun da terra; assicurandosi che non si fosse fatto nulla lo cullò, mormorandogli parole di conforto. Le bastarono pochi secondi di coccole esperte per calmarlo e per farlo passare, con una velocità sorprendente, dalle lacrime al riso, complice il gatto responsabile del piccolo dramma che, nel frattempo, si era avvicinato fiducioso e evidentemente disponibile alle offerte di amicizia che anche io avevo cominciato a rivolgergli.

La mamma riposò mio fratello sull’erba e lui, ben presto dimentico del precedente spavento, si dedicò anima e corpo all’affettuoso felino che accettava con infinita pazienza e collaborazione i giochi  cui Shun lo sottoponeva.

Il mio fratellino era tuttavia delicato e gentile; non avrebbe mai fatto nulla di male ad alcuna creatura vivente e, da quando ha dovuto imparare a lottare, a ferire, spesso ad uccidere, qualcosa in lui si è irrimediabilmente spezzato. Questa lacerazione, questa cicatrice che rimarrà indelebile a segnare il suo cuore gli impedirà per sempre di aspirare alla completa felicità.

Mi porterò dentro finchè avrò vita la gioia incontaminata di quel volto infinitamente buono, nel momento in cui il gatto gli si accoccolò sulle gambe per addormentarsi poco dopo; non voglio dimenticare, mai, quel visetto d’angelo estasiato in seguito a quel piccolo miracolo, non voglio dimenticare come anche quell’animale si sia sentito protetto e al sicuro sul grembo di quella creatura straordinaria che è sempre stato mio fratello, fin da allora.

Quando il gatto si fu addormentato, Shun continuò ad accarezzarlo, soffiandogli nelle orecchie dolci parole; sembrava tanto grande, responsabile… immenso quel bambino di non ancora due anni, un piccolo cherubino ammantato d’amore.

Infine, facendo la massima attenzione a non disturbare il suo morbido ospite, si sdraiò sul prato e si abbandonò anch’egli al sonno, beato e sorridente, inconsapevole del proprio futuro, sognando solo la bellezza del mondo, desiderando null’altro che l’armonia di quegli istanti sereni.

Piccolo fratello mio… come vorrei restituirti la gaiezza di quegli istanti, come vorrei cancellare tutto il dolore che ti ha privato per sempre della felicità di quel bambino addormentato sul prato, abbracciato a un gatto che subito ti ha amato e circondato da noi che ti amavamo dall’istante in cui avevi aperto i tuoi occhioni fiduciosi sul mondo.

La mamma si commosse nell’osservare quella scena ed era chiaramente percepibile dal tremito della sua voce oltre che dallo sguardo che nulla riusciva a nascondere:

“Vorrei tanto vedervi grandi… vorrei tanto essere ancora con i miei due ometti quando saranno cresciuti…”

Rizzai le orecchie; una frase così strana non poteva sfuggirmi. Le sfiorai delicatamente una mano:

“Mamma… tu sarai sempre con noi.

La sentii sussultare a queste mie parole e io non riuscivo a capire perché appariva, all’improvviso, così spaventata. Mi guardò, esitante e un po’ confusa; sembrava lei stessa, ora, una bambina spaurita.

Mi posò una mano sul capo e arruffò dolcemente i miei riccioli neri:

“So che ce la farai… il nostro Shun dipenderà totalmente da te all’inizio ma anche lui diventerà forte, anche lui sarà un uomo in gamba… però… la sua emotività, il suo fragile cuore, lo faranno soffrire atrocemente… e tu, tesoro mio…”

Piangeva ormai e io non sapevo cosa stesse accadendo. Allungò le braccia fino ad avvolgermi nella sua stretta che, lo ricordo distintamente, mi trasmise una sofferenza che mi terrorizzò. Eppure io mi trattenevo; non potevo piangere anche io. Fin da bambino mi sentivo in dovere di non piangere, di non farmi vedere debole… io dovevo essere forte, soprattutto nei confronti della mamma e di Shun, per proteggerli. Solo da papà accettavo che fosse più forte di me.

Grazie proprio a mio fratello, ora so che piangere non significa essere deboli; tuttavia non ho mai accettato di far pesare sugli altri le mie lacrime, è un atteggiamento del quale non posso fare a meno.

“Tesoro mio” ripeté, strofinando la sua guancia contro la mia “come vorrei salvarti da tutto quello che dovrai affrontare… so che soffrirai, enormemente, e io non sarò lì a proteggerti mentre il mio desiderio più grande sarebbe quello di accompagnare ogni passo della vostra esistenza…”

Quel discorso sfuggì quasi del tutto alla mia comprensione, comunque infantile anche se precoce; istintivamente, risposi con le prime parole che mi salirono alle labbra:

“Mamma, sono io che devo proteggere te!”

Per lo meno riuscii a farla ridere:

“Lo so cucciolo, so che ne saresti quasi in grado; vorrei supplicarti di non pretendere di crescere così in fretta, di restare bambino il più a lungo possibile… vorrei chiederti di restare il mio piccolo Ikki per sempre ma non oso… non sarebbe giusto nei tuoi confronti perché sarai costretto a crescere più velocemente di quanto sia umanamente concepibile. Ma tu sei già grande…”

“Mamma… perché parli così?”

Non riuscivo più a trattenere le mille domande che quei discorsi astrusi alimentavano nella mia mente.

Lei non rispose direttamente; si portò una mano al collo ed estrasse qualcosa che teneva nascosto sotto la camicetta leggera. Quindi mi prese il polso e mi costrinse a mostrarle il palmo della mano aperta, per posarvi sopra l’oggetto misterioso; poi mi fece chiudere forte le dita su di esso.

Le riaprii quasi subito, per vedere bene di cosa si trattava: era un splendida stella d’argento, finemente lavorata, con una scritta nel mezzo che ancora non ero in grado di leggere.

Yours ever” sillabò la mamma, indicandomi le lettere una ad una “Tuo per sempre… è l’unico regalo prezioso che papà abbia potuto permettersi di farmi… quando è nato Shun ha voluto darmi questa stella, dicendomi che in essa si riflettevano tutte le stelle che brillano negli occhi del tuo fratellino…”

Sollevai lo sguardo verso di lei, ammirato; non capivo perché me lo avesse mostrato proprio in quel momento.

“Desidero che lo teniate voi, ora; sarà il mio legame con voi, un modo per essere sempre al vostro fianco…”

Il mio sguardo correva alternativamente dal gioiello alle sue pozze verdi e intense come il mare in tempesta, soprattutto nei momenti come quello, in cui erano rese acquose dalle lacrime che desideravano sfogarsi all’esterno, come i flutti di un oceano sconvolto dalla rabbia della natura.

Mi mise le mani sulle spalle e mi parlò ancora, con una serietà che non le avevo mai visto usare neanche con papà:

“Vedi Ikki, Shun è ancora così piccolo… non avrà alcuna possibilità di ricordarsi di me quando sarà più grande. Solo tu sarai il suo punto di riferimento, il sole intorno al quale ruoterà la sua crescita. Io vorrei tanto, tuttavia, che mantenesse un legame con me, che si ricordasse qualcosa della sua mamma… non il mio volto ma il mio amore, che potesse sentire la mia presenza, sentire che l’ho amato e lo amerò in eterno, che sarò sempre con lui, nel suo cuore, come nel tuo…”

Così dicendo, mi posò una mano sul petto; sono assolutamente certo che in quell’istante sentii qualcosa, un fluido scendermi nell’anima… tutta la forza del suo amore per me…

“Ikki… tu ricorderai questi istanti, lo so… ma lui non potrà… per questo dobbiamo trovare il modo di trasmetterglieli, di fargli capire quanto gli voglio bene come tu, ora, stai comprendendo quanto ne voglio a te…”

Non potei fare altro che annuire; al di là della paura che quelle parole suscitavano in me, al di là delle implicazioni drammatiche di quello che stavo ascoltando, di quelle frasi delle quali non riuscivo a cogliere le motivazioni, sentivo che quello era, per me e per Shun, un momento fondamentale… oggi sono certo che è stato cruciale, se non il più importante della nostra vita.

“Per questo devo chiederti un immenso favore, amore mio: conserva questa stella e, quando Shun sarà abbastanza grande o quando tu riterrai che sarà il momento giusto, forse quando sentirai che un destino crudele sarà sul punto di separarvi, prendilo da parte e dagliela, parlandogli di questo momento… e di me… lui è speciale e capirà… mi sentirà allora e sentirà la mia voce che gli dirà quanto gli voglio bene…”

Avrei voluto pregarla di non parlare in quel modo, di non comportarsi come se avesse dovuto abbandonarci poco dopo ma non riuscivo in alcun modo a spezzare la sacralità di quel momento con vane parole.

La realtà è che non so, adesso, con quale stato d’animo stavo assimilando quei discorsi complicati… con rassegnazione, accettazione, nuda consapevolezza? O consideravo tutto semplicemente troppo assurdo per credere a quello che sentivo?

Mi prese di nuovo in braccio senza smettere di guardarmi fissamente negli occhi:

“So che sto pretendendo molto da te, Ikki, ma se lo faccio è perché non ho altra scelta ed ho completa fiducia nella tua intelligenza e nel tuo coraggio. Probabilmente, se mi vedessero parlare così con un bimbo di quattro anni, mi darebbero della pazza ma chi può conoscerti meglio di quanto ti conosca io?”

Mi puntò il dito indice sul naso, dandomi una leggera spinta, un gesto di affettuosa monelleria che le era proprio, sia con noi bambini che con papà; le sfuggì anche una leggera risatina che spazzò via, come per incanto, la tristezza che aveva impregnato ogni sua parola:

“Ora, Ikki, fammi un bel sorriso per dimostrarmi che hai capito!”

Non so come potei obbedire in seguito a quel suo monologo terribilmente profetico… eppure lo feci… non fu un sorriso ilare e infantile, almeno credo, ma il sorriso consapevole di chi desidera rassicurare una persona amata che sarà fatto il possibile per realizzare la preghiera da lei espressa.

Ancora non sapevo cosa sarebbe accaduto di lì a poco… ma il colpo che ho assimilato in quanto sacro guerriero, il Phoenix Genmaken che mi permette di estirpare le verità più nascoste e oscure dell’animo umano, non l’ho fatto mio per caso… effettivamente io vedo nel cuore altrui… non come mio fratello che intuisce le cose grazie alla sua spiccata sensibilità… io non sento con il cuore… vedo con assoluta chiarezza gli spaventosi segreti che si nascondo nell’oscurità più profonda dello spirito… e probabilmente, anche allora, vidi…

Stranamente non riesco a ricordare altro dei giorni che precedettero la tragedia, se non un particolare che rimane nitido dentro di me: non mi staccai più da Shun, neanche per un istante, l’unico legame che ben presto mi sarebbe rimasto con una famiglia che stava per essere distrutta dal fato… l’unica mia stella in un cielo che stava per tingersi di tenebra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           

 


 


* Questa frase viene detta da Ikki nell’episodio di Asgard dove si parla dell’affetto fraterno; Ikki la dice rivolgendosi a Bud: “Siamo fratelli e non c’è nessuno come noi.” Ho pensato che potesse averla sentita da sua madre e averla assimilata con molta intensità (mi riferisco, ovviamente, alla versione originale giapponese e non a quella stravolta italiana).

 

   
 
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